Il cinema di denuncia di Francesco Rosi resta ancora il migliore
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C’è stato un momento nella storia del cinema italiano in cui sembrava che un film non avesse senso di esistere, a meno che non contenesse un messaggio sociale, una denuncia, una rappresentazione fedele e spietata della realtà – un “impulso etico-politico” lo definiva il critico Alberto Asor Rosa – che smuovesse le coscienze. Erano gli anni del Dopoguerra e l’esigenza di rendere imprescindibile il legame gerarchico tra etica ed estetica ci ha fatto un gran bel regalo, il neorealismo. Nascere con un’ambizione artistica negli anni appena successivi a quelli della formazione della scuola italiana più elogiata della storia del cinema deve essere stato molto stimolante. La sensazione di dover mantenere alto il livello a cui si era arrivati e contemporaneamente evolvere lo stile per non rimanere fermi a un’infinita rivisitazione di Ladri di biciclette sicuramente deve essere stato un bel motore motivazionale. Tra i giovani che ebbero questa imperscrutabile fortuna anagrafica – e geografica – Francesco Rosi fu uno dei più capaci di assorbire quel patrimonio di conoscenza e quell’impostazione registica. Il suo cinema era evidentemente il frutto di una linea diretta con l’epoca che lo aveva preceduto, la sua accademia cinematografica era stata al fianco di Visconti. Il risultato fu piuttosto soddisfacente: il cinema di Rosi era il cinema dell’inchiesta, un genere che probabilmente oggi non ci sembra più così tanto raro da incontrare ma che invece fu una grande intuizione del regista napoletano.

Luchino Visconti
Francesco Rosi

Il bivio della biografia di Rosi più interessante, infatti, forse è proprio quello che gli si parò davanti nel momento in cui invece di entrare al centro sperimentale di cinema si trovò a lavorare direttamente come aiuto regista con Luchino Visconti e Franco Zeffirelli. Il film era La terra trema, la famosa rivisitazione dei Malavoglia, e di quella collaborazione Rosi ne parlerà sempre quando gli si chiederà di mettere un po’ di ordine nella sua formazione da regista, per comprendere quali fossero le influenze e le scuole da cui era emerso. Era il film neorealista in cui pescatori e massaie di Aci Trezza facevano da protagonisti, interpreti di quel luogo sia nella realtà che nella finzione: un’atmosfera perfetta per un appassionato delle questioni meridionali come Rosi.

Scene dal film “La terra trema”

Qualche anno dopo, invece, la collaborazione con Visconti si ripropose sia per Senso, quel meraviglioso polpettone a tema risorgimentale tratto dal racconto di Camillo Boito in cui il leitmotiv è il sospiro tragico della protagonista “Franz, non siamo più a Venezia”, sia come sceneggiatore di Bellissima.

Scene dal film “Senso”

Se di Senso emerge quell’aspetto pittorico e perfezionista del cinema di Visconti, in Bellissima invece si percepisce tutto l’animo neorealista – anzi, realista, ma la questione tra la definizione esatta è piuttosto complessa – in cui poteva spaziare la scrittura di Rosi: c’era il soggetto di Zavattini, c’era la presenza di Anna Magnani, c’era la Roma del Dopoguerra e soprattutto c’era la storia di persone povere e disperate.

Scene dal film “Bellissima”

