GLOW è la serie libera e inclusiva di cui abbiamo bisogno. Ma è stata cancellata. - THE VISION

Ci sono delle realtà in cui noi donne ci sentiamo bene, a nostro agio. Sono poche. Sono ambienti protetti, rari soprattutto nell’intrattenimento. Spesso sono realtà di sole donne. GLOW è una di queste. La serie, uscita su Netflix tra il 2017 e il 2019 (e cancellata senza portare a termine la quarta stagione nell’ottobre del 2020 a causa della pandemia), pur essendo un’opera di finzione si ispira all’omonimo programma televisivo andato in onda negli Stati Uniti tra il 1986 e il 1990, Gorgeous Ladies of Wrestling. Tredici donne che non hanno più niente da perdere mettono in piedi un programma inedito di wrestling femminile, insieme a un regista cinico, misogino e con una lunga serie di dipendenze e a un produttore ingenuo, privilegiato e appassionato.

L’estetica anni Ottanta accoglie a pieno titolo l’inclusività, non come istanza programmatica e retorica da pubblicità progresso, ma in tutta la sua potenza, una sorta di divaricatore psichico. Fin dal primo episodio si crea infatti un contrasto attraente tra la durezza del mondo raccontato e il tumulto di lacca, glitter, scarpette da ginnastica e body sgambati che le protagoniste esibiscono in faccia allo sguardo maschile, ma senza curarsene. Uno dei temi più forti portati da GLOW è proprio la percezione della propria immagine come strumento di affermazione nel mondo e al tempo stesso forma di identificazione, guscio, maschera, corazza – a seconda dei personaggi – su cui si va a inserire la riflessione sugli stereotipi razziali e di genere. La cosa bella di GLOW è che alle sue protagoniste non frega proprio nulla di ciò che gli uomini si aspettano da loro. Questo anche perché sono delle freaks a cui la società ha sputato così tante volte in faccia che ormai non hanno niente da perdere, e finalmente hanno quella singola occasione che aspettavano per dimostrare il loro valore.

Le tredici guerriere, la maggior parte delle quali attrici improvvisate, si vedono infatti costrette ad aderire e a impersonare un personaggio stereotipato, che ridicolizza in maniera oscena il loro stesso ruolo sociale. Eppure, questa violenza data in pasto agli spettatori per animarli fa sì che si crei un forte gioco di contrasti in grado di far emergere tutta l’assurdità, l’ingiustizia e la brutale semplificazione degli stessi. L’idea degli stereotipi nasce proprio da Ruth (Alison Brie), che inizia a interpretare una russa spietata, Zoya la Destroya, che vuole distruggere il sogno americano. A quel punto Sam Sylvia, il regista interpretato da un Marc Maron in grande spolvero, coglie la palla al balzo per superare l’empasse narrativa in cui era caduto volendo dare alla storia un’impronta fantascientifica macchinosa e complessa. Appaiono così l’afro-americana obesa che sfrutta il sistema assistenziale (Welfare Queen), la terrorista islamica che in realtà è di origini indiane (Beirut), la peruviana desessualizzata grande come una montagna (Machu Picchu), l’inglese intelligente ma comunque sexy (Britannica), l’esile cinese con la “r” moscia (Fortune Cookie) e infine l’americana, la diva, l’eroina e madre che lotta per la libertà (Liberty Bell).

Le guerriere sfruttano questi cliché a loro vantaggio, per lavorare, ma ogni volta che entrano nel personaggio molte di loro soffrono e si sentono umiliate, proprio perché sanno che gli Stati Uniti le giudicano allo stesso modo anche nella vita reale e hanno sperimentato sulla loro pelle che cosa vuol dire subire il peso della generalizzazione, immancabilmente fuori fuoco. Ma dato che il cinema, così come il teatro, non è una democrazia, le attrici sono costrette a ubbidire alle scelte della regia e della produzione, anche perché hanno firmato un contratto imbarazzante sotto il ricatto del prendere o lasciare, imperativo che per tutto l’arco narrativo le incatena, facendo diventare ogni loro scelta questione di sopravvivenza, e alimentando inevitabilmente il conflitto interno ed esterno ai personaggi. Se allora per alcune di loro la performance diventa una sofferenza morale, un motivo di vergogna, per altre si fa vera e propria catarsi dallo stereotipo stesso, un carnevale, e paradossalmente permette loro di impadronirsi e di affrancarsi dai pregiudizi con cui le osserva l’America.

