Non è comune, oggi, che alcune fra le menti più brillanti del cinema lavorino insieme a uno stesso progetto. Siamo abituati a concepire il film come prodotto artistico unitario frutto del lavoro di un solo regista. Negli anni Sessanta era invece frequente che registi di grande calibro interagissero artisticamente, lavorando insieme a una pellicola antologica che, pur rispettando il linguaggio espressivo di ognuno, andasse a creare un prodotto artistico unitario.
È il caso di Ro.Go.Pa.G., uscito nelle sale nel 1963, il cui titolo bizzarro ha già in sé la sua particolarità. A realizzarlo furono infatti quattro tra i più grandi registi del tempo: Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard, Pier Paolo Pasolini e Ugo Gregoretti. I quattro cortometraggi che compongono il film si servono di linguaggi contrastanti e trattano temi apparentemente lontani. Se dovessimo infatti cercare un elemento di unità lo potremmo trovare nell’incisività delle narrazioni, nel loro tono critico e, in particolare, nel resoconto di un’epoca narrata attraverso le angosce, i timori, le ambizioni e le contraddizioni degli uomini che ne furono protagonisti. Siamo nel culmine del boom economico: si attraversa l’oceano su un aereo di linea, si teme l’esplosione di una bomba atomica, si balla, si mangia e si lavora dimenticando chi ancora muore di fame, si guarda la televisione e si sogna di possedere il mondo un oggetto alla volta. Questi, in breve, i temi di Ro.Go.Pa.G.: ogni episodio è un frammento, uno sguardo unico sul tempo che ambisce a immortalare.
Il film si apre con l’episodio diretto da Roberto Rossellini, intitolato Illibatezza. La protagonista è Anna Maria, una giovane donna che lavora come hostess e che per questo motivo è costretta a passare lunghi periodi lontana dal fidanzato a cui manda dei filmini che raccontano la sua vita quotidiana. In uno dei suoi viaggi incontra un passeggero americano che la corteggia in maniera soffocante e sgradevole, identificandola con il suo ideale femminile angelico e materno. Su consiglio di uno psichiatra interpellato dal fidanzato geloso, la ragazza cambierà aspetto, trasformandosi in una provocante pin up girl, facendo così scemare l’interesse del passeggero molesto. La vicenda è interessante se letta sotto la luce dell’affermazione che apre il cortometraggio, tratta da una frase dello psicoterapeuta austriaco Alfred Adler, secondo cui “l’uomo di oggi frequentemente è oppresso da una indefinibile angoscia e, nel travaglio quotidiano, l’inconscio gli suggerisce un rifugio che lo protesse e lo nutrì: il grembo materno. Per quest’uomo privo ormai di sé stesso, anche l’amore diventa la piagnucolosa ricerca del grembo protettore”.
Il secondo episodio, diretto dal regista francese Jean-Luc Godard, riprende il puro stile della Nouvelle Vague, con una voce fuori campo che narra freddamente i fatti. Il nuovo mondo che l’episodio mette in scena è quello che segue un’esplosione atomica che ha apparentemente lasciato immutati oggetti e individui, pur avendone scalfito per sempre l’essenza. Ambientato in una Parigi assunta a simbolo di una agghiacciante metropoli del futuro, il cortometraggio di Godard è il racconto di un rapporto fra due giovani che va deteriorandosi per il comportamento incomprensibile della ragazza, che sembra non riuscire più a comprendere la logica elementare delle piccole cose quotidiane. “Nella persona che amavo”, dice il protagonista, “era bruscamente scomparso ogni senso morale o peggio ancora, mancava totalmente quel sentimento di libertà che ancora ieri possedeva anche l’ultimo degli uomini”. L’episodio è tanto angosciante quanto sottili e apparentemente insignificanti sono le tracce dell’apocalisse. La distruzione del mondo che conosciamo, ci dice Godard, non ci lascerà esangui sotto le macerie di un mondo scenograficamente esploso. Lascerà invece tutto apparentemente immutato, eppure per sempre corrotto in una perdita di senso irrecuperabile.