Da un’esperienza giovanile così decisiva dal punto di vista formativo e professionale, era quasi scontato emergesse una personalità artistica in linea con quell’idea di cinema. E infatti, una volta lasciato il vivaio neorealista, Francesco Rosi diede inizio alla sua carriera da regista con una serie di film che rielaboravano l’esperienza pregressa in una chiave diversa. Salvatore Giuliano è il primo esempio di come le intenzioni di Rosi fossero chiaramente direzionate verso una cinematografia ben precisa: il film è del 1962 ed è un esperimento audace, ma anche piuttosto riuscito. È la storia del bandito siciliano morto negli anni Cinquanta a Castelvetrano, una vicenda che si intreccia con i movimenti indipendentisti, il brigantaggio, la mafia, la guerra. Ci sono almeno tre elementi in questo film che si intrecciano: il primo è che si tratta di un film inchiesta, ma che la rappresentazione è delineata da quell’occhio freddo e razionale tipico del neorealismo che non concede spazio a patetismi inutili o a chissà quale forma di pornografia sentimentale; il secondo è che si tratta di una sperimentazione dal punto di vista formale, perché Rosi ha deciso di raccontare questa storia attraverso un metodo abbastanza rischioso, quello del flashback: non ci sono un inizio e una fine precisi, l’intreccio è a singhiozzi, frammentato e corale, e dà una sensazione destabilizzante ma anche incalzante e funzionale per il ritmo del film; il terzo, quello forse più evidente, è l’uso dei luoghi e delle persone del posto, in bianco e nero, in cornici regolari e simmetriche: durante il processo ai briganti si vedono le facce scolpite e scure di quei siciliani che si arrampicano tra un uso forzato di una lingua che non appartiene loro, l’italiano, e il dialetto marcato e incisivo.

Scene dal film “Salvatore Giuliano”

Dopo Salvatore Giuliano, Rosi si cimentò con un’altra inchiesta per dare forma al film che probabilmente rappresenta l’espressione massima di tutte le sue qualità, una sorta di connubio perfetto tra la forza marmorea del neorealismo, la sua trasposizione dello stile in scenari misti (sia gli strati più bassi dello scenario napoletano urbano che quelli più alti) e l’esigenza del regista di ritrarre un aspetto della sua città nel modo più appassionato e arrabbiato possibile. Nel 1963 uscì Le mani sulla città: anche in questo caso, l’inchiesta non si riduce a una semplice trasposizione di fatti, a una sorta di documentario di denuncia. La didascalia che campeggia sullo sfondo del film è “I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”, una sorta di manifesto poetico di Rosi.

Scene dal film “Le mani sulla città”

La rappresentazione è una messa in scena, la realtà è caricata dalla musica metallica che accompagna tutto il film con una cadenza inquietante, le immagini sono molto contrastate, ma la sostanza del film è vera. È vero e reale il disastro della speculazione edilizia, è vera la totale mancanza di piani urbanistici con l’intenzione di tutelare l’uomo e i suoi spazi prima di tutto, è vero l’intreccio malato tra la politica e la corruzione che in quegli anni si è propagata attraverso una tecnica di costruzione scellerata, svuotando i centri storici delle città e riempiendo a macchia d’olio i luoghi circostanti con orrende palazzine dormitori. Tra tutti i personaggi del film poi, spicca in particolare questa contrapposizione che diventa una sorta di gioco di luci e ombre: da un lato Nottola, l’imprenditore senza nessun tipo di valore se non quello speculativo, e dall’altro il consigliere del PCI De Vita, interpretato da un vero politico e sindacalista di quegli anni, Carlo Fermariello, il “leone rosso”. La sua recitazione non è precisa – si capisce bene che non si tratta di un attore professionista, al contrario di Nottola che è interpretato da Rod Steiger – ma è comunque convincente. Si capisce che pensa davvero quello che dice e che la questione della speculazione edilizia, dello sfruttamento riprovevole delle masse popolari e del territorio con fini utilitaristici e spietati è davvero un tema terrificante. Una realtà che tocca chi ha visto con i propri occhi – come Rosi e come Carlo Fermariello – il momento in cui le città si sono moltiplicate nelle loro dimensioni, facendo spazio a gigantesche autostrade e ponti che spaccavano i paesaggi e a immensi palazzi dove infilare più gente possibile. È la rappresentazione più vivida del rapporto contorto tra morale e politica, la manifestazione più bassa di quanto si è disposti ad andare oltre i valori professati pur di conservare intatto lo stato di potere, o meglio, di aumentarlo. Soprattutto, per Rosi è una lavata di capo alla sua città e allo stato in cui versa il Sud nell’era del boom economico, dove circolavano tanti soldi, ma anche pochissima lungimiranza.

