Mi piacciono i narratori che ti fanno entrare nelle storie in punta di piedi, e Sam Mendes nell’incipit di Revolutionary Road – il film del 2008 tratto dall’omonimo romanzo che Richard Yates scrisse nel 1961 – fa esattamente questo. La prima volta che lo vidi avevo diciannove anni e con una certa arroganza pensai che Mendes avesse fatto quella scelta per un motivo di sceneggiatura e adattamento abbastanza ovvio, ovvero farci vedere come i coniugi Wheeler si fossero incontrati. Oggi, una decina di anni dopo, con diverse letture del romanzo, una convivenza e una figlia mi dico che, anche se magari ci avevo visto giusto la prima volta, quei primi sessanta secondi oggi mi mostrano qualcosa di più acuto: il sogno, la leggerezza della possibilità, la tenerezza della promessa, il baratro tra noi stessi e gli altri che l’amore ci chiede di superare e che può diventare una voragine.
Dallo skyline di una New York sfuocata veniamo depositati nel 1946 nel bel mezzo di una festa affollata, in cui un gruppo jazz doo-wop – gli Ink Spots, nome su cui oggi ci sarebbe da discutere – sta suonando una canzone che ci parla di una zingara che in una roulotte sperduta nel nulla ci legge il futuro e cancella ogni nostra paura, se solo decidiamo di crederle. Il nostro amore non è perduto, prima o poi tornerà, canta il tenore afroamericano mentre in sottofondo un pianoforte ci rassicura facendoci scivolare in una sorta di abbandono ipnotico. Una donna e un uomo si parlano. April è bella e affascinante (è Kate Winslet), un’aspirante attrice; Frank è bello e affascinante (è Leonardo Di Caprio), uno scaricatore di porto. Lei gli fa capire che il valore delle persone non dipende dal lavoro che fanno, e subito emerge la grande domanda sull’identità che questa storia solleva, come aveva fatto nel 1941 Orson Welles in Quarto potere. April chiede a Frank cosa lo interessa davvero, lui le dice che se sapesse la risposta a quella domanda farebbe morire entrambi di noia in una mezzora. Lei ride, perché sa che è vero. Si innamorano. Sipario. Vita reale. Provincia americana. Delusione. Insoddisfazione. Stanchezza. Depressione. Noia. Violenza.
In Revolutionary Road Yates descrive la spirale in cui si cade se non si riescono a far combaciare le proprie aspettative con la realtà, e al tempo stesso indugia quasi con malignità nel farci vedere quanto il sogno potrebbe essere vicino, a pochi millimetri, se solo si avesse il coraggio e forse l’incoscienza di tendere la mano, oppure di rivedere le proprie coordinate. I due poli che impersonano queste forze sono proprio April e Frank, una delle grandi coppie della narrativa di tutti i tempi. Il loro dramma personale, ancora ustionante e attuale, pur essendo passati sessant’anni – cosa che fa riflettere, se non tremare – si intreccia alle maglie della Storia, del sogno americano, della pressione sociale, della staticità dei generi e della famiglia, e precipitano poi nell’impossibilità di abortire legalmente – e anche su questo fronte purtroppo sembra che non sia stata fatta molta strada.
Sempre Stati Uniti, nel 1958, tre anni prima che fosse pubblicato questo capolavoro della letteratura, fu pubblicato un altro libro molto interessante di John Barth, il cui titolo dialoga intimamente con quello di Yates: Fine della strada (da cui fu fatto anche un adattamento cinematografico poco riuscito). Quest’ultimo romanzo affronta in maniera molto diversa – più ironica-nevrotica, colta e per certi aspetti sperimentale – la stessa tematica: la coppia monogama come monade fondante della società e la tragedia femminile e collettiva che questa struttura sociale comporta e che trova la sua massima espressione nell’aborto clandestino, come unica liberazione e al tempo stesso sacrificio. Difficile non credere che Yates abbia voluto rispondere in qualche modo a Barth. In entrambe le storie il tema dell’identità emerge con chiarezza come virus della tragedia che si compie all’interno della coppia, ma Yates arricchisce la struttura della trama creando un sistema caleidoscopico di punti di vista che riverberano e, alla fine, come fili apparentemente spaiati si intrecciano e confluiscono in un unico nodo. La forza di Revolutionary Road, come di tutti i grandi classici, è che è un romanzo intimo e al tempo stesso sociale.
