“La scelta di Sophie” racconta l’impossibile sopravvivenza di un genitore alla morte di un figlio - THE VISION

La sindrome del sopravvissuto appare tra i sintomi principali del disturbo post-traumatico da stress (DPTS) ed è caratterizzata principalmente da un profondo e inestinguibile senso di colpa, per cui il sopravvissuto non si dà pace. La sua stessa esistenza diventa una sorta di prova di colpevolezza, nella domanda: “Perché io sì e gli altri no?”. I sopravvissuti si sentono gratuitamente privilegiati rispetto a coloro che non ce l’hanno fatta e si ritengono responsabili per non aver fatto abbastanza per salvarli o per prevenire la catastrofe, anche se in realtà è chiaro che non avrebbero potuto mai fare niente per cambiare il corso degli eventi, dato che si scontrano con fenomeni la cui portata trascende le loro possibilità d’azione, o perché casuali o perché nati da una particolare condizione storica che li sovrasta.

Furono molti i superstiti all’Olocausto nazista – probabilmente il più grande trauma del mondo occidentale dopo la guerra di trincea – che si tolsero la vita ed è proprio nel filone narrativo che percorre questo scenario sul possibile futuro delle vittime che si inserisce La scelta di Sophie, film pluripremiato del 1983 tratto dall’omonimo romanzo del premio Pulitzer William Styron e diretto magistralmente da Alan J. Pakula, in grado di creare una perfetta alternanza ritmica e compositiva tra presente e passato. Nelle scene di impostazione più teatrale, a differenza di quanto ci si aspetterebbe, si sviluppa la linea temporale principale della vicenda. Sono quasi tutti spazi interni e l’unica esterna connotata, al di là di un parco e dell’inquadratura della casa in cui si consuma la maggior parte della vicenda, è il simbolico ponte di Brooklyn – la cui costruzione costò la vita di moltissimi operai – che finisce in realtà per offrirsi anch’esso come uno spazio chiuso, per via del caratteristico gioco di tiranti che lo compongono. Il passato, invece, prende forma in scene dalla costruzione più libera, viva e vibrante, quasi a suggerirne un grado di realtà più alto di quello che invece spetterebbe per antonomasia al presente.

La storia è ambientata nel primo dopoguerra, momento in cui un aspirante scrittore originario della Virginia che si fa chiamare Stingo (interpretato da Peter MacNicol) – probabile alter ego dello stesso Styron – si trasferisce a New York per ampliare i suoi orizzonti e sperare di terminare il suo romanzo. Una volta arrivato nella grande città, essendo Manhattan troppo costosa, trova sistemazione a Brooklyn, in una strana villetta tutta dipinta di rosa, che sembra uscita da una favola bizzarra. Quello del narratore in veste di testimone di una vicenda umana incredibile che solo tangenzialmente gli appartiene e che ciononostante lo forma è un topos narrativo ricorrente della letteratura americana, basti pensare a Colazione da Tiffany di Truman Capote, ma anche a La fine della strada di John Barth o ancora a Un gioco e un passatempo di James Salter. 

Al piano di sopra di quella stessa casa vivono infatti Sophie e Nathan, una coppia affascinante ed eclettica che subito attira la sua attenzione con una scenata di violenza inaudita lungo le scale di casa. Proprio in quell’occasione le prime parole che sentiamo pronunciare attraverso le orecchie di Stingo da Nathan a Sophie sono: “Io ho bisogno di te come si ha bisogno della morte”. E lì per lì si pensa a una di quelle orrende frasi violente che si alzano nelle peggiori sfuriate di coppia. Solo con il progredire del film si capisce che per Nathan, così come per Sophie, l’idea della morte è vista e avvicinata come una vera e propria cura, una liberazione.

Sophie Zawistowska – interpretata da un’immensa Meryl Streep, che vinse l’Oscar grazie a questo ruolo – è un’immigrata polacca sopravvissuta ad Auschwitz; Nathan Landau – uno smagliante Kevin Kline – è invece un raffinato intellettuale ebreo che – come Stingo scoprirà solo molto più avanti, a differenza di Sophie che è all’oscuro di tutto – soffre di schizofrenia paranoide ed è dipendente da anfetamine e cocaina. Fra i tre si instaura un legame profondo, tanto che Stingo si immerge sempre di più nel loro mondo, a lui così come a tanti altri statunitensi sconosciuto, fino a condividere in tutto la loro vita, quasi fosse una sorta di figlioccio acquisito più che un vertice di un mènage à trois.

