Nella seconda metà degli anni Ottanta, la comunità LGBTQ+ nera e latina di New York viveva una vita separata non solo rispetto alla normatività etero, ma anche rispetto agli uomini gay, bianchi e cisgender. Queste persone erano sole, povere ed emarginate: facevano parte delle minoranze etniche o immigrate, spesso erano trans, costrette a vivere di espedienti. Il più delle volte erano state rifiutate dalle famiglie di origine e abitavano per strada. Per sopravvivere, alcune si riunivano in families: una mother (o più raramente un daddy) costruiva la propria famiglia con tanto di cognome e accoglieva in casa tutte le persone che ne volevano fare parte, provvedendo al loro sostentamento e alla loro educazione. Il senso di comunità si rafforzava partecipando ai ball, delle competizioni in cui le varie houses si sfidavano con sfilate e balli. Questo è lo scenario in cui si sviluppa Pose, la serie FX ideata da Ryan Murphy (autore, tra gli altri, di Glee e American Horror Story), Brad Falchuk e Steven Canals e da gennaio disponibile su Netflix.
Pose è un’opera corale ambientata nella New York del 1987 che intreccia le storie dei membri della House of Evangelista, alla cui guida c’è Blanca, una ragazza trans sieropositiva che decide di lasciare la sua vecchia family – la cui mother è l’ambiziosa e dispotica Elektra Abundance – con l’obiettivo di crearne una propria. Vicino a Blanca gravitano le vite degli altri personaggi principali, come la sex worker portoricana e trans Angel, che ha una storia d’amore con un suo facoltoso cliente yuppie, e Damon, un ballerino afroamericano diciassettenne cacciato di casa dai genitori dopo che hanno trovato un giornale pornografico omosessuale.
Pose, che sin dal suo debutto lo scorso maggio ha ricevuto critiche molto positive, si distingue non solo per l’originalità del soggetto, ma anche per la diversità del suo cast: è la serie con il più alto numero di attori trans mai realizzata, nonché la prima ad aver ingaggiato una regista e autrice trans e nera, Janet Mock.
Quello dell’inclusione è uno dei principali temi indagati dalla serie. La scena delle ballroom nasce come risposta sociale alla totale segregazione di una “minoranza delle minoranze”, anche in una contesto progressista come quello New York. Il ball si caratterizza per le diverse categorie che le families devono interpretare con costumi, sfilate e danze di fronte a un panel di giudici. Ciascuna categoria rappresenta il mondo da cui la comunità LGBTQ+ è esclusa: per la categoria “royalty” è richiesto di indossare corone e mantelli e atteggiarsi come membri della nobiltà. “Possiedi la tua nazione”, commenta il presentatore del ball Pray Tell, “possiedi i tuoi gioielli”, in una grande e festosa parodia del privilegio della ricchezza. Per “executive realness” i partecipanti si fingono affermati e ricchi professionisti della finanza e della moda. Il ball è l’occasione sociale per sentirsi parte dell’american dream fatto di ricchezza, successo e auto-realizzazione perché, come spiega a un certo punto Blanca, le persone queer “di solito non hanno accesso a quel sogno”.
Nel frattempo, il vero sogno incarnato da Stan, un rampante yuppie, tocca questo mondo di reietti in maniera tangenziale. Stan, che lavora in un ufficio della Trump Tower (una scelta di script che è difficile pensare sia del tutto casuale), ha una relazione con Angel mentre a casa lo aspettano la moglie e due figlie. Qui si innesta la sottotrama più drammatica dell’intera serie. È difficile dire se Stan sia davvero innamorato di Angel o ami solo ciò che lei rappresenta, ovvero la trasgressione e l’evasione rispetto alla vita ordinaria e borghese. E, allo stesso modo, anche il rapporto di dipendenza economica di Angel rispetto a Stan sembrerebbe sancire l’impossibilità di una relazione realmente disinteressata. Mentre Stan compra gioielli e lavastoviglie per la moglie e un appartamento per l’amante, il mondo queer che non può o non vuole scendere a compromessi con il potere bianco viene decimato dall’Aids, altro grande tema che Pose affronta con realismo e profondità.
