“Perché il libro dice: noi possiamo chiudere con il passato, ma è il passato a non chiudere con noi.” Questa è la logline di “Magnolia”, una frase che racchiude tutto il senso del film e di gran parte della filmografia di quello che considero il miglior regista al mondo.
Ho sempre vissuto le mie passioni cinematografiche con leggerezza, come le stagioni: totalizzanti, senza mezzi termini, eppure passeggere. Finito l’inverno di Fellini, ho creduto per un’intera estate che certo, era Scorsese la mia vera passione. E poi, terminata la stagione dei movie brats, si sono avvicendati i registi coreani, il Neorealismo, la Nouvelle Vague e così via. Finché non è arrivato lui e non ho trovato più motivo per cambiare la mia risposta alla classica domanda da salotto: qual è il tuo regista preferito? Paul Thomas Anderson, ça va sans dire.
Prima di ricevere commenti sdegnati, tutti scritti in MAIUSCOLO, vale la pena precisare che nella corsa a miglior regista, a mio giudizio, non dovrebbero contare quelli già scomparsi e che dunque, per cause di forza maggiore, non possono più produrre film – quanto si sarebbe divertito Fellini con il digitale! Non mi sento di includere nemmeno i mostri sacri ancora in vita perché, semplicemente, lo Scorsese di “Goodfellas” non può essere la stessa persona che sta girando “The Irishman”. Il cast è pressappoco lo stesso, ma tutto, intorno, è cambiato: non è più tempo per i calci collerici di Pesci e De Niro è ormai la maschera sbiadita del grande attore che fu. E poi “The Irishman” non lo ha scritto Nicholas Pileggi – di che stiamo parlando? “Player One” di Spielberg sarà un film della madonna, come lo è stato “Bridge of Spies”, ma vogliamo veramente metterli sullo stesso piano di “E.T.” o “Incontri Ravvicinati”? La mia non è nostalgia, la questione è ben diversa: tanto i già citati Movie Brats sono stati i migliori nel cogliere lo spirito degli anni settanta, ottanta e anche novanta, quanto sono diventati conservatori in un momento storico/cinematografico che richiedeva fluidità, innovazione. Concludo dicendo che ho un problema con i francofoni e gli spagnoli: è proprio una questione di immaginario che non collima con ciò che mi emoziona, quindi mettiamo da parte pure Xavier Dolan e Almodóvar. E torniamo a lui, al regista a cui quasi nessuno pensa quando viene chiesto chi sia il più bravo. Perché c’è sempre quello che dice Tarantino, c’è chi mette in cima Terrence Malick, c’è ovviamente il fan di Christopher Nolan o di Wes Anderson, ma siamo davvero in pochi a pensare che Paul Thomas Anderson sia il migliore. Eppure basterebbe guardare alla sua filmografia, al movimento compatto e organico che i suoi film costruiscono per farsi un’idea del perché meriti la sua posizione sul podio.
La prima volta che PTA si siede seriamente dietro a una macchina da presa è per girare due cortometraggi, “The Dirk Diggler Story” (a cui si ispirerà per “Boogie Nights”) e “Cigarettes&Coffee”. In quest’ultimo corto (insomma, dura 24 minuti) del 1993, Phillip Baker Hall interpreta il ruolo di un uomo anziano che, seduto in un diner, ascolta la confessione di un ragazzo più giovane che ha appena perso soldi al casinò. Tutto intorno persone che parlano delle loro vite, di una normalità che si ritrova seduta ai tavolini di un locale. Il giovane ha un tizio rinchiuso nel bagagliaio della macchina: sarà il colpo di scena finale del corto. Questi 24 minuti non sono nulla di che, ma contengono molta di quella che sarà la poetica di Anderson. Ci sono le sigarette e i caffè, ovviamente, ci sono i dialoghi scritti come se le persone parlassero davvero così, c’è una figura paterna che fraintende, giudica attraverso valori sbagliati, quello che potrebbe essere suo figlio. E poi c’è l’occhio che non riesce a fermarsi su una sola storia, ma vaga, curioso, nelle vite accanto, tra altre storie. Non sono solo io a pensare che ci sia qualcosa di speciale in questo corto. I selezionatori del Sundance lo inseriscono in un loro workshop (Sundance Festival Short Program) e, proprio grazie a questo workshop, il corto viene notato e sviluppato in un lungometraggio. È così che nasce “Hard Eight” (1996) il primo film di PTA.
Non ho mai capito se la versione che ho visto sia quella voluta dal regista o dal produttore – i due sono passati per vie legali per avere il loro cut finale (lezione che Anderson imparerà a sua spese, imponendo in tutti i suoi futuri film il director’s cut), tanto che il film è uscito con due titoli diversi. Di “Cigarettes&Coffee” è rimasto Phillip Baker Hall, diventato attore-feticcio di PTA, a cui si aggiunge un altro attore ricorrente nella sua filmografia, John C. Reilly. La storia ripropone il rapporto padre-figlio impostato nel corto, la trama si complica leggermente, ma neanche troppo. Al centro della pellicola rimangono quei due e il loro legame che, a ben vedere, è lo stesso legame che avranno molti, moltissimi, personaggi nei film successivi di Anderson. Perché è proprio questo il centro della sua poetica: figli smarriti che non riconoscono il cammino che padri violenti, assenti, incuranti, hanno tracciato per loro. Vorrebbero chiudere con il passato, ma è il passato a non voler chiudere con loro. Sono alla ricerca di nuovi padri, ma quelli che trovano sono inadeguati, guardano al guadagno o alla fama e tracciano un nuovo destino fallace quanto il precedente.
Quella che disegna “Hard Eight” è una linea chiara, un fil rouge che unisce i successivi film di Anderson.