Stingo, in tutta la prima metà del film, è il testimone ingenuo e quasi ottuso, che semplicemente non può capire neanche lontanamente la portata esistenziale della vicenda con cui entra in contatto. Stingo interpreta il ruolo del personaggio “sano”, integro, per certi aspetti quasi banale, quello che Thomas Mann – rifugiato anch’esso in America per sfuggire al nazismo – avrebbe definito con una certa amarezza l’appartenente alla stirpe dei Blauaugigen, degli “occhiazzurrini”, in quell’altra grande storia d’amore e amicizia che è la novella Tonio Kröger. Eppure, il giovane aspirante scrittore vuole poter capire, vuole farlo con tutte le sue forze. Pensa di riuscirci grazie all’affetto profondo e alla sincera curiosità che prova per i suoi due nuovi amici, che lo affascinano come solo l’ebbrezza per la vita data dalla consapevolezza di essersela già giocata riesce a fare. In questa storia Eros e Thanatos si dispiegano in tutta la loro sublime potenza, in una danza che si snoda attraverso ritmi e atmosfere diverse (grazie ai continui turning point della trama e ai numerosi flashback), fino a detonare e sciogliersi, come un sommesso sussurro. Ancora una volta gli viene ribadito: “Non capisci Stingo? Stiamo morendo”.

Ciò che esiste al mondo, per forza di cose, sta già a tutti gli effetti morendo – il concetto di essere-per-la-morte di Martin Heidegger. Per il filosofo, che visse l’incubo del nazismo, l’esistenza è autentica quando è pervasa dall’angoscia che scaturisce dal prendere coscienza della nostra stessa finitudine. Eppure per vivere l’essere umano coltiva una sognante sospensione di incredulità, che lo convince della sua eternità. Alcuni esseri umani muoiono però mentre sono ancora vivi. L’esistenza li rende testimoni dello squarcio del reale dato dalle declinazioni della morte stessa: la  violenza, l’ingiustizia, la brutalità, la sopraffazione, la menzogna. È il caso di Sophie e Nathan. Stingo dice di voler capire, di voler conoscere la verità. Ma Sophie mente perché sa che la verità, anche nella remota possibilità che esista, non significa più nulla. Dice di non sapere nemmeno poi cosa sia la verità, dopo tutte le bugie che ha detto per salvarsi la vita. L’Olocausto ha distrutto la matrice stessa su cui gli esseri umani avevano costruito fino a quel momento il mondo e lei, a differenza di una figura come la scrittrice olandese Etty Hillesum, non riesce a fare quel salto nella fede che le permetterebbe di salvarsi spiritualmente e psicologicamente, di continuare a tenere uniti i possibili significati del mondo nel suo sguardo.

Per riuscire a salvare in extremis la sua anima e riunirsi in un movimento emotivo coerente, Sophie prova allora fino all’ultimo respiro la sua fedeltà nei confronti di un altro essere umano senza speranze, senza possibilità di redenzione per il mondo, che pure ha fatto di tutto per salvarla, a suo modo, come a rianimarla, soffiandole aria nei polmoni, in un ultimo goffo e commovente tentativo di vita: Nathan, che come lei vive e sopravvive mentendo. La sua stessa forma mentale gli impedisce infatti di costruire un’unità narrativa della sua identità e del mondo, e pare trovare riposo solo nell’arte, sia musica o poesia.

La scelta di Sophie sembra la versione tragica e intrisa di storia della poetica che affiora da tante splendide favole dello scrittore e poeta danese Hans Christian Andersen. I due personaggi che rincorrendosi portano avanti l’azione sono infatti rotti, irrimediabilmente segnati. L’esempio più eclatante è probabilmente quello del soldatino di stagno e della ballerina. Sophie sa di essere una donna finita, sa che non potrà mai più avere un marito, dei figli. Ha bruciato ogni possibilità che la vita poteva darle. Dopo quello che ha passato, sa che tutto ciò che al massimo può aspettarsi è qualche leggero, folle momento di gioia e di oblio. Così Nathan le regala un pianoforte, anche se lei non riesce più a suonare glielo suona lui tenendola in braccio, come se le sue mani fossero il prolungamento di quelle di Sophie. Allo stesso modo la proposta di matrimonio che le fa è una splendida quanto portentosa parodia. La vita stessa, dei sani, dei normali, dei funzionali, con le sue regole assurde appare d’altronde allo stesso modo come una farsa, ancora più grottesca, perché privata della gioia.

