Tra i primi ricordi che ho dell’avvento di Internet nella mia vita quotidiana, di certo c’è la fase in cui, tra il 2006 e il 2007, su YouTube si potevano riguardare i fantastici trailer di Maccio Capatonda, caposaldo della comicità per i millennial italiani. Andavano in onda di norma su Italia Uno, durante Mai dire…, e il fatto di poterli recuperare per una sorta di binge watching ante litteram per me e i miei compagni di liceo era un vero e proprio prodigio della tecnologia. Li conoscevamo a memoria, si citavano in qualsiasi occasione e, anche a distanza di anni, con persone nate e cresciute in tutt’altre parti d’Italia, capita ancora di ritirare fuori qualche idiozia del repertorio, tipo “Mobbasta veramente però”.
Tra tutti i finti trailer ideati dal comico abruzzese ce n’era uno che svettava nella mia classifica personale: Natale al cesso. Ancora oggi, dopo quasi quindici anni, quella parodia rimane probabilmente la più precisa e riuscita di tutta la saga, forse perché proprio allora il genere del cinepanettone ha toccato il suo vertice di popolarità e prestigio, con la separazione della coppia simbolo di questo fortunato filone cinematografico, Boldi e De Sica. Natale al cesso era un’operazione comica brillante perché puntava il dito su un fenomeno che aveva raggiunto il massimo della sua espansione, diventando talmente prevedibile da sembrare frutto di qualche generatore automatico.
Anche nel film di Boris – altro baluardo della comicità italiana degli ultimi anni – si parodizza il cinepanettone, prevedendo non una ma ben due versioni che poi sono state effettivamente realizzate: il cinepanettone sulla Casta e il cinepanettone sul viaggio interstellare. L’ultimo, in particolare, è uscito nella sua versione seria e non caricaturale proprio in questo strano Natale di lockdown e pandemia, riproponendo per l’ennesima volta in ormai quasi quarant’anni di carriera il duo De Sica-Boldi, stavolta alle prese con il suolo marziano e una trama che si avventura addirittura nel tema del viaggio nel tempo. Il 2020 in realtà è stato un anno molto fortunato per quanto riguarda la produzione di cinepanettoni o di film non strettamente legati al Natale ma riconducibili al genere perché coinvolgono volti e stilemi noti, visto che è stato anche l’anno della commedia Lockdown all’italiana.
La domanda che mi tormenta da anni è però sempre la stessa, sia quando da adolescente mi trovavo a ridere per una parodia di Maccio Capatonda, sia quando nell’anno del Coronavirus mi ritrovo a guardare Christian De Sica e Massimo Boldi ormai settantenni scherzare per promuovere il loro film da Mara Venier, utilizzando un repertorio di battute sempre uguale a se stesso. Assodato che il cinema popolare è un genere con la sua dignità e la sua ragione d’esistere, mi sono sempre chiesta, e immagino che come me in tanti lo abbiano fatto, come in Italia si sia passati dalla commedia all’italiana dei mattatori e dei registi come Monicelli e Scola a una sfilza infinita e ripetitiva di Natali vari trascorsi in giro per il mondo, da Cortina d’Ampezzo al Sud Africa. La risposta, ovviamente, non è unica e definitiva, ma esistono alcuni elementi centrali che aiutano a capire come mai il cinema per tutti, la commedia accessibile a qualsiasi fascia d’età e fruibile da qualsiasi tipo spettatore, sia inesorabilmente diventato sinonimo di una volgarità rivendicata, di trame elementari e prevedibili e di un orgoglioso cattivo gusto.
Seppur la forma contemporanea del genere sia chiaramente crepuscolare e decadente, negli anni è poi stato applicato un processo di rivalutazione ironica. Basti pensare che nel 2015, per esempio, grazie a Internet e all’uso dell’ironia come chiave interpretativa di qualsiasi cosa, persino di un’ipotetica candidatura in Parlamento di Giancarlo Magalli, giravano gag per ragazzi in cui Jerry Calà faceva da protagonista. Anche Tommaso Paradiso, cantore dell’itpop nostalgico e disimpegnato, ha sempre rivendicato la sua appartenenza all’era della libidine col fiocco, dei montoni e del pianobar in baita. Il passare del tempo incide sulla ricezione e sulla fruizione di molti prodotti, dalla moda al cibo fino ai personaggi di dubbio gusto, e le battute di De Sica vestito da antico romano che invita Iside a praticargli del sesso orale si prestano benissimo alle compilation di YouTube – e, in effetti, in alcuni casi fanno anche molto ridere. Dunque, da un lato il valore di queste opere viene influenzato dal classico lavoro di revival che agisce da ripulitore di coscienze e laissez faire anche per i peccati più inconfessabili; dall’altro, oltre al favore del pubblico, si nota la conferma di un merito ormai riconosciuto persino dalla critica, che un tempo invece stroncava senza pietà i lavori dei fratelli Vanzina.
