Quest’anno il Concertone del primo maggio ha dato un segnale molto chiaro: il rap – o sarebbe meglio dire la trap – non è più cosa aliena alla nostra cultura, anzi, rappresenta il nuovo mainstream. Ormai questi ragazzi dai vestiti eccessivi e i tatuaggi vistosi che cantano con l’autotune sono personaggi riconosciuti, simboli in cui rivedersi o da cui distanziarsi. Che si ascolti il genere o si prediliga altro – come l’altrettanto florido filone itpop – di fatto non troviamo più nulla di strano negli slogan della Dark Polo Gang, nei denti d’oro di Sfera Ebbasta, nello slang a metà fra italiano e tunisino di Ghali; è difficile rimanere ancora a bocca aperta guardando i balletti scomposti di un trapper. C’è però qualcuno che ci è riuscito: Young Signorino.
Negli ultimi giorni chi ha visto questo video è rimasto sconvolto. Un ragazzo con discutibili tatuaggi in faccia mugola e biascica parole senza senso su una base rap, scimmiottando gli idoli della trap. Non si tratta di una semplice parodia, ma della sintesi estremizzata dei canoni della musica pop di oggi. Paolo Caputo, diciottenne di Cesena, si muove nei territori dell’ironia, non sappiamo quanto consciamente. Le reazioni all’ennesimo fenomeno di Youtube sono state manichee: c’è chi lo considera un genio e chi uno stupido. Ma già il fatto che se ne parli – e che la discussione sia così polarizzata – volge come punto a suo favore. “L’arte” (se così possiamo chiamarla) di Young Signorino è grottesca, si colloca nel mainstream culturale; ma per capire come siamo arrivati a questo punto (degenerazione/evoluzione/involuzione: dipende da che punto di vista si guardi il fenomeno) bisogna partire da più lontano, e legare fra loro elementi all’apparenza distanti, che pure rispondono a un mutato atteggiamento del fruitore contemporaneo: ovvero la vittoria dell’atteggiamento ironico come modo di rapportarsi fra noi e il mondo.
Molti di voi avranno esperienza delle Trash Night, serate di musica a tema in cui il dj passa senza soluzione di continuità vecchi tormentoni estivi, classici anni Ottanta e Novanta e sigle dei cartoni animati. Sono tutte canzoni del circuito mainstream che nell’epoca in cui sono state prodotte sono state derise, perché considerate stupide o superficiali. Anni dopo, nel contenitore del trash, sono state recuperate ironicamente come colonna sonora di serate a base di alcolici scadenti. Ci fa ridere tutto l’astio che abbiamo covato verso questi pezzi e allo stesso tempo attiviamo il meccanismo della nostalgia, anche nei confronti di epoche che non abbiamo vissuto, ma ci sentiamo soprattutto soddisfatti del fatto che da buoni borghesi acculturati riusciamo ad ascoltare anche brutta musica con il necessario distacco. Con la scusa dell’ironia riusciamo a mettere a tacere il senso di colpa per il fatto che in fondo vogliamo soltanto ascoltare musica leggera e senza impegno.
Qualche anno fa le trash night erano molto in voga, poi è nata la vaporwave: un tipo di musica geneticamente nostalgica e ironica che si fa vanto di stravolgere la grammatica di vecchi pezzi pop o di elettronica per trasformarli in un calderone di input e reminiscenze. Una sorta di paesaggio sonoro dell’estetica mainstream che abbiamo assorbito inconsapevolmente fin dalla nascita, anche solo accendendo la tv. Nell’ambito della vaporwave, nata principalmente su SoundCloud, in un ambiente fertile e aperto alla sperimentazione e all’avanguardia, è successo qualcosa di indicativo. Una sottocultura – dunque una nicchia, come in anni precedenti poteva essere il punk o la rave culture – ha dimostrato di amare quella musica che saccheggiava per le proprie composizioni: jingle pubblicitari anni Ottanta, canzoni melense, e più in generale qualsiasi tipo di residuo mainstream del passato. Anche in questo caso l’elemento che ha reso tutto questo possibile è stata l’ironia.
