Sopraffare gli altri per sopravvivere: “Squid Game” mostra il vero volto del capitalismo - THE VISION
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Sono passati nove anni da quando il video di “Gangnam Style”, il singolo del rapper sudcoreano PSY, sbaragliava ogni classifica diventando il primo vero fenomeno virale planetario e dimostrando all’occidente che la Corea del Sud non era un luogo trascurabile né tantomeno estraneo al nostro mondo, in quanto a sapienza nell’uso dei codici che rendono un prodotto di successo. Gangnam è la Beverly Hills di Seul, uno dei quartieri più ricchi del Paese e il tormentone la usa come setting per parlare di un mondo di ricchissimi che sembrano non avere nulla da dire e da fare, e nel frattempo ballano un motivetto orecchiabile che si prende l’occidente, lasciando tutti storditi.

Nel tempo che separa “Gangnam Style” da Squid Game, la serie sudcoreana che è oggi al primo posto in 90 Paesi diventando la serie Netflix più vista di sempre a ridosso del lancio, l’occidente non è rimasto a digiuno di prodotti di successo sudcoreani, a riprova che gli Stati Uniti e Hollywood non sono più l’unico terreno su cui misurare lo stato dell’arte mainstream. C’è stato Burning – L’amore brucia del regista Lee Chang-Dong, un dramma di grande complessità ed estrema eleganza e il più noto Parasite, il film del regista Bong Joon Ho che si è aggiudicato quattro premi Oscar svelando ciò che si cela dietro ai quartieri dei ricchissimi della capitale.

Parasite ha vinto molti premi perché è un film riuscito ma è stato amato dal pubblico perché raccontano qualcosa che pur ambientato in un Paese molto lontano ci riguarda e in cui ci riconosciamo: le grottesche conseguenze di un sistema socio-economico che se in occidente ha prodotto negli ultimi vent’anni larghe schiere di precari impoveriti e giovani disoccupati, in Corea del Sud è andato oltre frammentando una società senza scale di grigi a sfumare i confini fra la classe dominante e quella dominata.

Squid Game rappresenta il punto di arrivo di questa narrazione asiatica che oggi si propone di denunciare le storture del Capitalismo, in particolare rispetto all’economia del debito che domina la vita di milioni di persone. Il debito è una dimensione di povertà che alle ristrettezze e alle difficoltà aggiunge un continuo stato di ansia, data dalle scadenze dei pagamenti, dagli interessi crescenti e dall’avidità dei creditori, ma anche dalla paura di non poter più partecipare in maniera attiva al mondo: lo stesso senso di esclusione che provano i bambini quando capiscono che nel formare le squadre verranno scelti per ultimi.

Che a raccontare questa realtà sia un regista sudcoreano non è un dettaglio trascurabile. La Corea del Sud, infatti, a partire dal secondo dopoguerra è diventa in poco tempo uno dei Paesi più ricchi dell’Asia, ma le disparità socio-economiche si sono acuite in maniera sempre più netta, fino a deflagrare in seguito alla crisi finanziaria asiatica della fine degli anni Novanta, portando il Paese all’undicesimo posto tra le nazioni più ricche con maggiore disuguaglianza, secondo i dati dell’Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD). L’alto tasso di disoccupazione dei giovani coreani, unito all’ossessione per il raggiungimento dell’affermazione sociale a qualunque prezzo e con qualsiasi tasso di interesse sta creando sacche di malcontento e di esasperazione. 

Proprio da qui prende le mosse la serie del regista Hwang Dong-hyuk, che usa l’espediente del gioco come metafora di un sistema che, nel suo procedere spedito, si disfa di chi non regge il ritmo. Il protagonista è il quarantenne Gi-hun, interpretato magistralmente dall’attore Lee Jung-jae, che insieme ad altre 455 persone sommerse dai debiti, in fuga dai creditori o cadute nelle maglie del gioco d’azzardo, vengono chiuse in una sorta di isola-bunker labirintica che richiama le angosciose scale di Escher, per affrontare una serie di prove, superate le quali ci si potrà aggiudicare un montepremi che raggiunge la cifra finale di 45,6 miliardi di won (circa 33 milioni di euro). Chi perde viene fisicamente eliminato, in maniera spietata ma rapida e sistematizzata, come dimostrano le bare prontamente riempite con i cadaveri dei perdenti fatte sparire in un batter d’occhio. Le prove sono giochi nella connotazione più infantile del termine, in un ritorno all’infanzia che però non è più ingenuità e divertimento, sebbene la scenografia richiami in modo inquietante il mondo color pastello del design per l’infanzia, ma è lotta per la sopravvivenza, tanto esistenziale – all’interno di quest’universo assurdo e parallelo – quanto materiale – all’interno dell’altrettanto assurdo sistema economico in cui gli indebitati aspirano a ritornare da vincenti.