Carlo ed Enrico Vanzina, campioni dell’instant movie e pionieri del cinepanettone, sono infatti due fratelli nati e cresciuti nell’ambiente cinematografico d’élite della commedia all’italiana, essendo figli dello sceneggiatore Steno, ex allievi del prestigioso liceo Chateaubriand, amici e frequentatori di altri figli d’arte come Marco e Claudio Risi – figli di Dino. Come per Christian De Sica, erede di Vittorio, viene da chiedersi perché artisti con una formazione e un contesto di crescita così stimolante e colto abbiano virato per un cinema fatto di nudità, battute al grado zero della comicità, canovacci ripetuti all’infinito su mariti fedifraghi, belle straniere, musica dance e tormentoni. Gli anni Ottanta, con la loro leggera superficialità ostentata, il disinteresse per l’impegno politico, la televisione commerciale da Drive In, l’esigenza di sentirsi fieri di essere mediocri e di stare bene così, senza nessun bisogno di migliorarsi, per certi versi anche la realizzazione dell’abbattimento delle figure paterne e autorevoli – come sostiene il filosofo Mario Perniola nel suo saggio Berlusconi o il ‘68 realizzato – sono alcuni dei punti fondamentali che hanno dato via a film com Sapore di mare, Vacanze di Natale e Yuppies. Dopo la pesantezza degli anni Settanta e del terrorismo, e con la decadenza di registi simbolici che ormai raccontavano la fine di un’era – basti pensare a La terrazza di Ettore Scola, del 1980, che parla proprio di questo; ma anche ad Amici miei di Mario Monicelli – il pubblico chiedeva leggerezza, e leggerezza fu.
Così, se nella commedia all’italiana la possibilità di arrivare a tutti, raccontando quei famosi “vizi e virtù degli italiani”, nascondeva sempre un retrogusto amaro, un tocco di cinismo critico che rendeva sia riconoscibili che deprecabili i suoi protagonisti – emblematico in questo senso I mostri, di Dino Risi – nella comicità del cinepanettone questo senso di dissonanza si perde. Ed è in qualche modo anche l’essenza del berlusconismo e del craxismo, questa autoassoluzione liberatoria, sfrenata, edonista in cui ogni personaggio, buono o cattivo, bello o brutto che sia, trova pace nella sua spietata strafottenza: siamo fatti così e non cambieremo, una satira di costume che non si spinge mai più in là di una rappresentazione compiaciuta. Non a caso si dice che il cinepanettone e tutte le sue varianti siano in qualche modo “lo specchio del Paese”, magari proprio di un Paese che a un certo punto della storia, illuso di avere già tutto il necessario, ha creduto che non ci fosse più nulla da fare per migliorarsi, e giù di grasse risate.
In un post recente, Christian De Sica ha condiviso il commento di un fan al film In vacanza su Marte in cui ringraziava i cinepanettoni perché sono il ritratto della spensieratezza, perché ci si è rotti le scatole di queste donne “con i capelli azzurri” che ci censurano, perché non si può più ridere di nulla, perché il politically correct ci ha rovinati, testualmente: “Vaffanculo ai vostri film di merda in bianco e nero impegnati di tizi russi a caso”. Ora, non so se questa sfilza di luoghi comuni sia opera di un utente reale, ma il senso di uno sfogo apologetico simile è lampante, dal momento che fa ancora leva – come negli anni Ottanta – sullo stesso senso di liberazione ignorante e stufa di contenuti complessi, come se nel frattempo non fosse cambiato nulla. Così è meglio avere due tette al Bagaglino che un intellettuale con la giacchetta di velluto a coste che ci istruisce su qualcosa, è la pancia del Paese a dirlo.
Carlo ed Enrico Vanzina, nella loro lunga carriera, hanno dato vita anche a film che hanno tutto il diritto di essere annoverati tra gli eredi di quella commedia all’italiana intelligente e satirica scritta da geni come Age e Scarpelli, basti pensare a film come Le finte bionde. Il fatto che abbiano saputo fare anche opere del genere, oltre ai classici cinepanettoni, è la prova che forse, nonostante la nostalgia, l’insofferenza per questi “registi russi” di fantozziana memoria e nonostante le compilation di battute di Christian De Sica siano molto divertenti, è possibile trovare un compromesso tra qualcosa di culturalmente complesso e un prodotto che possa intrattenere tutti. Sembra che negli anni Ottanta – fatta esclusione per nomi come Troisi, Verdone, Benigni e Moretti, ma qui si entra in un altro genere ancora – il cinema popolare abbia indugiato in una versione di sé fin troppo elementare, poi sfociata in una catena di film tutti identici a se stessi, con la familiarità dei volti stranoti e delle gag in loop servita su un piatto d’argento e la certezza di un incasso sicuro – e molto alto – da garantire ai produttori. La cosa più incredibile è che a fare questi film erano persone preparate, brillanti, che avevano tutti i mezzi per alzare il livello, invece di abbassarlo fino a farlo precipitare in un burrone di idiozia in nome del gusto nazionalpopolare. Il cinema popolare sarebbe un genere che ha pieno diritto di esistere, è stato relegato all’essere una caricatura noiosa e ripetitiva solo per battere cassa. Va bene raccontare vizi e virtù degli italiani, ma forse fermarsi solo ai primi – e farlo in quel modo – è riduttivo, oltre che umiliante per il pubblico.