“Boogie Nights” (1997) e “Magnolia” (1999) sono due capolavori. Seguendo l’insegnamento di Robert Altman (Short Cuts su tutti), PTA ci regala due racconti corali meravigliosi. La location è unica: la Valley di Los Angeles, luogo sperduto, periferia di un agglomerato urbano senza senso; gli attori sono praticamente i medesimi e medesima è la volontà di raccontare una storia che non sia solo uno spaccato di più vite, ma anche e soprattutto un affresco su un periodo nel primo caso, e declinazione moderna di un versetto biblico nel secondo.
In “Boogie Nights” un giovanissimo Mark Wahlberg interpreta Dirk Diggler, un ragazzino superdotato vittima di una famiglia che non riconosce in lui nessun talento. Accettando il suo destino di amante eccezionale, entra in una seconda famiglia, quella del regista pornografico Jack Horner. E in questa nuova famiglia trova fratelli e sorelle acquisiti. Ognuna delle storie raccontate in questo film mostra la sensibilità del pennello di un pittore che sa, con pochi tratti, dipingere una vita intera. Il fonico gay interpretato da Philip Seymour Hoffman ha pochissime scene dedicate, eppure sembra vivo, reale; bastano due battute e l’imbarazzo della sua omosessualità dichiarata a farci patire per lui quanto patiremmo per il protagonista della storia. L’inquadratura dell’enorme pisello di Wahlberg chiude un film dove, attraverso tre decadi, abbiamo assistito alla nascita e al crollo di un impero, ma quello che rimane è il rapporto padre-figlio tra Jack e Dirk. E sarà questo il punto di partenza che porterà all’opus magnum, “Magnolia”.
Il versetto biblico a cui mi riferivo è quello delle colpe dei padri che, inevitabilmente, ricadono sui figli. C’è una ragazza abusata che vuole perdersi nella cocaina; ci sono due geni dei quiz, entrambi derubati della loro innocenza; c’è un motivatore che incita a “domare la fica”; c’è un poliziotto che perde la sua pistola; c’è un infermiere che assiste un paziente e le sue ultime ore e un presentatore tv che decide, poco prima di morire, di espiare le sue colpe. E ognuno di loro, ognuno di questi splendidi personaggi, è unito dalla colpa originale di un padre che non ha voluto o saputo riconoscere l’amore per il proprio figlio, che non ha saputo in generale amare, preferendo curare il proprio misero interesse. Non c’è salvezza, dice PTA, siamo condannati a una piaga biblica, alla pioggia di rane. Forse, e dico forse, soltanto l’amore di uno sconosciuto potrebbe redimerci. Ma è davvero qualcosa in cui possiamo permetterci di sperare?
Rivisto dopo quasi vent’anni, “Magnolia” non è invecchiato di un giorno. La macchina di Paul Thomas Anderson non si muove come le macchine di presa di oggi, ma è sempre e comunque dove dovrebbe essere e ogni singolo attore recita alla perfezione. Perfino Tom Cruise.
Dopo “Magnolia” potrebbe essere tutto in discesa, e invece PTA si complica la vita facendo un film più difficile dell’altro. “Punch Drunk Love” (2002) è una commedia romantica tanto colorata, quanto complessa. Prendendo come riferimento le slapstick comedy degli anni cinquanta, Anderson crea un oggetto bizzarro, dove un personaggio chiaramente malato di mente incontra una sconosciuta e se ne innamora. A rovinare tutto è il responsabile di un negozio di tappeti che gestisce una linea erotica. Eh? Quello di “Punch Drunk Love” è un piccolo sogno delizioso e disturbato, coronato dalle musiche discordanti di Jon Brion e dalla fotografia straniante di Robert Elswit.
Dopo questa parentesi, torniamo ad altri due film che raccontano due padri putativi: “There Will Be Blood” (2007) e “The Master” (2012). È come se quanto appreso in “Boogie Nights” e “Magnolia” fosse amplificato e portato a un livello superiore, con la costruzione di personaggi molto più difficili, sfaccettati, umani. Il petroliere Daniel e il guru Lancaster sono i classici padri acquisiti di Anderson, solo che qui non ci sono altre storie a fare da cornice. I riflettori sono puntati esclusivamente su loro due e i loro figli acquisiti, permettendo di raggiungere una complessità psicologica sublime. Anche lo stile visivo è diventato più maturo, senza però essere riconducibile a degli elementi tipici (vedi il grandangolo di Malick) perché Anderson, al contrario di molti suoi colleghi, è sempre al servizio della storia che sta raccontando.
Chiude il quadro “Inehrent Vice” (2014), adattamento del libro omonimo di Pynchon, in cui Anderson si diverte in una versione psichedelica dell’hard boiled americano. Ma, se devo dirla tutta, per me il film rimane il meno significativo della sua filmografia.
Esce ora in America il nuovo film di PTA, “Phantom Thread”, storia di un genio sartoriale britannico, ultima interpretazione di Daniel Day Lewis prima della pensione. Da noi, ovviamente, il film uscirà tra due mesi, a febbraio, perché prima dobbiamo dare spazio a “Super Vacanze di Natale”. Come sarà il film? I critici gridano già al capolavoro, ma poco importa. Io sono sicuro che, comunque vada, ritroverò la mano di uno dei pochi registi contemporanei che possiamo chiamare “maestro” (con l’accento all’inglese), uno dei pochi che è riuscito nella sua carriera a non sbagliare neanche un film.
Così, la prossima volta che sarete seduti a un tavolo e vi chiederanno del vostro regista preferito, fermatevi un attimo a pensare. Forse vi state dimenticando di Paul.