Ecco, a nostro modesto parere, le 10 migliori serie del 2022 - THE VISION

Nel 2022, le serie tv hanno catalizzato molti dei dibattiti social, probabilmente anche nel tentativo di stemperare un anno non facile a livello emotivo, che anzi ci ha visti tutti quasi come assuefatti al dolore in risposta ai molteplici traumi subiti – dalla crisi climatica ai conflitti in atto. È stato, per esempio, il caso della quarta stagione di Stranger Things o dei meme sulla seconda di The White Lotus. È stato però anche l’anno in cui molti nuovi prodotti hanno alimentato il fenomeno del true crime o cercato di indagare il modo in cui è cambiato il nostro rapporto col lavoro. È stato un anno di riconferme, di successi determinati più dall’algoritmo che altro, ma, soprattutto, di grandi narrazioni. Queste sono le dieci nuove migliori serie uscite in Italia quest’anno.

Scissione (Apple TV)

A voler trovare un comun denominatore alle produzioni dell’ultimo anno, non si fatica a evidenziare l’intenzione di indagare il mondo del lavoro, dovuta anche alla messa in discussione della cultura del sacrificio su cui si tuttora si fonda e il peso dell’occupazione nel definire la nostra identità e il nostro valore. Tra le recenti uscite a tema non si può non menzionare Scissione, creata da Dan Erickson e diretta da Ben Stiller e Aoife McArdle.

Alla Lumon Industries, tutti i dipendenti sono costretti a sottoporsi a una procedura medica chiamata “scissione” prima di poter lavorare: i ricordi personali vengono chirurgicamente divisi da quelli professionali, così che all’interno dell’ufficio i lavoratori non abbiano altro che coscienza di quella realtà, senza interferenze emotive dall’esterno; nel mondo reale, al contrario, non ricordano mai cosa succede in azienda. Una sorta di esperimento per mantenere quell’equilibrio tra vita privata e lavoro a cui ambiamo tanto. Mark – interpretato da Adam Scott – si trova a guidare un team impegnato in una mansione di cui nessuno conosce l’utilità. Se nel mondo reale tutto segue il caos della vita, all’interno degli uffici della Lumon ogni cosa è perfettamente al suo posto, secondo una simmetria e un rigore che sfiorano la compulsività e il fastidio. Almeno fino a quando i dipendenti non realizzano che qualcosa non va e allora insieme ai protagonisti cambiano anche le inquadrature, spostando sempre qualcosa, come a indicare che non tutto è al suo posto. 

La serie ci invita a confrontarci con domande sul libero arbitrio, cosa renda tale una coscienza, sull’apparente autodeterminazione. Al centro, però, resta fissa la capacità dei lavoratori di farsi gruppo, di opporsi alla sfruttamento e, soprattutto, di rivendicare la cura e la solidarietà verso gli altri.

The Bear (Disney+)

Dopo aver abbandonato sogni più ambiziosi e una carriera in uno dei migliori ristoranti degli Stati Uniti – almeno a detta della sous-cheffe Sydney Adamu, appena assunta, il cui talento non le garantisce ancora di pagare le bollette –, lo chef Carmen “Carmy” Berzatto (interpretato da Jeremy Allen White) torna nella paninoteca sommersa dai debiti appartenuta al fratello morto suicida. È da qui che parte The Bear, una delle serie più applaudite dell’anno grazie alla sua capacità di evocare il modo in un cui la struttura di una brigata richiama le dinamiche di potere, l’aggressività e la precarietà che caratterizzano altri contesti.

Nei discorsi sul cibo confluiscono questioni sociali e politiche, che hanno a che fare con le capacità e le modalità di superamento dei traumi, l’elaborazione del lutto, la gestione dello stress, il tentativo di essere “persone migliori”, per sé stessi e per gli altri, e l’impatto del lavoro sulla salute mentale – tra orari folli e stipendi sotto la media.

La regia e il montaggio – che sono, forse più della trama, l’elemento chiave della serie – si soffermano sui movimenti rapidi e carichi di tensione dei protagonisti mentre corrono contro il tempo per assecondare le richieste dei clienti, le ordinazioni online e il proprio umore. La serie riesce a parlare del mondo di oggi restando sviluppandosi in uno spazio ristretto come quello di una cucina.