Con ironia si intende – e qui cito dal Sabatini-Coletti – “Un atteggiamento di bonaria irrisione, di distacco dalle cose.” Afferma una cosa per dire il contrario, mette in ridicolo, confondendo i piani di lettura. Si tratta però di una categoria specifica, confinata nella sua componente linguistica. Cosa succede se l’ironia diviene un approccio universale, una lente attraverso cui leggere ogni cosa, funzione primaria del nostro modo di vedere il mondo? Diventa post-ironia, un’ironia di secondo grado, un distacco da tutto che si tramuta, paradossalmente, nell’amore narcisistico per il cinismo con cui leggiamo ogni fenomeno culturale.
Già nel 1990 David Foster Wallace, nel saggio E unibus pluram, ammoniva sui rischi dell’ironia: “Chiunque abbia l’eretica sfacciataggine di chiedere a un ironista che cosa sostiene veramente finisce per sembrare una persona isterica o pedante. E in questo sta l’oppressione dell’ironia istituzionalizzata, di una rivolta troppo riuscita; la capacità di interdire la domanda senza occuparsi del suo oggetto, nel momento in cui viene esercitata, non è altro che dittatura.” Se non prendiamo nulla sul serio, finiremo per credere che niente è degno di essere preso in questo modo, e dunque non crederemo mai in nient’altro al di fuori della nostra autoreferenzialità. Su Twitter le notizie sono cannibalizzate per battute asettiche che generano più retweet del contenuto originale; su Instagram rimbalziamo fra stock di foto tutte uguali; la home di Facebook esplode di meme sempre più elaborati e di discussioni che si perdono in un florilegio di commenti dagli infiniti livelli di ironia. E ancora, cascate di sad e wow reaction per dileggiare, cuori stampati sul commento di questo o quel compare, inside jokes per stabilire chi è dentro e chi è fuori da una determinata cerchia. Siamo indirizzati dagli algoritmi dei social a guardare solo la nostra nicchia, e a rafforzare le nostre convinzioni in discussioni egoriferite con persone che la pensano come noi. La filter bubble è l’orticello da cui non vogliamo uscire, perché il sarcasmo condiviso ci rende la complessità del mondo tollerabile.
Non serve più la sospensione del giudizio come nelle poche ore delle serate trash, né tantomeno l’evocazione della nostalgia della sottocultura vaporwave. Quando un fenomeno diventa assoluto si perdono i presupposti di esistenza per quegli elementi che lo hanno anticipato. Adesso c’è un nuovo genere musicale, che ha assunto la portata di una vera e propria estetica – così come aveva fatto il punk – che racchiude in sé tutta la grammatica del nostro essere post-ironici. E qui ritorno, ovviamente, alla musica trap. Se prima ridevamo di qualcosa di strano, con giusta e sana ironia, adesso che abbiamo sposato l’ironia come fondamento del mondo, e perso qualsiasi punto di riferimento, finiamo col prendere sul serio fenomeni da baraccone solo perché ci fanno ridere, e dalla risata passiamo al dispensare patenti di genialità per la trovata del momento, finiamo per amare ciò che un tempo avremmo considerato per meno di un secondo. Basta guardare quanto spazio è stato dato a Bello Gu quando ha intonato un coro abbastanza risibile sugli immigrati. La sua trovata è stata la moda di pochi giorni, il tentativo di buttare in nonsense un tema di cronaca – come ha fatto mille altre volte – eppure è finito nei maggiori talk politici a rapporto con Alessandra Mussolini o Michele Santoro.
