Fleabag nasce come l’adattamento televisivo di un monologo teatrale di Phoebe Waller-Bridge e attraverso una protagonista piena di contraddizioni, dai modi assertivi ma anche profondamente insicura, parla di desiderio sessuale, di relazioni sentimentali e di femminismo. La prima stagione, uscita nel 2016, ha rivelato il talento dell’autrice e si è concentrata prevalentemente sull’elaborazione del lutto per la morte della migliore amica della protagonista, interpretata dalla stessa Waller-Bridge. La graduale emersione di questo trauma è servita alla serie per ispezionare la complessa personalità del personaggio principale, di cui ci viene detto sempre solo il soprannome che dà il titolo allo show (“fleabag” significa “sacco di pulci”), che allude, tra l’altro, alla sua profonda, per quanto spesso mascherata, tendenza all’autocommiserazione e all’autodistruzione. La seconda stagione è disponibile su Amazon Prime dal 17 maggio.
Non rivelare mai il nome della protagonista è un escamotage che funziona anche per rendere il personaggio un vero e proprio simbolo generazionale. Come ha dichiarato l’autrice a Vanity Fair, l’anonimato di Fleabag costituisce il tentativo di renderla universale, rappresentando così un tipo in cui tutte le donne possano ritrovarsi e sentirsi capite, soprattutto se coetanee dell’autrice. Per catturare l’attenzione degli spettatori, Waller-Bridge adotta una focalizzazione interna che influenza profondamente lo stile della narrazione, raccontando il mondo attraverso una prospettiva personale e originale, fatta di ritmi serrati e punch line a ripetizione. Lo sguardo dell’autrice è costantemente provocatorio e impegnato a sovvertire in modo irriverente e a volte arrogante un cliché dopo l’altro, soprattutto quelli che riguardano il ruolo delle donne nelle relazioni di coppia e all’interno della famiglia. Si tratta di un approccio privo di inibizioni e profondamente autentico perché non ha paura di risultare sgradevole agli occhi degli altri.
Grazie a una struttura agile, e decisamente innovativa, che poi si è rivelata molto influente in altre serie, la prima stagione di Fleabag è stata elogiata dalla critica televisiva. Anche per questo sarebbe potuta tranquillamente rimanere un prodotto autoconclusivo, non correndo così il rischio di diventare uno dei tanti show che faticano a trovare un finale degno delle aspettative. Inoltre, in un’industria come quella televisiva perennemente alla ricerca di novità, è sempre più difficile ripetere il successo della stagione d’esordio, come dimostrano i fallimenti delle sophomore season di tanti show, tra cui The Handmaid’s Tale, Legion e Westworld. Inoltre, la seconda stagione di Fleabag arriva dopo tre anni in cui Phoebe Waller-Bridge ha ricevuto apprezzamenti unanimi per il lavoro fatto come showrunner della prima stagione di Killing Eve ed è stata ingaggiata come sceneggiatrice dell’atteso Bond 25, in un clima quindi carico di aspettative che costituisce un’arma a doppio taglio. A partire dall’episodio d’apertura però, la seconda stagione di Fleabag manifesta la volontà di non fare esclusivamente affidamento sul credito conquistato dall’autrice in questi anni, sviluppando ulteriormente l’analisi dell’identità della protagonista tramite una sceneggiatura di elevata qualità sia per quanto riguarda l’intreccio che per quanto concerne la costruzione dei dialoghi.
La serie approfondisce la riflessione a cui aveva dato vita nella prima stagione, mostrando con precisione le ragioni del dolore e della solitudine di Fleabag: l’assenza della migliore amica, ormai defunta, è ancora pesante; il confronto con la sorella Claire la fa spesso sentire sbagliata; il padre non le dà l’amore di cui avrebbe bisogno (anche se non ha il coraggio di ammetterlo); la narcisista matrigna – interpretata in maniera brillante da Olivia Colman – non perde occasione per provocarla e umiliarla. In questo contesto l’autrice porta avanti l’analisi delle contraddizioni insite nella famiglia, puntando il dito in maniera equilibrata sia sulle mancanze della protagonista sia sull’incapacità degli altri personaggi di ascoltarla senza pregiudizi.