Dopo Le mani sulla città – che tra l’altro fu la ragione per cui gli conferirono una laurea honoris causa in pianificazione territoriale e urbanistica – negli anni Settanta Rosi incontrava Gian Maria Volonté, il quale avrebbe girato con il regista il primo di una lunga serie di film. Era Uomini contro, una trasposizione del romanzo di Emilio Lussu Un anno sull’Altopiano, una denuncia pesantemente anti-autoritaria, che costò a Rosi una denuncia per “vilipendio dell’esercito”. L’intento era di mettere in scena le assurdità della guerra, la realtà di contadini che si trovavano da un giorno all’altro a dover accettare la chiamata alle armi come una sorta di calamità, a combattere per ideali astratti che non appartenevano loro, per cause incomprensibili che non facevano parte della loro vita. Con Volonté, negli anni successivi, Rosi girò poi altri lungometraggi – Il caso Mattei, Lucky Luciano, Cristo si è fermato a Eboli – così come continuò con gli adattamenti cinematografici di opere letterarie firmate da Sciascia, Gabriel García Márquez. Primo Levi. Con Il caso Mattei, Rosi mette assieme una serie di tecniche narrative, con un risultato incredibilmente complesso, una ulteriore nuova forma al cinema d’inchiesta: i punti di vista si mescolano – compreso il suo, che interviene in prima persona con domande e precisazioni – e si intrecciano con stralci documentaristici, come reportage televisivi e ricostruzioni accurate della vita del primo presidente dell’Eni. Una sorta di mosaico di informazioni che dà vita a un giallo politico rappresentativo probabilmente di tutte le più grandi doti del regista, un nuovo manifesto artistico della sua personalità cinematografica. Anche Lucky Luciano, uscito appena un anno dopo, nel 1973, si struttura sulla stessa base solida che Rosi utilizzava per costruire le sue inchieste, ovvero una meticolosa attenzione alla ricostruzione di un fatto storico che già di per sé è degno di essere raccontato, quasi come se si fosse scritto da solo per diventare un film.

Scene dal film “Uomini contro”

Scene dal film “Il caso Mattei”

Scene dal film “Cristo si è fermato a Eboli”

Il percorso artistico di Francesco Rosi lo portò a mettere le basi di un genere che rimane interessante da esplorare: si può essere spettatori attivi e stimolati all’apprendimento di temi reali non solo attraverso i documentari, ma anche con il cinema d’inchiesta. Combinare quell’impulso etico-politico a una rappresentazione esteticamente appagante non è una cosa da poco, così come impegnarsi a fruire del cinema non solo come mezzo di intrattenimento ma anche come strumento di apprendimento e di stimolo alla coscienza. Ci sono stati anni in cui sembrava che questo impegno fosse un obbligo morale, come se ci fosse sempre un obiettivo più alto da raggiungere, una sorta di teleologia della cinematografia. È abbastanza inutile crogiolarsi nella malinconia del passato, ma è utile invece esplorarlo per trarne spunto; così come ha fatto Francesco Rosi con i film di Visconti e con il neorealismo, anche oggi si possono guardare i film di questo regista napoletano con gli occhiali a goccia dalle lenti ambrate sempre sul naso e interpretarli come fonte d’ispirazione o come un’ottima ragione per riflettere su qualcosa. Magari uno guarda Salvatore Giuliano e lo trova noioso, non ci trova nulla di affascinante nella rappresentazione della Sicilia degli anni Cinquanta in bianco e nero. Magari poi prova con Uomini contro e tutti quegli spari e quelle trincee gli sembrano ammorbanti, così come il trambusto dei palazzinari di Le mani sulla città. Oppure no, e scopre che in realtà i film inchiesta sono molto più avvincenti di quanto si possa pensare, specialmente se sono fatti bene come quelli di Rosi.

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