Ognuno di noi porta con sé immagini che in qualche modo lo hanno segnato. Siamo fatti di ricordi e i ricordi per la maggior parte delle persone sono soprattutto visioni, a cui sono connesse parole, suoni, sensazioni tattili e olfattive. A tutto ciò sono legate particolari atmosfere ed emozioni, per dirla con il filosofo tedesco Hermann Schmitz. Il nostro senso di identità è dato proprio da ciò che ricordiamo e dal modo in cui lo ricordiamo. Le neuroscienze lo hanno dimostrato da tempo. La memoria, però, non deve essere confusa con la realtà oggettiva, perché è una sua ricostruzione, non per questo meno tangibile, anzi. Potremmo dire che la realtà oggettiva in un certo senso non esiste, dato che l’unico modo di percepirla è attraverso la nostra individualità, e quindi per forza percepirla in maniera distorta. È proprio questa distorsione che le imprime dei significati.
Nel nostro cervello si accumula tutto ciò con cui entriamo in contatto, ci portiamo quindi con noi un enorme inavvertito cognitivo, di cui non siamo coscienti ma che ci identifica molto più di quanto crediamo, il famoso rimosso, fatto di forme, suoni, oggetti, desideri che alcune situazioni possono riemergere all’improvviso, involontariamente: la sfumatura della chioma di un albero, il profilo di un volto, un tema musicale, il ritmo di un gesto, la texture di un materiale scolpito, il gioco di prospettive creato da un edificio. Non sempre ci è chiaro perché ricordiamo proprio una determinata cosa e non un’altra, non sempre al nostro Io è evidente il messaggio che un certo rebus mentale porta con sé. A volte, a questo proposito, alcuni scrittori o registi raccontano che hanno cominciato a lavorare a certa storia proprio per andare a decifrare un’immagine che li perseguitava, un enigma. In questo senso, alcuni artisti sono in grado di creare immagini particolarmente evocative, di fronte alle quali è difficile restare indifferenti e di cui facciamo fatica a liberarci, perché entrano in diretta risonanza col nostro inconscio, diventando parte di noi, anche solo dopo un primo e magari unico contatto. Il regista polacco Krzysztof Kieslowski è sicuramente uno di questi.
Kieslowski è stato in grado, come aveva notato subito Stanley Kubrick, di drammatizzare le idee, invece che limitarsi a raccontarle. La visione di Kieslowski (e del suo storico collaboratore, l’avvocato Krzysztof Piesiewicz, insieme a cui scrisse le sceneggiature dei suoi film più significativi) non viene semplicemente mostrata, ma fatta vivere in prima persona allo spettatore e ciò fa sì che entri nel suo essere come un’esperienza. Durante la visione si è così tanto immersi nel flusso, nella sua atmosfera, che, come sottolinea sempre Kubrick, diventa impossibile “percepire il sopraggiungere dei concetti narrativi e tematizzarli prima che questi non abbiano già raggiunto da tempo il profondo del tuo cuore”.
Una di queste immagini che mi perseguitano è una scena del Film blu (del 1993), il primo della trilogia Tre colori, ispirata ai valori che divennero il motto della rivoluzione francese: “Liberté, égalité, fraternité”. Il Film blu è quindi il film della libertà e la scena è questa: Juliette Binoche, nei panni di Julie, cammina a passo spedito sfregando le nocche della mano destra contro un possente muro di pietra, fino a farle sanguinare, finché non incontra l’edera che ci cresce sopra e lo ricopre. La forza e la densità delle immagini di Kieslowski è che portano sempre con sé la potenza degli altri sensi. Il tatto e l’udito in primis.
Julie, vedova di un famoso compositore, è l’unica sopravvissuta all’incidente stradale che ha distrutto la sua famiglia e la sua esistenza. Dopo aver cercato di uccidersi nell’ospedale dov’è stata ricoverata, ingoiando una manciata di pillole rubate alla farmacia del reparto, cerca sistematicamente di compiere una sorta di suicidio mentale, dissociandosi da tutte quelle che erano le sue memorie, di diventare una tabula rasa, fino a distruggere il manoscritto dell’ultima opera del marito, dedicata alla celebrazione dell’Unione europea. Eppure, nonostante i suoi sforzi, la vita germoglia da ogni parte, e con Julie intuiamo che la libertà non è andare incontro al nulla, ma considerare i lacci dell’esistenza da un’altra prospettiva. Così, nel suo percorso si occupa di Lucille, la spogliarellista che vive al piano di sotto, collabora con Olivier, l’ultimo collaboratore di suo marito, accettandone l’amore e offre infine la casa di famiglia all’amante del marito, incinta del figlio. E tutto questo non significa in alcun modo cedere, o sacrificarsi, ma liberarsi.