È all’interno di questo contesto che si inserisce la principale novità della seconda stagione, ovvero la relazione tra Fleabag e il prete, anche lui un personaggio senza nome interpretato da Andrew Scott, attore britannico noto soprattutto per il ruolo di Moriarty in Sherlock. L’improvviso desiderio della protagonista di andare a letto con un prete costituisce, infatti, l’innesco principale della stagione, che in poco tempo si tramuta in un vero e proprio processo di seduzione reciproca che fa da architrave narrativo alla stagione.
La relazione tra i due è complessa ma caratterizzata da una grande alchimia, è l’incontro tra due solitudini molto differenti, due persone che si specchiano l’una nell’altra e che così facendo abbassano progressivamente le rispettive difese. Un rapporto che l’autrice riesce ad analizzare senza trascurare le sfumature di entrambi i punti di vista, mettendo in luce sia il conflitto interiore vissuto dal prete che sente crescere il proprio desiderio peccaminoso, sia la crescente consapevolezza della donna che, incontro dopo incontro, si sente sempre più capita e di conseguenza meno sola.
Dal punto di vista narrativo, Fleabag segue la protagonista dappertutto, adottando uno storytelling profondamente orientato al personaggio e libero da esigenze drammaturgiche rigide, che obbligherebbero il racconto – limitandolo – a seguire passaggi prestabiliti. Questo incedere narrativo permette all’autrice di mettere in scena situazioni inaspettate come quella in cui Fleabag incontra per caso una donna ricca e più grande di lei con cui sviluppa immediatamente una forte tensione erotica, oltre che un’immediata sorellanza. Il personaggio è interpretato da Kristin Scott Thomas ed è responsabile di un monologo spiccatamente politico, in cui si affronta il tema del dolore femminile, uno dei picchi della stagione: “Le donne sono fatte per soffrire. È il nostro destino fisico. I dolori mestruali, il seno che fa male, il parto. Capisci? Lo portiamo tutto sulle nostre spalle nell’arco della nostra intera esistenza. Per gli uomini non è così. Loro devono cercarlo all’esterno.”
La rottura della quarta parete da parte della protagonista, oltre a essere un elemento distintivo dello show, è anche quello che ha subito la maggiore trasformazione dalla prima alla seconda stagione. Se all’inizio era un espediente pensato soprattutto per creare complicità tra la protagonista e il pubblico, muovendosi frequentemente al di qua e al di là della diegesi narrativa e invitando lo spettatore a essere partecipe sia degli eventi che degli stati d’animo della protagonista, ora questa soluzione viene arricchita di ulteriore complessità.
I personaggi della serie, infatti, iniziano ad accorgersi della tendenza della donna a “uscire dalla realtà”, a spostare la concentrazione su qualcosa di apparentemente inesistente, immaginario, mettendo così al centro della narrazione un elemento che sembrava non farne parte. In questo modo la serie evidenzia la solitudine del suo personaggio principale e la sua costante ricerca di un punto d’ascolto esterno in mancanza di altri interni. A questo proposito è interessante notare che non si tratta dell’unico show che utilizza in questo modo lo sguardo in macchina, perché la stessa cosa quest’anno accade con la protagonista di Crazy Ex-Girlfriend, sottolineando così una continuità sia tematica che stilistica trasversale e particolarmente originale. Entrambe le serie sono infatti interpretate dalle rispettive autrici e mirano a mettere in scena un punto di vista, quello femminile, mai sufficientemente ascoltato e l’utilizzo di questo artificio si presta perfettamente al raggiungimento di quest’obiettivo.
Al centro della seconda stagione di Fleabag c’è quindi l’interiorità della protagonista, che viene raccontata con dolorosa autenticità e anticipata tra l’altro in maniera spiazzante da quel “This is a love story” che apre la stagione e che offre sia un importante indizio agli spettatori sia un clamoroso depistaggio. In sei episodi, questa seconda annata riesce a parlare d’amore e vulnerabilità in maniera acuta e brillante, utilizzando l’ironia tagliente e sovversiva dell’autrice per analizzare la complessa dialettica tra il bisogno delle donne di essere ascoltate e il terrore di essere giudicate.