Non sono così audace da spingermi in un’analisi profonda delle dinamiche interne alla gestione degli artisti in gara a Sanremo, ma da spettatrice incallita e attenta del festival non posso che notare un certo miglioramento dell’offerta sul palco. Da quando Claudio Baglioni è entrato a gamba tesa nella storia del festival con le edizioni del 2018 e del 2019, portando un clima a tratti persino surreale per la sua conduzione insolita ma efficace, ho avvertito un incremento del livello non solo nelle canzoni ma anche di una certa apertura mentale verso la selezione di cantanti appartenenti a nicchie un po’ meno dozzinali rispetto allo standard degli anni Duemila. Si parla pur sempre di Sanremo, certo, il programma che vede nel suo spirito guida, Pippo Baudo, quintessenza del nazionalpopolare – su cui lui stesso ironizzava con la sua provocazione “Farò programmi regionali e impopolari” – la manifestazione concreta di un certo tipo di italianità condivisa, buontempona e, per molti aspetti, confortevole nella sua banale semplicità, e la settantunesima edizione, come sempre, arriva circondata dalle classiche e imprescindibili polemiche, anche se quest’anno assumono toni senza precedenti. Dal pubblico assente alle diatribe tra Amadeus e Franceschini sulla natura ontologicamente teatrale del palco dell’Ariston – che però è una trasmissione televisiva, e proprio lunedì sera si consumavano abbracci e baci tra pubblico e concorrenti per la finale dell’infinito Grande Fratello Vip 5 – Sanremo 2021 è un’edizione già anomala.
A rendere tutto ancora più bizzarro agli occhi di chi magari lo ha sempre visto con quel filtro di ironia si è aggiunta la sorprendente lista dei big in gara: sembra come se i nostri genitori e zii si trovassero a una serata di qualche circolo Arci nei quali non ci saremmo mai aspettati di vederli, né tanto meno di invitarli. Nelle ultime edizioni, il salto quantico dai Sanremo con vincitori come Joe Di Tonno e Lola Ponce, Il Volo o Povia è palpabile. Già le ultime due le hanno vinte due artisti alfieri di un pop italiano più che dignitoso, tanto da farmi avvertire anche una velata sindrome dell’impostore nel constatare che una volta tanto era qualcuno che mi piaceva a vincere qualcosa. E anche quest’anno, per la gioia di chi spera in qualcosa di più di Emanuele Filiberto che canta con Pupo e un tenore, c’è una scelta musicale che pesca anche in generi e stili meno tradizionalisti: Colapesce e Di Martino, Fulminacci, La Rappresentante di Lista, Madame, Ghemon, Extraliscio feat. Davide Toffolo, Willie Peyote e, last but not least, i Coma_Cose, duo che incarna alla perfezione questa idea di musica leggera fruibile ma non dozzinale. Più che parte della lista dei big in gara, quest’anno sembra infatti una line-up del MI AMI Festival: cosa insolita per Sanremo, c’è più hype per la musica in gara che per lo show televisivo.
Ricordo molto bene la prima volta che ho ascoltato il singolo con cui i Coma_Cose sono esplosi nel 2018: mi trovavo a Milano, luogo in cui vivevo da poco e in cui sentivo un senso di disorientamento dettato anche dalla mancanza di una descrizione simbolica della città al di là delle sue narrazioni consolidate, tra biscioni e manager in giacca e cravatta. Le canzoni di Fausto “Lama” Zanardelli e Francesca “California” Mesiano, che da poco esordivano con il loro EP Inverno Ticinese, cadevano a fagiolo, la colonna sonora leggera e semplice di una metropoli che si articola nella sua diversità di offerta e nella sua iperattività. La cosa più immediata che si nota ascoltando un loro singolo, infatti, è la sintesi descrittiva, quasi impressionista direi, che il duo riesce a condensare in pochi minuti; una caratteristica che inizialmente era molto legata alla narrazione di Milano – “Bruciamo i reggiseni e le gonne, organizziamo un rave alle Colonne” oppure “La luna si riflette nel naviglio Gange” – e della sua sottocultura e che negli anni si è ampliata in una poetica più vasta, proprio come succede nella loro canzone in gara a Sanremo, “Fiamme negli occhi”, che sembra quasi un dialogo sentimentale tra i due innamorati che si guardano appunto negli occhi per tutta l’esibizione, accompagnati da un arrangiamento che ricorda suoni alla Velvet Underground e Nico mescolati a un sound anni Novanta in stile “You’re gorgeous” dei Babybird e un tocco di Pixies, ma anche cose più contemporanee come Phoebe Bridges. In una fase storica per la musica commerciale occidentale in cui il rap, la trap e qualsiasi altra derivazione dall’hip hop dominano gran parte della classifica nazionale, i Coma_Cose si inseriscono in un segmento interessante: mentre la parola perde senso tra le non-rime della trap, l’arrangiamento si incupisce per mano di molti producer e perde contatto con la parte strumentale e melodiosa, Lama e California – con il supporto centrale dei Mamakass – trovano una via di mezzo tra gli stilemi del genere dominante e la capacità di articolarlo attraverso un uso brillante delle parole e della base musicale, cosa affatto scontata nel mainstream odierno.