L’episodio conclusivo è diretto da Ugo Gregoretti. Il pollo ruspante è l’esempio lampante di una critica sociale e di costume brillante, ben scritta e ben recitata da un espressivo e credibilissimo Ugo Tognazzi, che a interpretare l’uomo medio del boom gioca in casa. In apertura, un economista di nuova scuola che parla grazie a un laringofono in grado di dare alla sua voce un timbro robotico inquietante, tiene una conferenza sulle ultime frontiere del consumo. La nuova economia, dice, non si basa più sulla produzione che interpreta ed esaudisce i bisogni dell’uomo, ma al contrario sui bisogni dell’uomo che devono essere stimolati se non addirittura creati al fine di dare impulso alla produzione: “L’invecchiamento psicologico del prodotto è forse il principale alleato della nostra industria”, afferma l’economista. Al proseguire della conferenza – che fa quasi pensare che in certi frangenti l’espressione “poteri forti” non sia lo strumento retorico dei complottisti più fantasiosi, ma un vero e proprio mondo elitario e chiuso di soggetti che hanno in mano la direzione economica e sociale del mondo occidentale capitalistico – si alternano le vicende di una famiglia. La coppia di sposi e i due figlioletti ammaliati dalle pubblicità della televisione impersonano alla perfezione il nucleo umano del consumo, ovvero quella nuova piccola e media borghesia che si è da poco arricchita grazie al boom economico e che quindi ambisce ad accrescere a dismisura il numero delle cose che possiedono senza che questo comporti una soddisfazione reale e definitiva.
Nell’episodio, la coppia è diretta verso “la Svizzera dei Lombardi” per comprare un lotto di terreno per la seconda casa che non si potrà permettere. Marito e moglie si fermano con i figli in un autogrill per il pranzo. La famiglia entra nel ristorante attraverso una porta su cui è affisso un segnale di divieto di accesso e per questo vengono subito ammoniti dalla cameriera che li invita a entrare dal lato giusto, ovvero quello che, prima di immettere nel locale del ristorante, inghiotte i clienti in un labirinto di oggetti in vendita da cui vengono subito attratti i bambini. La porta con il divieto che permetterebbe un accesso comodo ai tavoli è metafora di quel “tempo di prima”, ormai svanito, dove a una necessità seguiva un’azione che la soddisfava e non, al contrario, un’altra necessità costruita in maniera manipolatoria.
La scena che dà il nome all’episodio si svolge proprio al ristorante, dove alla famiglia viene offerto un “pollo ruspante”. Quando il bambino chiede al padre perché preferisca un pollo ruspante a un pollo d’allevamento il padre risponde “Perché è più saporito, forse perché mangia con più appetito, cioè mangia quando vuole e come gli pare. Beh, insomma, è questo libero arbitrio che probabilmente lo rende più saporito. Il pollo da allevamento invece no, fin da quando è pulcino viene messo nel suo reparto, abituato, sottoposto a una disciplina, non può assolutamente decidere niente, fa solo quello che gli dicono di fare: luce rossa, sveglia; luce verde, mangiare; campanello, basta. È così. Però intanto ha il vitto assicurato e così ingrassa scientificamente. Agisce il suo subcosciente. Comunque lui non può decidere un bel niente, forse per questo è poco saporito”.
Il significato del racconto sta tutto in questa metafora: l’uomo consumatore sta all’uomo libero come il pollo d’allevamento sta al pollo ruspante. Se messo davanti a una scelta consapevole, ogni uomo sceglierebbe la libertà saporita alla schiavitù insapore del consumo, ma, ci dice Gregoretti, la natura manipolatoria e insieme geniale del mercato sta proprio nella maniera subdola in cui sa indottrinare il suo “pollo” facendogli credere che libertà sia possesso e non libero arbitrio, coscienza di sé e dei propri reali bisogni. Il personaggio interpretato da Tognazzi è un uomo reso aggressivo dalla frustrazione di non poter mai essere all’altezza. Il terreno a cui ambisce e che non potrebbe permettersi nemmeno indebitandosi genera un disprezzo verso il mondo che è quello della volpe che non riesce ad arrivare all’uva e pur di non ammetterlo decide che è acerba. Nell’unico momento di lucidità, infatti, il protagonista sconfitto dirà alla moglie: “Piangi? Una volta era meglio di adesso, forse, e per questo piangevamo. Alla gente può sembrare il contrario, eppure è così”. È grazie a questa amara constatazione che il regista ci mette in guardia dai crismi del nuovo regime consumistico che si stava imponendo in quegli anni.
