Nella Poetica di Aristotele si parla di catarsi, un termine che indica quel sentimento di purificazione che avviene nello spettatore dopo aver assistito a tutto ciò di più terribile e perverso che ha luogo durante una tragedia greca. Nel guardare Medea che uccide i propri figli solo per vendicarsi dell’imperdonabile torto inflittole da Giasone, ci ritroviamo a vivere attraverso i personaggi che abbiamo davanti situazioni e sentimenti estremi, quasi impensabili, ma che si annidano da sempre dentro di noi, fino a espellerli e a liberarcene grazie alla loro messa in scena. Il motivo per cui ogni anno migliaia di persone continuano ad andare a Siracusa a fare file interminabili sotto il sole solo per vedere dentro un anfiteatro vecchio di millenni queste tragedie greche è piuttosto evidente: i meccanismi di raffigurazione, immedesimazione, purificazione e mimesi della realtà che prendono forma in queste rappresentazioni sono talmente archetipe e fondamentali da non essere affatto diverse dalle stesse che viviamo oggi quando guardiamo un film o una serie tv. E tra i tanti registi contemporanei, quello che oggi probabilmente riesce meglio a riportare in chiave cinematografica proprio quel senso di disagio e inappropriatezza tipico della tragedia e dei suoi retroscena terrificanti è Lars Von Trier, motivo per cui è anche uno tra i cineasti più controversi e criticati della scena odierna. Tant’è che il suo ultimo film, The House That Jack Built, guarda caso è stato vietato in Italia ai minori di diciotto anni, oltre che essere stato rilasciato anche in una versione tagliata a misura di cuori deboli.
Il binomio grande artista e biografia folle è forse uno dei luoghi comuni più diffusi, ma è anche oggettivamente un’accoppiata vincente. Nel caso del regista danese infatti, è la sua storia personale a sembrare il soggetto di un suo film, ma forse sarebbe meglio dire che è il contrario. Lars Von Trier infatti è uno di quei personaggi con cui sembra veramente molto difficile avere a che fare, stando anche alle molte testimonianze degli attori, e in particolare delle attrici, che hanno lavorato con lui. Guardando e leggendo le sue interviste si percepisce quanto questo regista possa essere determinato proprio da tutti quei tratti emotivi anche disturbanti che è in grado di mettere in scena in modo così peculiare. Dal modo in cui è stato cresciuto – genitori stravaganti, nudisti, comunisti e favorevoli a un tipo di educazione totalmente liberale – fino alla scoperta da adulto, quando sua madre era sul letto di morte, di essere figlio illegittimo di un altro uomo – appositamente scelto dalla madre per il suo patrimonio genetico da artista – con la conseguente consapevolezza di non essere per metà ebreo come aveva pensato fino a quel momento: ci sono tutti gli ingredienti che hanno contribuito a far sì che Lars Von Trier abbia avuto un’esperienza della realtà poco incline alla normalità. Come da copione, il regista ha sviluppato nell’arco della vita una serie di fobie, alcune delle quali invalidanti per il suo stesso lavoro: per esempio ha paura di volare, e quindi non si sposta in aereo, ma solo con mezzi da lui sapientemente selezionati. Ipocondriaco, depresso, incline a uscite inappropriate perfette per auto-sabotaggi mediatici, come quella del 2011 a Cannes in cui si ritrovò a definirsi un nazista dopo che durante una conferenza stampa aveva provocato i giornalisti con discorsi contro Israele.