Nel 1987 era passato solo un anno da quando il virus aveva preso il nome di “Hiv”. I contagi accertati erano più di 38mila, di cui 31mila nei soli Stati Uniti. Proprio quell’anno si sperimentò la prima cura antiretrovirale, l’Azidotimidina, abbreviata in AZT, e si cominciò a utilizzare il Western Blot Test, un test di diagnosi molto più affidabile ed efficace. Tuttavia, alla fine di quell’anno, i casi diventarono quasi 50mila. In un modo o nell’altro, l’Aids entra prepotentemente nelle vite dei personaggi di Pose, quasi a significare l’incarnazione di quello stigma che li isola non solo dalla società etero, ma anche dalla loro stessa comunità. Presto si sarebbe scoperto che l’Aids non fa distinzione di sesso, di identità di genere, di classe o di etnia, ma allora era ancora il muro che segregava neri, poveri, trans ed emarginati dal resto del mondo.
L’unica possibilità del riscatto, quindi, si materializza proprio nel rito della ballroom, un mondo alla rovescia dove il potere è in mano agli ultimi, anche se non mancano tentativi di conquistare qualcosa in più di un trofeo. Significativa in questo senso è l’ostinazione con cui Blanca cerca di entrare in un gay bar frequentato da uomini bianchi. La protagonista e l’amica Lulu, anche lei trans, vengono invitate a uscire perché la clientela non gradisce la loro presenza finché, di fronte alle proteste di Blanca, le due non vengono sbattute fuori dal locale. “Tutti hanno bisogno di qualcuno che li faccia sentire superiori. E noi siamo all’ultimo posto. Ci sono le donne, i neri, i Latinos, i gay, prima di raggiungere il fondo dove ci siamo noi”.
Il potere in Pose si manifesta nei modi più scontati, come nel comportamento maschilista del capo di Stan, Matt (per cui è interessante anche la scelta di cast, ovvero James Van Der Beek di Dawson’s Creek), ma anche in quelli più subdoli. Le donne trans si dividono in due categorie, quelle che “passano” – ovvero che riescono a essere scambiate per cisgender – e quelle che sono soltanto “uomini in parrucca”. La bellezza femminile diventa così una forma di potere e di legittimazione per cui si è disposte a fare di tutto, perché “passare” garantisce l’attenzione degli uomini, in particolare degli uomini bianchi. Ma l’unica relazione possibile con loro sembra essere quella della dipendenza economica ed emotiva, l’ennesimo esercizio di potere del privilegio bianco e borghese.
Pose è una serie riuscita, emozionante ed educativa che dimostra in modo esemplare che l’inclusione può rappresentare un’opportunità per creare qualcosa di bello e, soprattutto, di importante. “Molti ragazzi mi dicono che Blanca somiglia alle loro madri, o mi raccontano che i loro genitori non li avevano accettati dopo aver fatto coming out come gay o trans, e che guardare questa serie ha aiutato le loro famiglie a riavvicinarsi”, ha dichiarato Mj Rodriguez, che interpreta la protagonista, all’Hollywood Reporter. “Queste storie mi fanno gonfiare il petto d’orgoglio. Ho sempre voluto essere una voce per la mia comunità e ora che ho questa opportunità, è difficile spiegare quanto bene ci si senta. Questo show è una forma d’attivismo”.
Anche se la realtà di Pose sembra ormai lontana, una serie come questa ancora oggi ha un’importanza cruciale, specialmente negli Stati Uniti dove i diritti delle persone trans sono espressamente sotto attacco. E questo non solo perché raccontare le discriminazioni e le violenze che le persone trans hanno subìto in passato ha una valenza storica e testimoniale, ma anche perché Pose è una narrazione delle dinamiche di potere che si ripetono sempre uguali a se stesse. Negli anni Ottanta il compito di questa narrazione lo assunse Jennie Livingston con il suo documentario sulle ballroom Paris is Burning, oggi considerato una pietra miliare della storia LGBTQ+, i cui protagonisti ricordano molto da vicino i personaggi di Pose. Ryan Murphy ha raccolto questa eredità e ne ha fatto un’opera attuale, splendidamente scritta, scenografata e coreografata. Ma anche se è una festa per gli occhi, guardando Pose non si può non ignorare il carico che la serie porta con sé.
Ancora oggi, in un’ipotetica scala dell’indesiderabilità, le persone trans, soprattutto se nere o, comunque immigrate, sono all’ultimo posto. Dare voce alla loro storia con un prodotto culturale mainstream e di alta qualità, raccontandola con realismo e senza pregiudizi, lasciando che siano loro a darle vita con il loro talento e le loro abilità, è il primo passo verso la legittimazione di una voce che per troppo tempo è stata soffocata.