This Is Going To Hurt (Disney+)

Mentre Meredith Grey, dopo 19 stagioni, lascia Grey’s Anatomy, dal Regno Unito arriva This Is Going To Hurt, una serie ambientata in un ospedale, pubblico e britannico, ma che del sistema sanitario, al contrario di quanto siamo stati abituati da narrazioni romanticizzate ed eroiche, mostra soprattutto le falle, conseguenti ai numerosi tagli alla sanità: l’assenza di personale, i turni massacranti, la competizione, l’impatto sulla salute mentale e sulla vita privata di chi non vuole trovarsi a tutti i costi a scegliere tra carriera e vita privata. E il fatto che la storia sia ambientata nel 2006 – tra sms e snake – non può che farci riflettere su come possa essere peggiorata ulteriormente la situazione sanitaria oggi.

This Is Going To Hurt è tratta dal memoir di Adam Kay (Le farò un po’ male) – co-sceneggiatore – e racconta il suo impatto traumatico con il mondo degli ospedali, dove lavora come medico nel reparto di Ostetricia e Ginecologia. Tra diagnosi sbagliate, tatuaggi rovinati per dispetto e coaguli di sangue scambiati per placenta, This Is Going To Hurt affronta la complessità della vita  e la definizione della propria identità in un contesto istituzionale dove tutti – medici e pazienti – finiscono per essere vittime delle politiche neoliberiste e delle loro conseguenze sulla sanità. Spesso saccenti, arroganti e fuori luogo, medici e infermieri si rivelano soprattutto esseri umani, che cercano di fare il miglior lavoro possibile, dovendo gestire non solo urgenze e operazioni complicate ma anche la pressione  delle aspettative sociali e genitoriali che un tale lavoro comporta, fino a dubitare se sia davvero il futuro che fa per loro.

Con una scrittura tragicomica che sa far ridere e piangere tanto, This Is Going To Hurt mette in scena la quotidianità in corsia senza alcuna romanticizzazione, ma rappresentandola come una corsa continua, che porta Adam ad addormentarsi appena ha un attimo di pausa oppure al volante dell’auto, ricordandoci soprattutto che nessuno è infallibile e che è normale che sia così: prima o poi, per non soccombere, ci si deve imparare a fare i conti. Il fatto che la serie sia ambientata nel 2006 – tra sms e snake – non può poi che farci riflettere su come possa essere peggiorata ulteriormente la situazione sanitaria oggi.

Pachinko (Apple TV)

Nella tradizione napoletana si tramanda questo detto: “Il male peggiore è quello di chi conosce il bene e sa che non può averlo”, ed è una delle prime cose che viene in mente guardando Pachinko, la serie prodotta da Apple Tv tratta dal bestseller La moglie coreana, di Min Jin Lee.

Il pachinko è il gioco d’azzardo più diffuso in Giappone, una sorta di flipper verticale che usa piccole sfere d’acciaio, affittate dal proprietario della sala al giocatore, perché in Giappone il gioco è illegale e con questo trucco si può aggirare la legge. Lo scopo del gioco è quello di catturare il maggior numero possibile di sfere per poi poterle scambiare con altri premi o denaro nei negozi fuori dal casinò. Il pachinko diventa allora la metafora dell’esistenza che insegue se stessa, riscoprendosi ogni volta – nel ciclo di distruzione e creazione, generazione dopo generazione – diversa ma identica.

Pachinko, infatti, segue la storia di una famiglia di immigrati coreani nel corso di quattro generazioni, prima ghettizzati in Giappone e poi diventati col tempo wannabe in cerca di riscatto. Ampliando i contenuti del libro, nella serie ogni personaggio diventa un potenziale protagonista, grazie anche all’intreccio elaborato fra eventi e piani temporali diversi, che si alternano tra loro in un gioco fluido di rimandi e confronti fra presente e passato. Sunja e i suoi parenti, la famiglia protagonista, non sono speciali, ma solo alcuni tra i tanti poveri apolidi del mondo, eppure la loro storia è universale.