Alla luce di tutto ciò, se siete donne, i primi episodi, ma non solo – nonostante l’ironia e il sarcasmo, e in generale il glitter che non abbandona mai la serie – vi arriveranno come una mazzata, e so di diverse spettatrici che non sono riuscite a superarli. Io stessa, dopo averli visti, andavo a dormire devastata. Anche se il mondo rappresentato è quello degli anni Ottanta, è impossibile non identificarsi nell’esperienza di queste donne che appare in tutta la sua brutale attualità. Eppure il giorno dopo ne volevo ancora, volevo andare avanti, dovevo sapere cosa sarebbe successo a Ruth, che all’inizio fa da “cavallo di Troia” per accompagnarci nel mondo di GLOW e farci conoscere le altre protagoniste.

Ruth è una sfigata, perché non si vuole adeguare al mondo che la circonda nonostante la sua apparente normalità, si piange addosso perché non riesce mai a ottenere ciò che vuole, è probabilmente la più privilegiata di tutti, eppure è un’incompresa e il mondo la prende a calci, finché Sam – che alla fin fine è uguale a lei – non le dice in veste di antagonista e di mentore allo stesso tempo di provare a fottersene del mondo, perché è qualcosa che dà molto potere. Le donne di GLOW infatti raramente se ne fottono, perché spesso semplicemente non possono. Basti pensare a Debbie (Liberty Bell nonché Betty Gilpin), la ex migliore amica di Ruth, che ha lasciato la carriera per soddisfare il desiderio del marito di avere un figlio e darsi un ruolo riconosciuto, più rassicurante seppur massacrante, nel quale riesce a entrare sul ring ma non nella vita.

Ne Il viaggio dell’Eroe, il famoso manuale di sceneggiatura, Christopher Vogler insegna che il protagonista deve avere una ferita, e più grossa sarà questa ferita più tensione narrativa si genererà. Per diventare eroi bisogna essere dei perdenti, dei reietti che accettano di sanarsi per cambiare. E la cosa bella di GLOW è che ogni personaggio che entra nella storia viene trattato in questo modo, come un protagonista; a tutte, e tutti, viene concessa una crescita, e in alcuni casi anche un’apparente regressione – a riprova del fatto che, a volte, anche se tutto intorno a loro li spinge a cambiare restano se stessi, non vogliono rinunciare a un carattere identitario. Può essere una scelta stupida o coraggiosa, sicuramente è tragica.

Ruth è uno di questi personaggi, ed è letteralmente un punching ball. Vederla mentre prende e si tira botte nei denti, metaforiche e non, ci fa soffrire, perché se sei una donna è impossibile non immedesimarsi in lei e poi in tutte le altre, anche se all’inizio ci viene venduta come una saccente, presuntuosa, lacrimevole egoista. Eppure quando ha l’occasione di mettersi in gioco e di sporcarsi le mani facendo ciò in cui crede e che ama, Ruth diventa, o dimostra di essere, qualcosa di ben diverso da quello che poteva apparire. E al tempo stesso proprio per non rinunciare alla sua passione continua a soffrire. A seguire tutte le altre.