I Wheeler si specchiano uno nell’amore e nelle aspettative dell’altro, restituendoci due ritratti distorti, in meglio e in peggio, mai realmente a fuoco, e al tempo stesso osservano la loro immagine negli occhi dei vicini, i Campbell – altrettanto infelici, ma rassegnati – e del resto della comunità. I Wheeler sono gli stranieri, coloro che non sembrano essere destinati a quella realtà prosastica, gli altri li vedono come idoli, bramano essere loro amici e al tempo stesso ne sono insospettiti, come da qualsiasi figura che non accetta di ridursi alla norma. Tanto che alla fine vedono il loro epilogo come una sorta di punizione divina, come se se lo fossero meritati per il solo fatto di essere diversi, apparentemente “migliori”, per il solo fatto di aver scelto di non uniformarsi alle regole di quella società e di aver continuato a desiderare qualcosa di diverso, di più. La tragedia avviene infatti perché April, pur avendo visto infrante le sue velleità artistiche, non si rassegna, continua con coraggio – che agli occhi del mondo sembra irresponsabilità, per non dire follia – a sognare, per Frank e per sé stessa. April vuole fuggire dall’incubo della realtà dei ruoli, dove ogni sogno è infranto e senza alcuna tensione si continua ad agire, come in un teatro grottesco che non fa che ripetere se stesso, ogni giorno, rendendo tutti infelici; e da cui ciascuno dei personaggi tenta di fuggire facendo abuso di alcol ogni volta che se ne offre l’occasione, per dimenticarsi chi è e chi è stato. L’unico modo di sopportare la recita è distrarsi, ottundere i sensi, mentre la pena per chi non lo fa è perdere il senno.
Il romanzo si gioca tutto sull’identità dell’individuo e sulla sua aderenza ai ruoli di genere imposti dalla società. Uno dei passaggi più significativi del romanzo, a questo proposito, adattato anche nel film, vede come protagonista proprio John, il figlio con disturbi psichiatrici della signora Givings, l’agente immobiliare che ha venduto la casa di Revolutionary Road ai Wheeler e che incarna più di tutti lo sguardo sociale. John – interpretato da Michael Corbett Shannon, che fu candidato all’Oscar come miglior attore non protagonista – è il contraltare della madre, un veggente che rimanda alla figura cantata all’inizio del film. Il matto è l’unico a dire la verità. E non a caso, l’unico da cui April si sente compresa è proprio lui. Il matto, nei tarocchi, rappresenta un uomo che avanza verso l’ignoto con passo deciso, animato dalla follia che sembra necessaria per intraprendere ogni tipo di viaggio. Con sé ha solo un fagotto che rappresenta l’essenziale. Da un punto di vista simbolico è la nemesi dell’accumulo materialista, tipico del boom economico dell’epoca in cui si ambienta la vicenda.
Accanto al matto si trova un piccolo cane, che a seconda delle carte sembra avvertire il viandante di un imminente pericolo e al tempo stesso ci suggerisce di accettare che la nostra parte più animale ci cammini accanto. In uno dei passaggi più significativi della storia John dice che April è una femmina, rimandando proprio a questa sorta di animalità spontanea del genere biologico come forza istintiva che può permettere all’individuo di ribellarsi al genere sociale imposto. “Sa che differenza c’è tra femmina e femminile?”, prosegue rivolto a Frank. “Le do un indizio: una donna femminile non ride mai troppo forte e si rade sempre le ascelle. La vecchia Helen [la madre] ne è un perfetto esempio. Quanto alle femmine, ne ho conosciute soltanto una mezza dozzina in tutta la mia vita, e a mio avviso a lei ne è capitata una. In effetti, a ben pensarci, tutto torna. Perché ho l’impressione che anche lei sia un maschio. Neppure di maschi ce ne sono troppi in giro”. Così, quando gli comunicano che non partiranno più per Parigi John capisce subito che a tirarsi indietro è stato Frank. April è troppo “forte e femmina”, ha l’energia degli animali in trappola. Frank invece ha avuto paura, “Ha pensato che dopotutto è molto più comodo [restare] nel vecchio Vuoto Disperato”.
