Non è facile trovare un film, un libro o una serie tv che abbia come protagonista una donna e che in virtù di questo singolo dettaglio non venga trasformato in automatico in un prodotto culturale “al femminile”. Abbiamo applicato il bollino rosa su ciò che leggiamo e guardiamo per decenni, o addirittura per secoli, visto che inizialmente i romanzi erano considerati una forma letteraria “per signorine”. Le cose oggi per fortuna sono cambiate, e un film che abbia come personaggio principale una ragazza non per forza viene considerato a priori come una declinazione femminile di una forma d’arte prettamente maschile. Non è che ogni serie tv con donne protagoniste debba necessariamente essere Sex and The City, come non è nemmeno più così scontato che per seguire le vicende appassionanti di Carrie Bradshaw tu debba essere femmina. Per quanto però ci siamo sorbite anni e anni del cosiddetto “male gaze” che ci obbligava a guardare gran parte del cinema – se non quasi tutto – da un punto di vista maschile, ci sono delle eccezioni che hanno anticipato la tendenza a non vedere la donna solo come oggetto da rappresentare ma anche come soggetto attivo e autonomo in una trama. All’interno del cinema italiano, un film che potrebbe essere considerato come una sorta di trattato inconsapevole di femminismo in un momento in cui le rivoluzioni sessuali non si erano ancora compiute, per esempio, è La ciociara di Vittorio De Sica, un film che prende la trama dal libro omonimo del 1957 di Alberto Moravia.
Questa pellicola, insieme a Bellissima di Visconti, Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli e a La ragazza con la pistola di Monicelli, fa parte di quei film che nella storia del nostro cinema, tutti con caratteristiche molto diverse, sono stati in grado di interrompere la predominanza assoluta dello sguardo virile – inteso come modo di rappresentazione oggettificata e subordinata del femminile. E quando si mette una pausa a questa modalità di raffigurazione che relega la donna a un mero accessorio narrativo, o che la rende una protagonista in grado di rivolgersi solo al suo stesso sesso, incredibile a dirsi, i film che ne escono fuori non hanno sopra né un fiocco azzurro né uno rosa, ma sono semplicemente storie raccontate e agite da persone. Ed è interessante vedere come un film uscito quasi sessant’anni fa come La ciociara, nonostante sia stato diretto, prodotto, e scritto da uomini riesca a dare una raffigurazione della donna che non solo si svincola da qualsiasi banalità e cliché cinematografico ma veicola anche un messaggio di femminismo e di emancipazione che non scade in qualche formula didascalica e pedante di educazione dall’alto.
A fare sì che questo film del 1960 sia così riuscito ed efficace non è affatto una coincidenza, anzi, direi proprio che è frutto di un’aggregazione consapevole tra i migliori addetti ai lavori di quel momento. La ciociara infatti è come una di quelle superband dove si riuniscono i musicisti più bravi dei gruppi più famosi, solo che invece di suonare si mettono insieme per fare un film. A partire ovviamente dalla regia di Vittorio De Sica, che usciva da una pausa di qualche anno in cui aveva fatto “solo” l’attore – suo malgrado, come dice in alcune interviste, dato che dirigere era la cosa che preferiva – e dalla scrittura di Cesare Zavattini. Il sodalizio artistico tra i due, suggellato da un rapporto personale piuttosto problematico e conflittuale – Zavattini risponde a un giornalista americano che la cosa che hanno in comune è che “ciascuno di noi due crede in cuor suo di essere l’elemento determinante del successo del film” – è forse una delle punte più alte della storia del cinema italiano.
La ciociara nasce dunque dall’esperienza del neorealismo, mitigandone però certi tratti fondamentali: gli attori sono professionisti e non persone prese dalla strada, l’atmosfera alterna momenti più leggeri a quelli tragici, la resa finale si distanzia dai canoni estetici e narrativi neorealisti ai quali si è contrapposta con fermezza la Democrazia Cristiana di Andreotti, da ciò questo alleggerimento sia formale che contenutistico. Il film è tratto dal romanzo di Alberto Moravia, un’ulteriore componente che si aggiunge alla superband del lungometraggio insieme alla colonna sonora di Armando Trovajoli e, ovviamente, all’incredibile performance di Sophia Loren. Tanto brava e convincente nel ruolo di Cesira, la madre di Rosetta che scappa da Roma con la ragazzina durante la guerra, non solo da vincere un Oscar ma anche da non fare sentire per nulla la mancanza della presenza di un’altra attrice incredibile, Anna Magnani, che originariamente avrebbe dovuto interpretare il suo ruolo, mentre la Loren avrebbe dovuto essere la figlia. Non è molto chiaro perché alla fine Anna Magnani abbia rinunciato alla parte, ma è evidente che Sophia Loren nonostante i suoi venticinque anni fosse assolutamente in grado di reggerla.