Eppure ha spiegato in modo abbastanza chiaro in diverse interviste come arrivi a certe uscite che sembrano più provocazioni fini a loro stesse che dichiarazioni sensate: cosa c’è di divertente nel Paradiso di Dante? Siamo tutti molto più affascinati dall’Inferno, e allo stesso modo è molto più interessante rappresentare, capire, analizzare il male – anche di una figura universalmente riconosciuta come probabile incarnazione moderna del demonio quale Hitler – piuttosto che il bene. Per questo la sua capacità di rappresentazione dei sentimenti più sporchi, delle perversioni e delle malattie mentali è probabilmente una delle migliori che possiamo aspettarci dal cinema contemporaneo. È proprio grazie a questa sua efficace capacità sia di destrutturazione che di spietata raffigurazione se nei suoi film non sembra mai esserci quel filtro di benevolenza e positività che spesso invade la narrazione per alleggerire lo spettatore dal peso dell’errore, della crudeltà cinica della realtà. Senza lasciare spazio alla risoluzione e alla pacificazione della storia, invece, Lars Von Trier innesca quel meccanismo classico di catarsi. Non serve che i figli di Medea e Giasone sopravvivano per darci quel senso di sicurezza e conforto che cerchiamo magari per codardia e abitudine, anzi, la loro morte sbagliata e crudele è proprio l’elemento che ci porterà alla purificazione. Così come non serve che un film si sviluppi attorno a una trama che conduce al lieto fine per essere godibile.
Attorno a questo stile di rappresentazione si articola un vero e proprio intento ideologico, che è quello portato avanti dal collettivo di cineasti nato nel 1995, Dogme 95, fondato da Von Trier e Thomas Vinterberg. Il cinema, per gli artisti che hanno aderito a questo movimento durato dieci anni, non deve ridursi alla volgare cosmetizzazione dell’industria hollywoodiana che ha imbellettato con effetti speciali ed eccesso di spettacolo la rappresentazione. Dogme 95 chiede così ai suoi registi un vero e proprio voto di castità, con l’intento di essere più onesti possibile nel proprio lavoro, che si batte per la rinuncia all’industria di massa e all’intrattenimento miliardario americano, una sorta di guerra fredda culturale tra Stati Uniti ed Europa. All’interno del movimento cinematografico di Lars Von Trier si stanzia così un decalogo per stabilire quali regole il regista debba seguire per fare sì che questi principi oppositivi possano realizzarsi, come l’uso della camera a mano, delle luci artificiali e l’assenza della colonna sonora o di una scenografia prestabilita. Nel corso degli anni, nonostante siano stati prodotti più di trenta film che si possono identificare con i principi di Dogme 95, i suoi stessi fautori hanno dato libera interpretazione a queste regole, che comunque rimangono molto presenti all’interno della loro produzione, in particolare quella di Von Trier. Capita infatti spesso di sentire fuori dal cinema, dopo aver visto un suo film, oltre a commenti di disgusto e fastidio, anche quel tipico senso di nausea dettato proprio dai movimenti naturali e mossi della sua camera. Il senso di verità e di mancanza di artificio collega così il cinema di Von Trier anche ad altre correnti del Novecento interessanti e importanti, come il teatro epico di Brecht, in cui lo spettatore doveva provare un senso di straniamento rispetto alla rappresentazione in atto, attraverso elementi evidenti di finzione: così, per esempio, in Dogville, il film di Lars Von Trier del 2003, in cui il regista ci mette davanti a una scenografia talmente scarna e invisibile da sembrare fatta semplicemente degli attori che recitano al suo interno, assemblata in qualche minuto giusto per dare loro uno spazio.
Ma la cosa più intensa del suo cinema è forse il modo in cui riesce a mettere in scena i disturbi mentali e le malattie di cui lui stesso conosce in prima persona forma e caratteristiche. Tra i suoi film non me ne viene in mente uno che non valga la pena di vedere, ma alcuni di questi hanno la capacità di toccare dei tasti particolarmente sensibili. In Melancholia, ad esempio, la sua pellicola uscita nel 2011 con Kirsten Dunst e Charlotte Gainsbourg, viene trattato il tema della depressione in un modo talmente peculiare e unico che a uno spettatore distratto potrebbe sfuggire completamente di vista. Ricordo infatti che all’uscita del cinema un mio amico si lamentò della presunta mancanza di senso e della poca tensione in una sorta di disaster movie malriuscito. Se si vuole cercare il senso di Melancholia nella raffigurazione di un disastro planetario in stile La guerra dei mondi, è inutile specificare che si avranno davvero poche chance di trovarlo. Ciò che invece è interessante e unico di questo film è il modo in cui Von Trier sceglie di rappresentare due tipologie di persona, una sana e una malata di depressione: nella prima parte del film, infatti, vediamo Kirsten Dunst atterrita dalla normalità di un evento gioioso come il suo matrimonio. Non c’è un motivo apparente per cui lei entri in uno stato di crisi tale, ma è proprio uno degli elementi caratteristici della depressione quella di ritrovarsi in uno stato di panico in situazioni di assoluta gestibilità e consuetudine. Quando però si viene a sapere che un pianeta sta avvicinando talmente la sua orbita a quella terrestre da decretarne la prossima distruzione – letteralmente la fine del mondo – la reazione di Kirsten Dunst mantiene invece una pacatezza inquietante. Ed è anche questo uno schema mentale tipico di chi è affetto da depressione, opposta alla reazione naturale di sgomento davanti a una situazione terrificante come la prospettiva della distruzione del proprio pianeta, interpretata in questo caso dalla sorella sana, ovvero Charlotte Gainsbourg.