Il terzo episodio è anche quello la cui fama ha surclassato quella degli altri tre. Si tratta de La Ricotta di Pier Paolo Pasolini, cortometraggio che segue nella campagna romana una troupe impegnata nelle riprese della passione di Cristo. Alternando i colori al bianco e nero, l’andamento della narrazione è scattante, veloce, nevrotico e a tratti volutamente grottesco. Il protagonista è Stracci, una povera comparsa che interpreta il ladrone buono e a cui spetta la propria personale via crucis. Dopo aver portato il cestino del pranzo ricevuto dalla produzione alla moglie e ai quattro figli affamati, Stracci, tra imprevisti e peripezie, tenta in ogni modo di procurarsi dell’altro cibo per placare la sua eterna fame di proletario. Il suo destino è tragico: aizzato dalla troupe sbeffeggiante ad abbuffarsi, finirà per morire di indigestione sulla croce. La morte di Stracci è particolarmente grottesca nel suo svelare la natura di quell’improvviso arricchimento dell’Italia del miracolo economico e la sua pericolosa capacità di trasformare la morte per fame in morte per ingordigia nel giro di un breve istante.
Il regista, interpretato da Orson Welles, commenta: “Povero Stracci. Crepare: non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo”. La battuta originale pensata da Pasolini era però diversa – “povero Stracci, crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” –, ma il regista fu costretto a tagliare e rivedere molte scene in seguito alle vicissiudini giudiziarie che riguardarono il film. Pasolini venne infatti condannato per vilipendio della religione e dovette aspettare il maggio 1964 per l’assoluzione da parte della corte d’appello di Roma, che si espresse affermando che il fatto non costituiva reato.
Ciò che oggi si ricorda de La Ricotta, aldilà della passione di Stracci e del suo simbolico morire per i peccati di chi sulla sua miseria ha costruito una fortuna, è ciò che il regista interpretato da Orson Welles dice al giornalista che lo intervista durante una pausa dalle riprese. Alla domanda “Che cosa ne pensa della società italiana?”, il regista e alter-ego di Pasolini risponde: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”. Infine, dopo aver recitato la poesia dal titolo Io sono una forza del passato, accorgendosi dello spaesamento del giornalista, Welles lo accusa di essere un uomo medio, ovvero “un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista”.
Sarà proprio questo biasimo senza veli che Pasolini rivolge al nuovo modello di uomo che la società del consumo ha prodotto, a fare de La Ricotta uno dei più acuti ritratti della società italiana a cavallo fra due tempi: uno considerato ormai stantio e tramontante, e per questo rinnegato, e uno nuovo e imperante che riduce l’individuo a oppressore senza che questo abbia almeno l’onestà di riconoscerlo o l’intelligenza per capirlo.
Sulle pagine dell’Espresso, dopo l’uscita del film, Alberto Moravia scriverà che “L’Italia del passato, infatti era il Paese dell’uomo, in tutta la sua umanità; l’Italia di oggi, invece, è soltanto il Paese dell’uomo medio”. È da questo uomo medio, che da Rossellini viene presentato come l’uomo perennemente figlio, da Godard come quello spaventato da un imbarbarimento apocalittico che toglie senso alla vita e alla sua elaborazione, da Pasolini come il mandante morale della passione di Stracci, e da Gregoretti come il consumatore insaziabile e istupidito al pari di un pollo da allevamento, che noi cogliamo il vero senso di un’epoca. A restituircelo è un’opera collettiva, dove il talento e lo sguardo di un autore incontra quello degli altri, in un mosaico di intelligenze e linguaggi che ci è oggi tanto più prezioso quanto più estraneo al nostro modo di fare cinema.