Frank, infatti, non è ancora niente, se non il figlio di un padre complicato, un ragazzo povero in una New York che incarna gli ideali del capitalismo e del sogno americano, a cui finalmente – sadica ironia della sorte – viene promessa un’occasione di rivalsa sociale. È qui che la coppia si slaccia. Frank, per non cambiare, per non rischiare di scoprire di non essere nessuno e al tempo stesso di diventare un uomo, un individuo dall’identità abbastanza forte per stagliarsi sullo sfondo dell’uniformità sociale, cerca di convincere April a proseguire la gravidanza – per tutta la storia aleggia il dubbio che l’abbia deliberatamente ingravidata finché John ha il coraggio di avanzare ad alta voce questa ipotesi. April man mano che il ritmo degli eventi incalza, facendo cadere un sogno dopo l’altro, si vede finalmente per ciò che è, in quanto donna all’interno di quella società, un animale in trappola che deve rispettare regole imposte dagli altri, servire e procreare.
“In normanno,” scrive Annie Ernaux in Una femmina, “ambizione descrive il dolore di essere separati, un cane può morire d’ambizione”. Questa frase ha la capacità di parlarci in maniera universale, perché esprime una sensazione vera a diverse latitudini per una stessa epoca e per uno stesso luogo simbolico, la provincia. Sintetizza alla perfezione la visione sociale che fa da sfondo alla tragedia dei Wheeler: April infatti – come tante altre donne prima e dopo di lei – muore d’ambizione, di desiderio. Recide le radici, o rifiuta proprio di metterle, per andare in cerca di un luogo migliore, un habitat più adatto a lei. Eppure ciò che rende tragica questa storia, non sono tanto gli eventi, ma la consapevolezza che si insinua che questo luogo non esista e che quindi la possibilità di essere felici vada cercata altrove, in una dimensione alternativa della visione e della percezione.
Il dubbio che aleggia è se davvero si possa essere felici in coppia, se l’amore in una qualche sua forma possa realmente soddisfare la promessa che suggerisce. Tutta la storia è permeata dal tema dell’incomunicabilità, della menzogna a monte del linguaggio, quando viene usato per raccontare a se stessi la propria storia e quando viene usato per analizzare il mondo e comunicare con gli altri. Il linguaggio che permette di fingersi ciò che non si è, che manipola, che fonda la nostra esperienza nel mondo moderno e la nostra separazione, che potrebbe permetterci di sciogliere i nostri confini per fonderci con l’altro, ma che si sclerotizza costruendoci intorno un’identità rigida e nevrotica. Forse è per questo che nel film c’è questo rifiuto dell’ascolto, come ultima disperata protezione del sé dagli altri, come se per resistere, sopravvivere, ritrovare un centro, coloro che ricadono dentro se stessi avessero bisogno di silenzio, di interrompere la proiezione del mondo, l’azione degli altri sulla loro identità, in primis agita attraverso la parola, come una violenta definizione di valore e di senso. È a questo che in ultima istanza April, così come Shep Campbell (segretamente innamorato di lei) e il marito della signora Givings si oppongono.
Per superare la discrepanza, la bugia involontaria, l’unico farmaco è il silenzio, mentre il mondo continua a dire, imperterrito, insensibile, nevrotico. Parla parla parla. E confonde. Per prima April smette di parlare, poi Shemp prega la moglie di smettere di raccontare la storia dei Wheeler, infine il signor Givings, mentre la moglie sentenzia per l’ennesima volta su April e Frank, spegne il suo apparecchio acustico. Resta solo il silenzio, come nucleo fondante dell’identità autentica, e al tempo stesso simbolo dell’impossibilità di comprendere realmente l’esperienza degli altri.