I May Destroy You (Now TV)

Nonostante a livello globale sia stata considerata una delle migliori serie recenti già nel 2020, I May Destroy You è stata distribuita in Italia solo quest’anno. Scritta e codiretta da Michela Coel, insieme a Sam Miller, la serie parla di stupro e consenso, di cosa significhi essere una persona Nera nella società di oggi e del labile confine tra la durezza dei criteri con cui giudichiamo le azioni altrui e la leggerezza con cui giustifichiamo le nostre.

Coel interpreta Arabella Essiedu, autrice di origini ghanesi di un bestseller, che ora fatica a finire in tempo la prima bozza del suo secondo libro. Durante l’ultima notte prima della consegna, esce per una pausa che si trasforma in una serata più impegnativa e la mattina dopo si ritrova nuovamente davanti al computer, nel suo appartamento di Londra, con pochi ricordi su cosa sia accaduto. Probabilmente devono averle drogato un drink. Solo un flashback le affiora alla mente: la visione di un uomo che la aggredisce sessualmente all’interno del bagno di un bar, ma non riesce a ricordarne il volto. Oltre alla storia principale di Arabella, anche quella secondaria del suo amico Kwame merita una menzione: ragazzo gay, Nero, che nasconde molte delle proprie paure scopando continuamente con sconosciuti, fino a quando non subisce una violenza sessuale da parte di un ragazzo che frequenta. Anche nella comunità gay maschile, infatti, si alimentino quei pregiudizi per cui chi è passivo è di conseguenza più femminile, non solo nel percepirsi o nei comportamenti, ma nel condividerne, per la società patriarcale, quella posizione subalterna al maschio penetratore, il cui volere è considerato legge.

A emergere da questa serie è soprattutto il significato politico della rabbia. Un’emozione che non solo molte persone faticano a esprimere, ma che la società non permette di elaborare allo stesso modo a uomini e a donne. È invece necessario accoglierne il potere trasformativo, come fa Arabella, facendola diventare strumento di ribellione personale e collettivo.

Andor (Disney+)

Tra nuovi capitoli, personaggi e spin-off, la saga di Star Wars è sicuramente una tra le più conosciute dal grande pubblico – se non per passione, almeno per l’iconicità di alcuni protagonisti, come Luke Skywalker, la principessa Leila o gli Jedi. In Andor non compare nessuno di loro, ma la serie è riuscita comunque a diventare uno dei capitoli più acclamati dell’universo narrativo. Prequel di un prequel – il film del 2016 Rogue One: A Star Wars Story, ambientato immediatamente prima dei film originali di George Lucas –, la serie esplora le origini di Cassian Andor, un capitano dell’Alleanza Ribelle il cui compito è contrastare il potere dell’Impero Galattico. Focalizzandosi sul dramma esistenziale, su scenografie sbalorditive e su una una scrittura ineccepibile, Andor non teme il confronto con prodotti precedenti, di cui anzi propone una narrazione più fresca e complessa della dicotomica lotta tra il bene e il male, portando in scena un approccio cupo e audace in cui nessuno è al sicuro e nessun sacrificio è mai abbastanza.

Se il primo episodio di Andor ad alcuni potrebbe sembrare troppo lento, la serie richiede l’impegno di superarlo per poi potersi godere appieno la crescente tensione con cui Tony Gilroy – già co-sceneggiatore dei Rogue One – alza la posta puntata dopo puntata. Vediamo allora come la popolazione venga soggiogata attraverso lo sfruttamento economico, un infido stato di sorveglianza e una polizia draconiana; assistiamo alla reinvenzione di un regime imperiale che passa attraverso una serie di lotte di potere sul posto di lavoro: non più comparse in attesa di essere soffocate da Darth Vader, gli Imperiali di medio e basso livello sono motivati dall’ambizione, dall’autoconservazione e da un profondo risentimento che rappresenta una minaccia molto più insidiosa e riconoscibilmente umana di qualunque raggio laser. 

Andor entra così nel franchise di Star Wars come un prodotto più maturo e politicamente impegnato, capace di evidenziare il potere universale dell’azione collettiva e di evidenziare quanto la resistenza all’autoritarismo non si esaurisca solo nella lotta fisica ma abbia molto più a che fare con la cultura di quanto spesso siamo disposti a riconoscere.

