Quando La grande bellezza vinse l’Oscar si diffuse uno strano morbo che trasformava anche il più disinteressato spettatore da Transformers 4 e bidone di popcorn in un autore eminente dei Cahiers du Cinéma. Tanti inneggiavano a una presunta impreparazione dell’Academy nell’aver scelto il film di Sorrentino, ritenendolo un prodotto assolutamente indegno della rappresentanza italica all’autorevole premiazione. “Non significa niente, non ha senso”: il leitmotiv del coro di risentimento verso il film che celebra la vuota esistenza del cinico Jep Gambardella era quasi sempre indirizzato verso la struttura narrativa dell’opera. Anche le brillanti imitazioni di Maurizio Crozza, che non si sforzavano nemmeno di stemperare i difetti fonetici che rivelano la sua provenienza tutt’altro che campana, vertevano sull’insensatezza della trama. “Posso fare un film sull’assenza,” dice Crozza con i capelli arruffati e le protesi dentali, “Ah bello, vuole fare un film sull’assenza di valori?” chiede l’interlocutore immaginario del comico, “Io pensavo più all’assenza di trama”. Come se le storie si dovessero necessariamente narrare attraverso una concatenazione lineare e razionale di eventi, senza tenere conto di quella distinzione fondamentale tra fabula e sjužet teorizzata dai formalisti russi per differenziare appunto la trama di base e l’intreccio che invece vuole dare l’autore nel raccontare quella stessa trama.
Paolo Sorrentino, in realtà, ha bene in mente l’intreccio che vuole dare ai suoi film. Ciò che invece certe volte manca al regista vista proprio l’impalpabilità tanto infamata dei racconti che mette in scena, è un’altra cosa. Alcuni dei suoi film, più che senza senso, sembrano voler a tutti costi ostentare un senso che poi, alla fine, arriva sotto forma di esagerazione. Nella sua produzione piuttosto ristretta – ha girato solo otto film da regista e una serie televisiva per Sky – sembra che il delicato equilibrio tra immagini, personaggi quasi caricaturali e stralci onirici regga l’impatto con la resa finale in modo altalenante. Tutti i suoi protagonisti sono, in effetti, una ripresentazione di loro stessi, anche se leggermente variati: un uomo che si raffronta con la crisi di un potere estinto, o corroso, o tanto eccessivo da essersi tramutato in noia. È come se ci fosse un Jep Gambardella in ogni suo film – se vogliamo ergere lui a esponente massimo della poetica di Sorrentino, quanto meno per una questione di popolarità.
Sin dal primo lungometraggio il tema è quello. L’uomo in più, del 2001, parla di un ex calciatore, Antonio Pisapia, che ha interrotto la sua carriera all’apice del successo per colpa di un infortunio e che prova in tutti i modi di non essere sputato fuori dal mondo da cui proviene, tentando una carriera da allenatore e fallendo (in modo abbastanza misero, considerato che si uccide); contemporaneamente, il suo omonimo, nonché personaggio che darà inizio al sodalizio tra Servillo e Sorrentino, vive il fallimento di una carriera musicale non particolarmente brillante spezzata da uno scandalo sessuale. Sia gli elementi narrativi che estetici tipici di Sorrentino si possono individuare in nuce già in questo primo film, che fa dello squallore e della decadenza lo scenario per una rappresentazione a tratti “incomprensibile”, se con questo termine intendiamo tutti quei pezzi di scena in cui succedono cose apparentemente slegate – tipo donne che urlano e piangono in spiaggia, sommozzatori e ballerine di danza classica. Probabilmente nel regista c’era ancora quel misto di timidezza e prudenza da opera prima a porre un lieve freno alla sua fantasia, tant’è che il risultato per L’uomo in più è quello di un film per nulla oscuro, nonostante i tratti meno didascalici di una trama tradizionalmente lineare.
Nei due film successivi, invece, si viene a creare quella situazione di bilanciamento miracoloso tra l’intenzione di Sorrentino di generare un’atmosfera pregna della sua poetica e la possibilità di tradurla in qualcosa di molto interessante. Le conseguenze dell’amore, prima, ma soprattutto L’amico di famiglia sono così: mentre li guardi sai di trovarti sul filo del rasoio tra un’accozzaglia di immagini casuali – e pretenziose – e un film oggettivamente molto riuscito. La storia dell’usuraio inserito in un tessuto sociale slegato da una particolare determinazione di tempo e spazio, circondato da un paesaggio metafisico che ricorda un quadro di de Chirico e caratterizzato soprattutto dalla recitazione e dall’aspetto stesso del protagonista, l’attore Giacomo Rizzo, sta perfettamente in piedi. La decadenza spirituale di un personaggio del genere si mescola bene ai picchi di surrealismo, tra personaggi vestiti da cowboy e spose disperate che appaiono come Madonne addolorate.