I due ex-commessi, milanesi d’adozione – lei di Pordenone, lui della provincia di Brescia – dotati di grande attenzione anche per quanto riguarda il lato estetico del loro progetto, un tassello che oggi non è un semplice vezzo artistico ma un modo di concepire la musica anche come esperienza visiva, soprattutto grazie ai social e ai video, sono ciò che potremmo definire esponenti di un nuovo pop italiano. La storia della coppia, nella vita come sul palco, è parte sia dell’immagine che della musica dei Coma_Cose: una sorta di Albano e Romina del Ventunesimo secolo ma in versione più divertente e scanzonata, Lama e California trasmettono tutta la tenerezza del loro legame sentimentale con un gioco di sguardi e di voci alternate, elementi che sul palco dell’Ariston sono entrati in risalto ancora di più grazie alla vastità di un palco enorme e di una sala vuota e la loro posizione frontale, uno davanti all’altra. Il fatto di essere uniti anche al di là del progetto è una prova concreta del principio aristotelico per cui la somma delle cose è maggiore delle sue singole parti, non solo per la storia del loro percorso che, se non si fosse trovata in questo punto di congiunzione nella musica non avrebbe garantito lo stesso risultato artistico, ma anche da un punto di vista dell’immagine completa e complice che i due trasmettono quando cantano insieme. Si intravede nei loro gesti la timidezza delicata di Francesca, tirata fuori con garbo da Fausto, come se con le loro canzoni ci invitassero nell’intimità del loro rapporto, facendoci fare un giro tra le stanze di casa.
Con la loro passione per cantautori come Lucio Battisti poi, che non manca nei riferimenti testuali dei loro pezzi sotto forma di tributo come in “Anima Lattina” e nelle rivisitazioni dei suoi brani – a Sanremo portano appunto una cover de “Il mio canto libero” – e la tendenza a utilizzare la lingua come strumento di composizione, oltre che di racconto, i Coma_Cose elaborano in un modo innovativo e piacevole la forma della canzone tradizionale. Ad affiancarli in questo percorso dalla nicchia al mainstream, c’è una chiara intenzione di non “dimenticarsi” da dove sono venuti, dal momento che emerge nella loro musica tutto il contesto urbano e creativo in cui si sono formati e la coesione come coppia di cui si fanno forza, anche durante le esibizioni: nati quasi per caso, visto che il progetto precedente di Lama, Edipo, non aveva dato i risultati sperati e California non aveva intenzione di diventare la voce del duo, i Coma_Cose sembrano due persone che ti aspetteresti di incontrare da qualche parte a Milano sud, a un aperitivo sui Navigli, a una mostra in via Tortona magari o a un concerto alla Santeria. I giochi di parole – il nuovo album si chiama Nostralgia, in linea con l’usanza consolidata del wordplay –, il citazionismo spinto, il sound che definirei quasi “colorato”, per fare una sinestesia, sono una traduzione immediata e suggestiva dello spirito del tempo digitale, fatto contemporaneamente di immagini, di testo e di suoni, un po’ come un post su Instagram che diventa canzone – “Garibaldi aveva solo mille follower” è uno dei loro giochi di parole più azzeccati, non a caso.
Sanremo 2019 lo ha vinto Mahmood, con buona pace del cantante del popolo Ultimo che per quella seconda posizione ha dato una prova concreta di cosa significhi “rosicare”, tanto vivida da poterla usare come esempio per i dizionari; Sanremo 2020, invece, un’edizione che molti di noi ricorderanno non solo per essere stato quasi l’ultimo momento di spensieratezza prima della catastrofe che ci ha investiti, ma anche come un’edizione piena di momenti iconici – il caso Bugo-Morgan su tutti –, è il Sanremo di Diodato e della sua Fai rumore. Due vincitori con stili e percorsi personali non così affini alla tradizione sanremese recente, ma entrambi capaci di creare una canzone pop, ascoltabile da chiunque, passabile su qualsiasi radio, che fosse però lontana dalle tinte pacchiane e ordinarie di molti brani in linea con le edizioni precedenti; insomma, una piccola rivincita del buon gusto che non rinuncia alla vena nazionalpopolare, un compromesso che può darci un segnale anche per altri ambiti della cultura mainstream.
Non so dire se è Sanremo che ha intercettato un filone più giovanile e meno generalista o se è la musica leggera italiana che si è spinta verso una divisione meno netta tra cose “alternative” e cose mainstream, sicuramente sarà un misto di entrambi i fenomeni. Ma se band come i Coma_Cose, forieri di un’idea di pop trasversale e meno banale della classica canzonetta sanremese, arrivano sul palco dell’Ariston, io credo che sia un buon segnale; anche solo per vedere un po’ l’effetto che fa. Poi, come sempre, non sarà la competizione né il premio finale a decretare l’andamento del mercato musicale italiano, e anche se nessuno dei nomi più indie dovesse arrivare a una posizione alta, sarà comunque piacevole godere della loro presenza – anche solo per un fattore anagrafico, visto che sono tutti molto giovani – in un ambiente così codificato e ordinario come Sanremo. I Coma_Cose avranno comunque portato un pezzo di una realtà meno scontata del solito a un pubblico che magari non avrebbe mai avuto occasione di ritrovarsi a uno dei loro “Post concerto”.