La trama, rivista con gli occhi di oggi, sembra profetica e ricca di ulteriori simbologie socio-politiche. Non a caso Kieslowski iniziò come documentarista per poi passare alla fiction in seguito a un paio di episodi che lo scossero profondamente. Nel 1971, infatti, il suo documentario sulla repressione violenta dello sciopero di Danzica, Lavoratori 1971: Niente su di noi senza noi, venne requisito dalla polizia e usato per identificare i partecipanti. Kieslowski si sentì profondamente colpevole per questo, come se li avesse traditi. Il regime non apprezzava nemmeno la sua visione spirituale e simbolica della vita, confluita in opere la cui poetica si innesta su quelli che sono tradizionalmente valori cristiani, gli stessi che negli ultimi secoli sembrano aver dimenticato persino i papi e i fedeli, e sulla sincronicità junghiana, ovvero la teoria – parallela a quella della causalità – delle coincidenze significative o dei nessi acausali, quelle “misteriose corrispondenze” di cui parlava anche Goethe. A questa visione si avvicinò probabilmente nel 1980, anno in cui filmava un deposito automatico di bagagli per il documentario La stazione. Anche in questo caso la polizia gli sequestrò la pellicola. Kieslowski, ignaro, aveva ripreso una valigia contenente il cadavere squartato di una donna, fatta a pezzi dalla figlia, che la polizia stava ricercando da tempo. Ma il vero problema col regime era il fatto che un artista come lui risvegliava le coscienze degli spettatori, a partire dalla loro sensibilità più profonda e intima. Il cinema di Kieslowski, infatti, ha ben poco a che fare con l’ideologia, politica o religiosa, pur prendendo come spunto i Dieci comandamenti in una delle sue opere più famose – il Decalogo appunto, 10 mediometraggi per la tv usciti nel 1988 – e La divina commedia, in quella che doveva essere la sua seconda trilogia, interrotta a causa della sua morte prematura, avvenuta nel 1996, a soli 55 anni. Kieslowski usa valori profondamente radicati nella nostra cultura per mostrare il nulla che nascondono, e superarlo.
Inizia la sua carriera mostrandoci il male in modo scarno, la mancanza di speranza in tutta la sua sobrietà: basti pensare a opere come Breve film sull’uccidere (Krótki film o zabijaniu), la versione ampliata del quinto episodio del Decalogo, o Non desiderare la donna d’altri (in originale Krótki film o miłości, “Breve film sull’amore”), il sesto. Queste opere ci mostrano com’è povero e disperato il mondo che origina da qualsiasi regime o ideologia, che sia il comunismo o il capitalismo, abitato e agito dai sentimenti che porta con sé. Kieslowski mette in scena un mondo dove Dio è morto, e i suoi personaggi sembrano costantemente fare i conti con questo silenzio, con questa assenza, ripetendo in tutti i modi che possono la domanda: “Perché mi hai abbandonato?”. Ma se Dio tace l’unico modo è rivolgere i propri interrogativi a sé stessi. Kieslowski si concentra così sulla riflessione filosofica rispetto all’intreccio tra caso e necessità, con uno sguardo lucido sulle contraddizioni politiche, sociali e intime del contemporaneo, permeando le sue storie di una densa simbologia, che per certi aspetti lo avvicina ad Andrej Tarkovskij (il costante ritorno dell’acqua, delle candele) come riconosciuto dall’omonimo figlio del regista russo.
Il primo episodio del Decalogo ben rappresenta questo nodo fondamentale della sua poetica ed è la storia di un professore universitario di Fisica e di suo figlio. Il professore è un grande appassionato di computer e pensa che tutta la vita possa essere descritta matematicamente attraverso il loro uso. In seguito a calcoli complessi sviluppati da lui è certo che suo figlio possa pattinare sul piccolo lago ghiacciato vicino casa senza rischiare che la superficie si rompa. Fa una doppia verifica e una prova empirica. Il ghiaccio, però, si rompe. Il padre è talmente sicuro dei suoi calcoli che non sospetta nulla, nemmeno quando nota una serie di segni: un camion dei pompieri che corre verso il lago, gli amici del figlio che non lo trovano, la lezione a cui non si è presentato, le persone che cercano di contattarlo. Tutti dati che uno scienziato, che basa la sua visione sul principio di causa-effetto dovrebbe saper riconoscere. E che invece, accecato dalla sua certezza, non vede. È il calamaio con cui sta scrivendo che si rompe all’improvviso e senza essere stato toccato il segnale che gli mostra una realtà alternativa, che gli fa capire che non tutto è prevedibile – e che pensarlo è segno di hybris. Corre così al lago, vede il buco nel ghiaccio e anche a quel punto continua a negare l’evidenza, a cui si arrende solo davanti al corpo morto del bambino. Ed è proprio il dolore, la sensazione fisica della perdita, che secondo Kieslowski può permetterci di comprendere a pieno la nostra condizione, il nostro essere nel mondo in una determinata maniera, quella che Aristotele chiamava la nostra héxis.