Pur non nutrendo illusioni sulla bontà della vita che li aspetta, se mai riusciranno a riaverla, i giocatori si confrontano con accanimento, perché comunque l’attaccamento alla vita è più forte di qualsiasi cosa. Se il primo gioco è un grottesco un-due-tre stella dove al primo passo falso ci si ritrova stesi sul terreno da uno dei molti cecchini appostati intorno al campo da gioco, le prove che seguono replicano in maniera al contempo sadica e ludica, l’aleatorietà che regola il successo nel mondo del capitalismo sfrenato. A differenza di quanto si potrebbe pensare, infatti, non c’è traccia della meritocrazia tanto osannata dai neoliberisti e quasi sempre il successo è dettato esclusivamente dal caso. Se a volte la forza fisica può aiutare, e altre invece l’ingegno o l’esperienza, alla fine dei conti nessuna di queste caratteristiche è davvero sufficiente per assicurarsi la sopravvivenza.

La messa a punto di una strategia di gioco funziona meglio quando è condivisa dai membri di un gruppo, come dimostra il gioco del tiro alla fune, ma la maggioranza delle prove è pensata perché alla solidarietà, a cui naturalmente tendono gli esseri umani nei momenti di maggiore criticità, si oppongano l’egoismo e la diffidenza, in una lotta continua contro i propri simili per accaparrarsi il montepremi – l’equivalente di 33 milioni di euro che invece che essere equamente distribuiti, risolvendo i problemi di tutti, verranno aggiudicati a una sola persona. Nei giochi messi a punto dal misterioso Front-man di Squid Game – un uomo mascherato che detta la legge – c’è un’implicita ma implacabile pedagogia dell’egoismo: i concorrenti che all’inizio hanno aiutato chi si trovava in difficoltà, imparano presto che sopravvivere equivale a sopraffare. La lotta per il denaro è lotta per la vita perché, nel mondo fuori, la loro vita senza denaro non è una vita ma un inferno. E questa lotta per la sopravvivenza non contempla né l’amore, né il perdono o la compassione, né tantomeno la giustizia. Quando questi sentimenti e valori si affacciano sulla sceneggiatura a dare speranza allo spettatore esausto, non tardano a rivelarsi sentimenti e valori perdenti, da reprimere proprio per non perdere.

Così, uno a uno i gareggianti muoiono, uccidono o si tolgono la vita. A nulla serve disperarsi appellandosi a un qualche concetto di umana pietas. A nulla serve il “fermate tutto, voglio scendere” a cui pure molti ricorrono quando si sentono ormai stremati e disgustati dal gioco macabro di cui sono diventati le pedine. La giostra non si ferma e l’esercito delle guardie vestite di rosso con il volto coperto da maschere che sembrano voler sottolineare l’impersonalità e l’impenetrabilità del potere, continuerà a eseguire gli ordini mandando avanti la baracca, costi quel che costi. E se in molti momenti la serie cede in uno splatter rivoltante, non si può dire che sia gratuito. Il continuo sgorgare del sangue, i crani sfondati, gli organi estratti, servono infatti a mettere in luce che la violenza che nella vita ordinata della comunità è bandita, risorgerà non appena sarà evidente che il sistema che abbiamo messo in piedi la richiede.

Squid Game ci dice, attraverso il personaggio stesso del creatore del gioco, che ciò che accomuna le persone senza soldi e quelle con troppi soldi è che la loro vita non è felice. Alla luce degli altri prodotti culturali che ci sono arrivati da questo Paese dalle forti disparità, tanto nel quartiere di Gangnam, quanto nei tuguri dei poveri di Parasite, così nell’infernale campo da gioco di Squid Game, una sola cosa sembra assicurata: l’infelicità. Questi prodotti culturali non rivelano nulla di nuovo. La chiave del loro successo sta piuttosto nella violenza con cui mettono in scena verità finora raramente rappresentate in maniera tanto cruda ed eclatante.

Dopo quarant’anni di progressivo smantellamento del welfare, privatizzazione dell’economia e impoverimento sociale gli effetti devastanti del neoliberismo sono sotto gli occhi di tutti. Ciononostante, alla celebre frase dell’allora prima ministra britannica Margaret Thatcher “There is no alternative”, riferita al modello liberista come unica via praticabile dall’economia mondiale, questi prodotti culturali, né tantomeno i loro spettatori, sembrano voler ribattere.

Tanto Parasite quanto Squid Game dipingono egregiamente la disfatta di un sistema che non è stato in grado di garantire il benessere della maggioranza, ma dalla loro critica non emerge alcuna valida alternativa. Forse non ci si può aspettare che una serie tv inserita a pieno titolo nelle logiche della produzione capitalista fornisca la chiave per un nuovo e più giusto assetto economico e sociale, ma se questo filone dovesse continuare ad affermarsi come quello più amato dal grande pubblico, dovremmo constatare con il filosofo Mark Fisher che non solo siamo incapaci di immaginare un’alternativa valida al capitalismo, ma che anche i prodotti culturali “anticapitalisti” vengono del tutto inglobati dalle stesse logiche che criticano, diventando di fatto culturalmente innocui. Se Squid Game ha dimostrato che milioni di persone riconoscono la presenza di un problema, il passo successivo sarebbe quello di immaginare insieme delle valide alternative, invece di lasciarsi stordire da un’escalation di violenza senza prospettiva.

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