Il volto bianco e severo di Silvana Mangano che perde qualsiasi possibilità di riscatto sociale per il divertimento di una nobile annoiata in Lo scopone scientifico, film del 1972 di Luigi Comencini, per qualche ragione, mi è rimasto scolpito nella memoria in modo molto più violento e spietato di quello di un qualsiasi concorrente di Squid Game. So bene che tra una serie sudcoreana contemporanea piena zeppa di effetti speciali e di immagini splatter e un film di quasi cinquant’anni fa con Alberto Sordi c’è ben poco in comune, ma il senso di Lo scopone scientifico è molto simile a quello della serie Netflix: i due protagonisti, marito e moglie, vivono in una baraccopoli della periferia romana, in mezzo al fango e al disagio più estremo. Ogni anno, una vecchia miliardaria americana torna nella sua villa lussuosa e, per puro diletto, invita la coppia a giocare a carte con lei. In palio c’è un premio che per la vecchia non significa nulla, ma per i due coniugi borgatari vuol dire cambiare vita per sempre, uscendo dalla povertà assoluta in cui si ritrovano. Nel film, Alberto Sordi recita la parte del marito incapace e goffo, causa della tragica sconfitta al gioco spietato a cui prendono parte nella speranza di rivoluzionare la loro esistenza. Sordi, come al solito, è un attore straordinario, e lo è in particolare quando si ritrova a interpretare ruoli a cavallo tra una comicità patetica e una tragedia umana misera e anti-eroica; ma la vera protagonista del film, in questo caso, è Silvana Mangano: magnetica, inafferrabile, algida ma al contempo drammatica in modo estremamente umano. È nel suo sguardo nero e gelido che si consuma la sconfitta impotente del povero, condannato a vivere la doppia umiliazione di doversi prestare a un gioco simile e a perdere – oltre che a doversi vendere anche fisicamente al desiderio di un uomo, Righetto, che in cambio del suo corpo le promette di vincere tutto giocando al posto del marito e di riscattare la baracca che si sono giocati con la vecchia, perdendo di nuovo.
Lo scopone scientifico è tra gli ultimi film in cui Silvana Mangano compare da protagonista ed è una delle tante pellicole in cui viene diretta da registi che hanno fatto la storia del cinema italiano. Non è l’unica attrice di quel periodo che ha segnato con un’impronta indelebile l’immaginario culturale del nostro dopoguerra, anzi, probabilmente non è neanche il primo nome che viene in mente quando si pensa al cinema che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, quello dei mattatori, degli sceneggiatori che venivano dal neorealismo, della commedia all’italiana e dei capolavori di Fellini, Antonioni, Pasolini e tanti altri. La peculiarità di Silvana Mangano, a differenza delle sue altrettanto talentuose colleghe, è che la sua forma è sfuggente. Essere una diva del cinema per lei non è stato tanto un modo di imprimere un unico simbolo nazionale, quanto più un gioco di ombre che l’ha resa per molti aspetti una personalità enigmatica del cinema, malinconica e inafferrabile.
La prima immagine di Silvana Mangano che la storia ci consegna è quella di lei vestita da mondina in Riso amaro. Il film del 1949 di Giuseppe De Santis è già di per sé un manifesto del Neorealismo. La sua presenza, che senza ombra di dubbio contribuisce anche al grande successo in sala del film, è a dir poco centrale non solo per il suo talento precoce e istintivo nella recitazione, ma anche per il modo dirompente in cui usa la sua fisicità in scena. Gli abiti della mondina, con la maglia a maniche lunghe attillata, i pantaloncini e i gambaletti fino alla coscia, sono quello che oggi nel linguaggio delle riviste di moda potremmo definire uno statement, una dichiarazione di intenti che passa attraverso ciò che si indossa. Nel film neorealista per eccellenza, una ragazza con un corpo formoso e un viso stupendo diventa il ritratto non solo di un immaginario femminile che avrebbe determinato la moda del decennio successivo, tra pin-up e maggiorate, ma anche un messaggio di indipendenza e forza fisica che la rendeva oltre che affascinante e sensuale anche proiettata verso il futuro prossimo della rivoluzione femminista anni Sessanta. Silvana Mangano diventa così non solo una sex symbol ma anche una personalità ammaliante, una figura al contempo erotica e oscura, non a caso ripresa anche tanti anni dopo da una scena famosa del film di Nanni Moretti Caro Diario che, usando una lunga scena di Anna di Alberto Lattuada, costruisce una sua sequenza di danza ipnotica sulle note de “El Negro Zumbón”.