Candy (Disney+)

Se c’è un trend che ha caratterizzato il 2022 è sicuramente l’esplosione del true crime. Podcast, libri, serie tv: in pochi mesi abbiamo finito per sviscerare (quasi) ogni caso di cronaca nera accaduto dagli albori dei tempi, spesso con risultati deludenti, più raramente con esiti sorprendenti. È il caso di Candy, la miniserie interpretata da Jessica Biel, già a suo agio nel genere thriller grazie al grande successo di pubblico e critica di The Sinner, di cui è stata produttrice e protagonista della prima stagione. 

La serie, tratta da una storia vera, ricostruisce la vicenda di Candy Montgomery, una casalinga texana accusata di aver ucciso con quarantuno colpi d’ascia Betty Gore,  sua vicina di casa, intima amica e moglie del suo amante. Pur dichiarandosi colpevole, Candy affermò che si fosse trattato di legittima difesa dopo un attacco di Betty avvenuto durante un confronto sulla sua relazione extraconiugale. Nei suoi panni, Biel porta in scena il ritratto ipnotizzante dello sforzo necessario per essere la madre e la casalinga perfetta, del nervosismo che monta sotto la superficie apparentemente quieta e di cosa accade quando mantenere quella finta facciata non è più sufficiente. Assistiamo alla noia di Candy diventarle sempre più insostenibile e ai suoi desideri insoddisfatti – sessuali e non – che alimentano una rabbia incontenibile.

La miniserie, oltre a costituirsi come un documentario sulla rabbia femminile, sugli errori giuridici e sulle falle del sistema legale statunitense (tematica sempre più presente nei prodotti seriali true crime), così come un’indagine dei costumi suburbani di quarant’anni fa e dello scarto con quelli di oggi, in alcune parti d’America ancora troppo piccolo.. 

Bad Sisters (Apple Tv)

Se è vero come scriveva Tolstoj – in una delle citazioni più blasonate di sempre – che tutte le famiglie felici sono uguali mentre ogni famiglia infelice lo è a modo suo, la serialità è riuscita a uniformare, in molti casi, anche il modo di essere infelici, adagiandosi su cliché narrativi. Bad Sisters, adattamento della serie belga The Out-Laws – che ha portato il Guardian a chiedersi se il suo humor nero fosse il più nero di sempre – ribalta questa deriva già dai primi minuti, quando Grace, appena diventata vedova, si trova a schiacciare con forza i genitali del corpo morto del marito per nascondere l’evidente erezione. “Priapismo post-mortem,” le spiega la sorella Ursula. “Non è molto rara, soprattutto dopo una morte violenta”. Grace e Ursula sono due delle cinque sorelle Garvey, protagoniste delle show. Nonostante siano le cognate dell’uomo, nessuna delle sorelle sembra mostrare alcun dispiacere per la morte dell’uomo. Solo Grace ne è leggermente rattristata. Il perché è presto chiaro: John Paul è stato un marito e un padre coercitivo, possessivo e violento, capace di erodere ogni forza di spirito dalla moglie e i cui comportamenti abusanti erano iniziati anche sulla figlia.

Nonostante per alcuni la serie possa apparire troppo dark per essere una commedia e per altri troppo comica per parlare di violenza domestica, Bad Sisters riesce a bilanciare alla perfezione questi due elementi nel racconto, portando in scena donne che non hanno bisogno di niente e non vogliono chiedere scusa a nessuno. Queste donne non vogliono essere ridotte alla piatta narrazione degli angeli del focolare ma avere il ruolo di soggetti attivi, anche – se non soprattutto – nel male. La serie ha avuto giustamente successo perché, oltre all’asprezza incisiva dei dialoghi, le cinque attrici protagoniste sanno convincerci di essere davvero una famiglia unita, a volte nel peggio, ma per lo più nel meglio. Ciò che conta per Bad Sisters è infatti ciò che siamo disposti a fare pur di salvare qualcuno che ci è vicino dall’annientamento psicologico e per proteggerci l’un l’altro. Il fatto che la serie riesca a trovare non solo dei momenti, ma delle vere e proprie ragioni per ridere in mezzo al dramma, è la prova di quanto gli sceneggiatori abbiano saputo calibrare il senso del ridicolo, anche nei momenti più improbabili, senza svalutare la narrazione né creare la copia di qualcosa di già visto.