La ciociara, dunque, parte da una base di qualità decisamente solida. Ma la cosa più sorprendente di questo film, al di là della bravura sia di chi lo ha recitato che di chi lo ha scritto e diretto, sono i temi che tratta, la rappresentazione che dà di una storia femminile ma principalmente umana. La storia di Cesira e di sua figlia Rosetta già parte da un presupposto insolito: Cesira infatti è una commerciante che ha ereditato la bottega del vecchio marito dopo la sua morte, e che non ha problemi a dire che questo matrimonio le è solo servito per emanciparsi dalla realtà rurale da cui proviene. “Io mi so’ sposata Roma, mica lui”, dice la vedova a Giovanni, personaggio centrale non tanto per il ruolo piuttosto piccolo nella trama ma per la sua funzione all’interno della costruzione del personaggio di Cesira: l’uomo è infatti sposato con figli, ma non per questo rinuncia a concedersi un’avventura con lei. Questa sotto-trama è interessante perché mette al centro del film una cosa che spesso passa in sordina, ovvero la sessualità femminile. Cesira è una donna ancora giovane che prova desiderio, attrazioni, esigenze proprio come tutti gli esseri umani, indipendentemente dal loro genere di appartenenza. Non c’è un attimo in cui questo personaggio, già di per sé forte e autonomo, nasconda la sua natura o la celi dietro qualche velo bigotto di donna sacrificata alla maternità e al compianto marito. Quando incontra un soldato russo a torso nudo non si trattiene un secondo dal fare apprezzamenti “e mica ce lo dicono che in Russia ci sono uomini così”, rappresentando il ritratto di una donna tanto sicura di sé e tanto attaccata alla sua libertà da urlare in faccia a Giovanni “Io non ce ne ho de padroni”, dopo che questo l’aveva accompagnata all’uscio con una simpatica pacca sul sedere.
Non c’è niente di più empowering, per usare un termine di cui oggi decisamente si abusa, che guardare su uno schermo un personaggio femminile che fa fronte alla violenza del mondo maschile – quello della guerra, della povertà, dei soldati che pretendono la piena disposizione di qualsiasi donna che incontrano – solo ed esclusivamente con il suo orgoglio sfacciato. Cesira è costantemente bombardata non solo dagli aerei tedeschi che incombono su Roma e su tutto il Lazio ma anche dai continui e invadenti sguardi maschili che spesso non si limitano solo a guardare. Ma di questo ne è consapevole, e piuttosto che chiudersi nel guscio vittimista in cui potrebbe rifugiarsi prende con forza e prepotenza tutto ciò che le capita di petto. Non c’è nemmeno un fotogramma di questo film in cui c’è spazio per concentrarsi sui colpevoli, su quel tipo di uomo ingordo e prevaricante, ma solo sulla potenza della sua reattività: Cesira è la protagonista non solo perché è il personaggio che appare di più ma anche perché è talmente dura e ostinata che non consente a nessuno di rubarle la scena, specialmente al viscidume di un uomo che vuole approfittarsi di lei. Tutti le chiedono qualcosa, persino gli americani vittoriosi che passando col carro armato le urlano “Show me your legs!”. Ma Cesira è un personaggio che ha una risposta per chiunque provi a prendersi ciò che non gli spetta, è la manifestazione più autentica e potente della femminilità che non c’entra proprio niente con il mito angelicato del cosiddetto gentil sesso.
Ma la trama de La ciociara non parla solo di Cesira ma anche della sua odissea, da Roma alla Ciociaria, per rifugiarsi con Rosetta, troppo debole per sopportare la guerra, e poi indietro, dalla Ciociaria a Roma, dove incontra la crudeltà più primitiva. Quando sembra che il viaggio sia finalmente finito, quando pensa di poter ritornare nella casa che si è sudata e guadagnata, lungo la strada lei e la figlia diventano vittime di quelle che si definiscono le “marocchinate”: si tratta di episodi di violenza sessuale perpetuati dai goumier francesi, in particolare nel Lazio. Cesira e Rosetta si riposano in una chiesa bombardata, e proprio in quel luogo sacro in apparenza ospitale e protettivo per una madre e una figlia, un gruppo di soldati le mette spalle a muro e le stupra una davanti all’altra. Si tratta di una scena agghiacciante in cui la brutalità più animalesca si riversa sul corpo di due donne, ricordando sia a Cesira che a noi che guardiamo che per quanto forte possa essere una donna c’è una zona oscura e primordiale dell’essere umano che può distruggerne ogni barriera. Dalla violenza distruttrice della guerra alla sua manifestazione più infima, quella di uno stato di sospensione dei diritti umani in favore di una depredazione senza limiti, nemmeno quelli del corpo di una ragazzina di dodici anni che si alza sotto shock con il sangue che le scende dal vestito.
La ciociara è quindi un film che riesce non solo a rendere due donne protagoniste di una trama intensa e inquietante – anche perché racconta cose successe davvero – ma anche a rappresentare la sessualità femminile, il rapporto tra madre e figlia, il passaggio dall’innocenza alla pubertà, quella che vive Rosetta dopo il trauma, e l’accettazione da parte di una madre della maturazione di una bambina che, nel peggiore dei modi, si trova a essere donna e adulta senza nemmeno volerlo, prima ancora del tempo. Nei loro pianti, nei loro silenzi, nella loro battaglia quotidiana con il maschile ma anche nella conciliazione con questo, attraverso desiderio e passione, c’è una stratificazione di temi e idee davvero incredibile. Nel pianto liberatorio finale di Rosetta e Cesira c’è tutta la rabbia del sopruso e della realtà asfissiante che si vive in un mondo squilibrato, dove se nasci con un sesso, con una religione, con un’idea diversa del mondo allora devi lottare per non soccombere all’altro, al dominante. La ciociara inverte questa dinamica e rende protagoniste due donne in tutta la bellezza del loro desiderio di libertà. Non so quanti film esistano o verranno fatti che riescano a dare un ritratto di due donne tanto accurato e complesso, ma di sicuro questo nel 1960 ha creato un precedente senza pari.