Ma l’immagine così ammaliante e prosperosa di questa donna, che nel frattempo ha sposato uno dei più grandi produttori del cinema italiano, Dino De Laurentiis, non rimane fisso sul parametro impostato ai suoi esordi. Diventa più selettiva rispetto ai ruoli da interpretare e con gli anni Cinquanta esplode la sua carriera, parallelamente a tanti film fondamentali per la storia culturale del nostro Paese ma anche del cinema mondiale: non solo diretta da registi come Vittorio De Sica, con cui gira L’oro di Napoli e con cui vince un Nastro D’Argento, ma anche Mario Monicelli e il ruolo al fianco di un cast eccezionale come quello di La grande guerra, uno dei film più importanti del regista, un racconto struggente dell’Italia spaccata dalla prima guerra mondiale che trova in questa pellicola una sintesi perfetta tra la commedia monicelliana e l’eredità neorealista.
Ma è con l’arrivo degli anni Sessanta che il volto e l’essenza di Silvana Mangano cambiano, tramutando la sua immagine traboccante di femminilità classica, quasi botticelliana, in una nuova versione molto più austera e ammaliante. Nei film successivi, infatti, prevale un suo lato impenetrabile, streghesco potremmo dire, che va di pari passo con le sue scelte lavorative: con Pasolini, per esempio, gira il film a episodi Le streghe, e poi ancora Edipo Re e Teorema.
Sia per i ruoli che seleziona accuratamente, sia per il modo in cui impara a utilizzare i suoi tratti, rendendoli molto più enigmatici e oscuri, la figura di Silvana Mangano assume una sembianza inedita per il concetto stesso di diva del cinema, prendendo un bivio fuori da ogni previsione per chi l’aveva vista esordire nei panni di una giovanissima e dirompente mondina.
Non solo Pasolini, ma anche Luchino Visconti firma un sodalizio con l’attrice romana, che diventa protagonista di sue pellicole come Morte a Venezia, un film che la vede in un ruolo ancora più rarefatto e impalpabile. Se già la trama del libro di Thomas Mann è un capolavoro nebbioso di sentimenti torbidi, confusione e morbosità, il ruolo di Silvana Mangano, ossia quello della madre del giovane Tadzio, nel riadattamento di Visconti è una prova ancora più convincente, oltre che sorprendente, del suo cambiamento e della nuova essenza così eterea della sua bellezza da renderla quasi un ectoplasma, un’apparizione intensa e perturbante. Non è quindi un caso, forse, che da questo stato così evanescente e misterioso, un tratto del suo carattere che in molti testimoniano fosse presente non solo sul set e nei suoi personaggi ma anche nella sua dimensione privata, che determina il passaggio a una fase finale della sua vita fatta di depressione, isolamento e ritiro in una dimensione tanto distaccata e impalpabile quanto lo era il suo sguardo. Fino poi alla morte del figlio, la malattia e la sua scomparsa, silenziosa e distante, quasi in dissolvenza.
Silvana Mangano al cinema ha lasciato la sua presenza magnetica. Un equilibrio sfingeo di bellezza esagerata, forme quasi caricaturali da quanto sono marcate e al contempo di invisibilità, lontananza, immaterialità. Una sintesi emblematica della femminilità e del rapporto che ogni donna ha con questa: un continuo oscillare, alle volte quasi schizofrenico e incontenibile, tra la voglia di apparire e farsi vedere il più possibile e quella di nascondersi, sparire. Silvana Mangano è stata capace di mettere insieme gli aspetti più apparentemente distanti della sua immagine, cambiandola e plasmandola attraverso le età, diventando un’icona non solo perché giovane bellezza prosperosa, ma soprattutto grazie al cambiamento del suo corpo e nel modo incredibilmente elegante di vederlo invecchiare, senza perdere un briciolo del suo charme. Per questo motivo rimane una vera e propria icona del nostro cinema, desiderata e ammirata anche da registi stranieri come David Lynch – che la volle a tutti i costi per un cameo nel suo Dune, penultimo ruolo da lei interpretato nel 1984, prima della morte. Silvana Mangano è un’icona fatta non solo del suo corpo statuario, ma anche di sguardi così intensi e incisivi da riaccendersi nella nostra memoria a distanza di decenni, guardando una serie che con la sua storia non c’entra nulla.