GLOW infatti è una delle storie corali più riuscite di sempre. Ogni personaggio ha uno spazio e un arco narrativo, che per di più si sviluppa in episodi di mezz’ora, cosa che appare come una prova di scrittura non da poco (altre serie simili, Mad Men o Breaking Bad, erano infatti composte da episodi del doppio della durata). La cosa bella è che il diverso in GLOW è freak, non assume le tinte edulcorate del Meraviglioso mondo di Amélie, viene escluso, umiliato, deriso, punito in tutti i modi finché non appare tutto l’eroismo e l’umanità che si nasconde dietro il cerone. GLOW mette in scena dinamiche che la società ha normalizzato, insegnandoci ad accettare e subire, minimizzandole, quando minime non sono affatto. Da ogni scena emergono gli ostacoli gratuiti e spesso immotivati, la fatica che le donne sono quotidianamente costrette a sopportare nel corso della loro esistenza e quanta tenacia, impegno, forza, generosità e amore siano necessari per non farsi annichilire dal mondo. E queste caratteristiche non le hanno solo alcune donne speciali, ma tutte, per forza di cose, per poter sopravvivere.

Una delle cose che mi hanno affascinata di più di questa serie è il superamento della vanità e della competizione innescate dallo sguardo maschile, che indebolisce le donne, spingendole ad aderire a canoni in cui non è detto si riconoscano, e le mette le une contro le altre per emergere. In GLOW lo sguardo maschile, che dovrebbe essere incarnato proprio dal regista, non esiste, perché Sam Sylvia, cinico (almeno all’apparenza), depresso, misogino e insoddisfatto è a sua volta troppo ferito per mantenerlo, e in poco tempo appare chiaro come le donne che maltratta, le sue attrici, ormai sono molto più creative di lui, che da artista anti-convenzionale, invecchiando, ha finito per uniformarsi al mondo che odiava. Sam lo si ama da subito, perché fin dalla sua prima comparsa in scena vediamo che nonostante l’armatura di merda che si è costruito addosso è un buono, è un vinto ed è per questo che ci incazziamo quando sbaglia, quando cede al mondo, facendone le veci contro le donne che amiamo.

Tutti i personaggi della produzione hanno una vera e propria catarsi spirituale, si accettano e nell’accettarsi imparano ad accettare gli altri. E se all’inizio tutto appare doloroso e complicato, più si va avanti e più le protagoniste acquistano sicurezza in loro stesse, con la capacità di prendersi in giro e di guardare al mondo con sana ironia. Anche nei momenti più drammatici non c’è mai “vittimismo”, proprio perché è evidente come tutte le donne della serie siano realmente e a tutti gli effetti delle vittime – ma di più, non solo le donne, tutti appaiono come vittime di un sistema di valori escludente, basato sul patriarcato, il perbenismo e il capitale. Le esiliate protagoniste di GLOW allora costruiscono un mondo tutto loro in cui vorremmo entrare anche noi, un’oasi di possibilità alla periferia di un mondo duro, che nella migliore delle ipotesi le vuole solo sfruttare come oggetti, in cui alla fine riescono a farsi vedere, ogni sera, al centro del ring, sotto i riflettori. Come dice Welfare Queen: ho aspettato così tanto, che ora non voglio più rinunciarci, costi quel che costi.

GLOW è in grado di sostenere l’inclusività, di esplorare il rapporto tra donne – la competizione e l’aggressività, la maternità e l’aborto, l’omosessualità, l’odio per il diverso, le relazioni di potere, l’indipendenza femminile, le dipendenze e la salute, la bisessualità e il non-binarismo (narrazioni ancora poco affrontate), il piacere, le tematiche di genere e il modo in cui riverberano nell’intimo e nel sociale, scardina i luoghi comuni sull’amore romantico e tossico, e combatte gli stereotipi etnici. La terza stagione di GLOW è stata rilasciata l’anno scorso, eppure, per quanto il panorama della serialità sia sempre più plurale, un altro prodotto come questo non si è ancora visto, anche se lo vorremmo. Perché mentre si guarda GLOW ci si sente bene, e quando ci si sente bene ci si sente anche belle, ovvero a posto così, perfette come si è, libere.

Segui Lucia su The Vision | Facebook