Nel suo ultimo film invece, The House That Jack Built, Lars Von Trier mette in scena non solo la vita folle di un serial killer con tendenze ossessive compulsive – e lo fa portandoci dentro il suo punto di vista, le sue sensazioni, quasi a condurci dentro un’immedesimazione disturbante che avviene attraverso i suoi piccoli gesti di routine assassina – ma anche e soprattutto porta a galla il tabù della morte. Nella naturalezza dei gesti del protagonista percepiamo il senso della morte in un modo inedito, come se si trattasse di un’opera d’arte. Il fatto che oggi siamo così lontani dalla visione della fine della vita, sempre più rappresentata come un’immagine lontana, altra da noi, viene riportato sullo schermo attraverso una narrazione ironica e grottesca del rapporto che c’è tra il protagonista, completamente distaccato dalla realtà, e il corpo morto e straziato della sua vittima. Congelando i cadaveri delle sue vittime, rendendoli manichini plastici e sculture aberranti, il protagonista del film riporta il senso della morte su un piano concreto, diverso dal destino remoto al quale tutti sappiamo di dover arrivare a un certo punto, ma del cui pensiero non ci preoccupiamo. In tutto ciò, Lars Von Trier decide di rappresentare una caricatura degli Stati Uniti, la condizione angosciante e perversa di tutti i loro valori, dalla famiglia alla legittima difesa, intramezzandola con scene quasi pittoriche, documentaristiche e filosofiche che scandiscono il ritmo di un film terribilmente crudo. Quando il protagonista uccide senza pietà una madre con i suoi figli dopo averli portati a fare un pic-nic, tratta la sua vittima torturandola attraverso un atteggiamento da padre di famiglia americano, seguendo tutti quegli stereotipi che proprio il cinema hollywoodiano ha tramandato negli anni della sua egemonia culturale.
Si potrebbero analizzare uno per uno i film di Lars Von Trier per trovarvi innumerevoli significati, spesso disgustosi, crudi, cinici, spietatamente cattivi e che denotano una totale mancanza di fiducia nel genere umano. Da Le onde del destino a Antichrist, ognuna delle opere del regista ha in sé una quantità di piani di lettura che si potrebbe scriverne e discuterne per giorni. Il fatto che, usciti dal cinema, sia altamente probabile ritrovarsi a passare la notte con gli incubi, se per qualcuno può essere un buon motivo per non vedere quei film, per quanto mi riguarda è invece proprio il suo aspetto più importante. Ogni volta che si fa un incubo significa che il proprio cervello sta processando uno stato mentale rimosso, che sta elaborando qualche tipo di sofferenza. Se un regista è in grado di portare lo spettatore a elaborare il male, con dolore e disgusto, perché no, vuol dire che ha fatto bene il proprio lavoro. Quale sia il senso dell’arte è una domanda che l’uomo si pone da millenni e alla quale non troverà mai una sola risposta, ma se tra le varie spiegazioni che si possono dare a questo quesito includiamo anche la liberazione e la purificazione da tutto ciò che c’è di sbagliato in noi, senza nasconderlo ma affrontandolo di petto, perché comunque esiste, allora Lars Von Trier è un artista davvero incredibile. Nonostante la censura provi a farci credere che non è così.