Con L’amico di famiglia si rivelano le singole parti che compongono il cinema di Sorrentino e quello che succede quando l’impressione finale diventa un mix privo di senso, ovvero, quando una di queste parti prevale sull’altra, lasciando un vuoto che genera confusione in chi guarda. Il film in questione, infatti – esattamente come tutti i film di Sorrentino – non ha dialoghi veri e propri ma una serie di monologhi esistenziali che si alternano, componendo un quadro di massime assolute sul significato della vita. La stessa cosa succede ne Il Divo, dove di Andreotti emerge principalmente la sua natura aforistica: sembra che il presidente democristiano parli solo per frasi memorabili ed esemplificative dell’intero mondo che lo circonda. Mentre in questi due film la struttura che sorregge questa artificialità comunicativa è molto forte, avendo un apparato estetico efficace che supporta il tutto, in altri film di Sorrentino questo non si verifica esattamente nel migliore dei modi. Ed è a quel punto, allora, che si è portati a pensare cose come “non significa niente”.
Per quanto riguarda La grande bellezza, il suo film più tartassato – sicuramente perché il più esposto – quello che secondo me si può imputare al film è appunto la banalità del messaggio, quando ogni frase vuole diventare una precetto piuttosto dozzinale di edonismo e vacuità alto-borghese. Anche se, a mio parere, La grande bellezza riesce comunque a rendere bene l’idea di una lunga e spassionata cartolina di Roma, motivo per cui secondo il regista stesso agli americani è piaciuto così tanto, più che per una – seppur palese – velleità felliniana. Considerato pure che La dolce vita è una ed è universalmente assodato (spero) che non si possa sostituire con qualche rivisitazione moderna. Questa penuria di dialogo, dunque, è sempre presente, solo che in altri film come Il Divo e L’amico di famiglia passa in secondo piano grazie a una densità di contorno che ammortizza il parlato ridondante e didascalico. Cosa che invece non succede in altri film, come This must be the place e Youth, dove Sorrentino sembra slanciarsi ancora di più verso un’ostentazione di liricità eterea e a tratti sconclusionata. Il risultato appare così una raccolta di monologhi decontestualizzati che pretendono di scavare nell’abisso dell’animo umano, fino a risultare grotteschi.
Anche qui siamo davanti alla rappresentazione del disfacimento individuale, al ricordo di una vecchia e ormai estinta gloria: quella di Sean Penn nelle vesti di una rock star decaduta e votata all’incomunicabilità e quella dei due pensionati che contemplano la fine della loro vita, immersi in scenari metaforici e muggiti, accanto a una specie di Maradona obeso che non riesce più a palleggiare, appesantito dalla gravità dell’esistenza, a donne che ricordano iconografie di fertilità, e altre cose del genere. Troppa determinazione a fare un film che contenga un senso alto e che invece finisce per perderlo del tutto, troppe trame singole che finiscono per accavallarsi e non riuscirne a tirare fuori nemmeno una che sia degna di seguire. Il tutto accompagnato da una nota di fondo: la noia. Quanto meno, la bisboccia di Jep Gambardella nello sfarzo dell’opulenza capitolina, per quanto stucchevole, mantiene comunque viva l’attenzione. In questi casi, invece, le immagini e i personaggi non supportano a sufficienza la maschera che ha sempre nascosto Sorrentino dal suo più grande problema, quello di non essere proprio un asso nella scrittura dei dialoghi, che preferisce delegare a formule universali.
E dunque, non è che i suoi film non abbiano senso o che questo sia troppo alto da intendere, tanto da farli apparire inutili esercizi di stile che si traducono in un’antipatia diffusa per il regista – che di suo è anche abbastanza schivo. Semmai, è quando non è in grado di dare il supporto adeguato con ciò che gli riesce meglio – le immagini, appunto, non le parole – che poi rischia di deludere chi lo apprezza e di innervosire chi già parte col dente avvelenato. E allora poi non ci vuole nulla a dire “eh ma nei film di Sorrentino non si capisce nulla.”
All’alba del suo ultimo film, Loro, che promette una rappresentazione frenetica e caricata proprio come nel caso de Il Divo, spero quindi che Sorrentino non abbia mancato il punto più efficace della sua cifra stilistica, quei ritratti barocchi ed esagerati che lo rendono sempre riconoscibile, ma anche un altro elemento che forse è la chiave della riuscita dei suoi migliori film: la raffigurazione della truffa. È un truffatore il protagonista de Le conseguenze dell’amore, che inganna i suoi aguzzini; è un truffatore Geremia, l’usuraio de L’amico di famiglia, che a sua volta viene truffato da qualcuno più furbo di lui; è un truffatore Giulio Andreotti, perché quello che era veramente non l’ha mai fatto capire bene a nessuno; ed è un truffatore anche Jep Gambardella, che campa di rendita di una esplosione artistica che ormai si è completamente consumata ma che continua a fargli da lasciapassare per un mondo dal quale non vuole più uscire. Che Silvio Berlusconi possa essere un ottimo spunto per continuare questo ciclo di celebrazione dell’inganno, lo spero proprio, e immagino che materiale ce ne sia in abbondanza. Mi auguro invece che non si perda in una narrazione sovraccaricata di significati che non portano a nulla se non alla loro stessa parodia, e di conseguenza alla parodia di Paolo Sorrentino.