La trap è il genere postmoderno per eccellenza, si ibrida facilmente e si apre a mille sfaccettature: dall’emo-trap alla variante noise. La permeabilità è un suo punto di forza, ma corrisponde anche a una debolezza: l’essere adattabile a qualsiasi contesto, anche quello più lontano dalla sfera di appartenenza, e dunque travisabile. È logico che sia diventato il genere di elezione del nuovo mainstream, perché ha melodie orecchiabili, strutture semplici, testi che esaltano in maniera acritica i dogmi del consumismo. I trapper sono le nostre nuove rockstar, ma se un tempo la trasgressione era appannaggio di chi voleva liberarsi di una morale dominante perbenista, oggi che il trasgressivismo è solo un’appendice dei comportamenti della classe media, finisce per diventare l’apologia dell’ordine esistente. Se i trapper sono i nuovi idoli, rivestiti dalle case di moda per pubblicizzare una nuova idea di lifestyle, cosa c’è di più cool, per un giovane, di coprirsi di vestiti firmati?
Ne Il rap spiegato ai bianchi, David Foster Wallace mette in luce come uno degli elementi più interessanti del rap sia il denudare le dinamiche del capitale. L’accumulo di denaro, l’ambizione alla bella vita, il sesso come merce e l’ostentazione sono elementi centrali di questo genere fin dalla sua nascita. La denuncia implicita nella musica rap sta nel suggerire: il sistema ci ha educato a questo, ci ha inculcato desideri del genere, non possiamo essere nient’altro. Nel rap non c’è mai stato filtro, nessuna morale perbenista che mistificasse l’individualismo e il materialismo sfrenato, ed è ciò che attira o scandalizza l’ascoltatore, la sensazione perturbante di ritrovarsi nella propria parte più cruda e di riconoscere i desideri che ci animano. Ma cosa succede quando una sottocultura diventa globale, quando un genere viene travisato fino a trasformarsi nella replica di ciò che in origine denunciava?
Anche la moderna trap, filiazione del rap, al momento della sua nascita aveva una componente di denuncia implicita: era la musica degli spacciatori nelle trap house, le case dei sobborghi americani in cui si smercia la droga, raccontava una realtà forte con i toni crudi di chi la viveva tutti i giorni. Oggi la trap è musica globale, ai primi posti delle classifiche americane quanto europee. In Italia artisti come Sfera Ebbasta, Ghali, Dark Polo Gang o Capo Plaza fanno milioni di visualizzazioni e raggiungono facilmente il disco d’oro tramite streaming. La musica si è fatta più infantile, ammiccante, i testi si muovono fra il nonsense e la magnificazione del consumo. Di fondo c’è il sopracitato atteggiamento ironico, sia dalla parte dell’artista che da quella dell’ascoltatore.
L’ultima palese degenerazione della deriva post-ironica si incarna dunque in Young Signorino, nella sua musica, nelle sue interviste senza senso in cui sragiona per strappare un LOL, nelle sue stories altrettanto surreali. Young Signorino è la parodia di una parodia: se già i trapper si comportano da pagliacci o istrioni per creare fermento nel contesto mediatico, Signorino raddoppia questa dinamica, aggiunge l’ennesimo livello di meta-ronia, fino a perdersi nei labirinti dell’autoreferenzialità. Potremmo leggerla come un’operazione concettuale, ma la sensazione è che l’obiettivo di Young Signorino sia strapparci l’ennesima stanca risata, seppellirci sotto wow reaction e commenti che trasformano la boutade in genialità. E l’ascoltatore nutrito a forza di like e di risatine, confuso da un panorama in cui tutto ha troppi livelli di lettura, mentre cerca di raccapezzarsi fra i layer e i messaggi contraddittori, non può che adottare il solito distacco, registrare l’ennesimo prodotto di un’industria culturale che si riproduce per inerzia.
Nell’arte non è sbagliato che un prodotto confonda le acque, anzi è auspicabile. Ma in un contesto dominato dalla componente post-ironica che ci fa ridere di tutto e allo stesso tempo prendere in considerazione ogni amenità, spendiamo un sacco di tempo a chiederci cosa abbia valore artistico e cosa no, e alla fine risolviamo con un’alzata di spalle, perché in fondo nulla è importante. Young Signorino, o chi per lui, rappresenta la new sensation, l’argomento faceto da dibattere nella bolla dei social, non rimane che accodarsi alle reazioni, guardare voyeuristicamente il prossimo video, annoiarsi di fronte a uno schermo e nascondersi dietro un ghigno di cinismo.