Dopo l’ennesima e sempre più grave e aggressiva crisi di Nathan, Stingo scappa insieme a Sophie, cercando di allontanarla per proteggerla, ma non capisce che lei non vuole essere salvata, tutt’altro. Lei infatti gli dice che non ha paura di morire, ma che Nathan muoia senza di lei. Stingo alza la posta e le dice che se accetterà, come si augura, di vivere al Sud insieme lui dovranno per forza sposarsi e in quel momento si manifesta ancora una volta l’assurdo dell’ingranaggio sociale, lo stesso che degenerando ha portato all’Olocausto. Sophie allora si decide a raccontargli l’enorme segreto che non ha mai avuto il coraggio di condividere con nessuno, che non le permette di continuare a vivere e di cui non si perdonerà mai: aver scelto, pur sotto costrizione, all’ingresso di Auschwitz e sotto gli occhi famelici di un sadico ufficiale delle SS, di salvare solo uno dei suoi due figli, Jan, condannando la figlia Eva alla camera a gas. È con quest’ultima straziante confessione che il ventiduenne vergine e velleitario di un paesino minuscolo della bigotta Virginia finalmente realizza di appartenere al mondo dei vivi; e Sophie, riuscita a dire l’indicibile grazie all’amore e alla disponibilità di ascolto di Stingo, finalmente si libera e capisce di essere pronta a morire. 

Per questa stessa ragione Sophie ama Nathan, perché sono uguali. Nathan appartiene alla sua stessa stirpe, è senza futuro. A causa del suo disturbo psichiatrico sa che la realtà non esiste e che il farla esistere è una forzatura, una mera convenzione sociale, che può essere sia mostruosa che meravigliosa, ma a cui lui in ogni caso – proprio come Sophie – non potrà più appartenere. Nei due personaggi feriti sembra riverberare l’incubo dell’innaturale perfezionismo che ossessionava il regime, quando l’esistenza è per sua stessa costituzione imperfetta e varia e per questo ricca. Quando la società perde di vista questa consapevolezza il sistema e insieme ad esso gli individui che lo compongono deragliano. Il nazismo, infatti, nella sua paranoia voleva eliminare il fallimento dal mondo.

Se è vero che cerchiamo e siamo attratti da persone che incarnino un lato di noi che non riusciamo a raggiungere, Sophie sembra essersi legata a Nathan, ossessionato da una follia omicida contro i nazisti, perché sa che lui la punirà, come lei non è stata in grado di fare. Così Stingo è attratto da loro perché gli mostrano il baratro che la psiche dell’individuo è costantemente portata a superare per esistere e mantenersi unita, e che ogni scrittore che spera di definirsi tale deve conoscere per poter raccontare storie universali. Stingo, infatti, vuole scrivere un romanzo ma non conosce né l’amore né la morte, di cui qualsiasi grande opera d’arte si nutre, sono Sophie e Nathan che glieli fanno toccare con mano, trasformandolo a sua volta in una sorta di sopravvissuto, di testimone appunto. Nathan e Sophie sono degli splendidi folli. Entrambi feriti, entrambi rinnegati dalla società, entrambi con un’intelligenza e un desiderio di vita feroce. Sono esseri umani rotti e meravigliosi. E Stingo sembra essere l’unico disposto a vederli e ad amarli per come sono.

Nathan dice a Stingo di non sprecare il suo talento. Sa che lui e Sophie non possono avere futuro: sono anime condannate e tormentate. Per questo vivono disperati e intensissimi attimi di pura felicità. Sophie, così come Nathan, vive nell’orizzonte temporale del momento, non può più avere una prospettiva di senso esistenziale. Per loro la realtà è frammentata, si è spaccata in mille pezzi, che non possono più stare uniti. Sophie sa di non poter più appartenere a nessuno. L’unica fedeltà possibile, che può riservare a qualcuno e ancora dimostrarle di esistere è quella che le resta nei confronti di Nathan, che non può abbandonare a nessun costo, perché lui l’ha salvata senza salvarla, accompagnandola alla liberazione data dalla morte, finalmente in pace.

Stingo è lo spettatore impotente di una tragedia già scritta, ma l’incontro con questi due esseri umani sancisce per lui una vera e propria rinascita, illuminata dal ricordo del volto di Sophie. A differenza di tutti i coraggiosi sconfitti della terra, però, a lui non aspetta ancora un giorno del giudizio, ma solo un normale mattino. Così sembra prometterci che farà di tutto affinché per lui e per quelli che lo circondano ogni nuovo mattino sia “eccellente e giusto”, come scriveva la grande poetessa statunitense Emily Dickinson nei famosi versi che sancirono l’incontro disperato dei suoi due amici: Sophie e Nathan.

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