In molto cinema di Kieslowski c’è un dichiarato pessimismo nei confronti dell’arrogante e, per certi aspetti, ingenua pretesa di controllo della ragione. I suoi film nascono dalla consapevolezza dell’insufficienza di un sapere che non sia strettamente legato all’esperienza sensibile. L’apparente ambiguità, l’assenza di spiegazioni esplicite e in definitiva la messa in scena aperta che ci offre il suo cinema ci invitano a sostituire i sensi al linguaggio, permettendoci di intravedere qualcosa che si pone oltre al filtro della nostra percezione, nello spazio del sentimento, una coscienza a monte della ragione. I personaggi di Kieslowski e Piesiewicz congiungono la loro combattuta soggettività in un universo composto dall’intreccio di temi e figure ricorrenti, in cui gli oggetti diventano messaggi di corrispondenze simboliche, che interrompono la meccanica causale della narrazione, rivelando la relatività delle immagini e la molteplicità del reale, suggerendo che siamo tutti imperscrutabilmente interconnessi, come se dal caos emergessero dei sigilli, delle promesse di qualcosa che sta al di là, che è presente e aspetta solo di essere riconosciuto per indicarci un possibile cammino.
Il critico cinematografico Serafino Murri, nel 1996, nella sua monografia dedicata al regista, scriveva: “Quello dei suoi film di Kieslowski è un mondo senza certezze, a cui viene sottratto il punto di vista super partes che accomuna lo sguardo del narratore a quello di Dio. Ma è proprio quest’assenza di certezze a rendere l’atto di vivere grande, meraviglioso. La vita per Kieslowski [è] già un miracolo inspiegabile, che non ha bisogno dello sguardo di un Dio per manifestarsi. Basta lo sguardo appassionato di un uomo che non smette di farsi domande, per farla emergere in tutta la sua forza”. Il mondo, per Kieslowski, sembra infatti rifondarsi sulla speranza della possibilità di comunicazione tra gli esseri umani e sul dialogo costante con sé stessi, basato sistematicamente sul dubbio invece che sulle certezze (come peraltro fa la scienza contemporanea). Da qui il tentativo costante, negli ultimi film, di instaurare un dialogo intimo con lo spettatore.
Le opere di Kieslowski, dalle più scabre alle più accoglienti appaiono come una vera e propria parabola, che si articola tra la scoperta del caso e della sua insensatezza, la consapevolezza del male, dentro e fuori di noi, fino a un progressivo affinarsi della sensibilità, che ci porta ad avvicinarci al mondo. Il Film rosso, sulla fratellanza, è l’emblema di questo punto di arrivo, un rinnovato contatto con l’altro. La fratellanza messa in scena dal regista sembra così il risultato di un movimento spirituale che ci allontana da ciò che ci fa definire umani e che a ben vedere è una costante separazione dal mondo che ci circonda, un volerci definire diversi a tutti i costi, unici. Il tipo di avvicinamento raccontato dalle sue opere ci fa invece sperimentare un un rapporto di assoluta parità con l’altro, che ci porta a superare la nostra individualità, l’orma del desiderio degli altri. Entrare in contatto diventa una così una liberazione. Nell’incontro non c’è più un me, ma appare tutta la forza di ciò che sta fra le cose, la connettività del mondo, che ci separa e ci avvicina al tempo stesso. Kieslowski ci invita a permetterci questo incontro, quando tutto ci porta a evitarlo. La cesura tra sentimento e pensiero ci permette allora di farci sorprendere dalla vita, non in senso spiazzante e negativo, ma in un modo inedito, positivo.
Non è un caso che le opere di Kieslowski trovino un corrispettivo nelle sinfonie di Beethoven, con quei passaggi in cui l’istinto di autoconservazione, l’identificazione, la rabbia, l’orgoglio, la difesa dell’individualità, la ferita che siamo si rimargina per un attimo, permettendoci di fonderci con una dimensione più ampia, abbondante, in cui si possa comprendere e accettare il disordine del mondo. Un contatto per certi aspetti mistico, che può fare da base a una società in cui certi valori, tuttora rivoluzionari, si manifestino trovando un significato al di là di qualsiasi retorica.