Circeo (Paramount+)

Tra le serie di lancio della nuova piattaforma streaming Paramount+ c’è anche Circeo, un legal drama italiano sul caso di rapimento e omicidio avvenuto nel settembre 1975 in provincia di Latina, dove Donatella Colasanti e Rosaria Lopez furono torturate fino alla morte della seconda e alla fuga della prima. Più che su cosa avvenne all’interno della villa in cui furono portate le due ragazze, Circeo concentra la narrazione sugli sviluppi dell’accaduto nelle aule legali.

Il processo agli autori del massacro del Circeo fu infatti un terribile esempio di victiming blaming. “Se le ragazze fossero rimaste accanto al focolare, dove era il loro posto, se non fossero uscite di notte, se non avessero accettato di andare a casa di quei ragazzi, non sarebbe accaduto nulla”, arrivò a dire Angelo Palmieri, avvocato difensore di uno degli assassini durante un’udienza. “I tre giovani non volevano uccidere la Colasanti. L’hanno colpita in testa ma non è uscito neanche un po’ di cervello”, aggiunse. I giornali e la tv fecero il resto, dipingendo Donatella e Rosaria come due ingenue ragazze di periferia, un po’ sprovvedute e attratte dalla ricchezza e dalla carriera di fotomodelle. Insomma, la loro “colpa” sarebbe stata quella di essere giovani e spensierate e di sperare in qualcosa di meglio della loro vita di borgata. Hanno pagato questo desiderio con la morte e la violenza.

Il merito principale di Circeo sta nel mettere in secondo piano le componenti morbose e melodrammatiche che tuttora caratterizzano la narrazione di questa vicenda, lasciando invece ampio spazio alle discussioni sui diritti delle donne e sull’appartenenza ideologica e la militanza neofascista dei carnefici.

 Cabinet of Curiosities (Netflix)

Vincitore del premio Oscar per il miglior film e la miglior regia nel 2017 con La forma dell’acqua, Guillermo del Toro – autore di opere ormai cult come Il labirinto del fauno ed Hellboy, nonché del nuovo adattamento di Pinocchio – è arrivato su Netflix con Cabinet of Curiosities, una serie antologica in otto parti tanto elegante quanto grottesca. Del Toro ha scritto solo due degli episodi, ma li ha supervisionati e curati tutti, riunendo otto registi diversi per dare vita a ogni sorta di incubo. All’inizio di ogni puntata, la cui storia è slegata da quella successiva, il regista appare come una figura sinistra mentre presenta minacciosamente l’episodio. Accanto a lui compare un armadietto in legno il cui contenuto, ci viene raccontato, va dalle chiavi alle ossa, ai corni d’unicorno.

La serie – che coinvolge in qualità di registi Guillermo Navarro, Vincenzo Natali, David Prior, Ana Lily Amirpour, Keith Thomas, Catherine Hardwicke, Panos Cosmatos e Jennifer Kent – permette a ciascun cineasta di trarre ispirazione dalla produzione di Del Toro senza dover perdere la propria identità, ma anzi unendo i due mondi nella creazione di un universo spaventoso e perverso, costituito da demoni dormienti e tentacolari, presi in prestito dalle narrazioni lovecraftiane, parassiti, umanoidi fuoriusciti da creme di bellezza e fantasmi urlanti. Alcuni episodi sono più paurosi di altri, specialmente quelli in cui i mostri sono rappresentati in maniera più classica, ma l’enfasi sta nella capacità di trasmettere concetti e tematiche interessanti in modi nuovi e inquietanti, creando qualcosa che rimarrà nella mente degli spettatori molto tempo dopo i titoli di coda – che sia per perseguitarli o lasciarli affascinati. Cabinet of Curiosities, in sintesi, riesce nell’intento di rendere il mondo orrorifico di Del Toro uno strumento di indagine culturale dell’attualità, proprio come avviene nei suoi film.

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