Se fossimo in un episodio di Bojack io sarei un ippopotamo dalle fattezze quasi umane. Alcuni di voi sarebbero scimmie, cani, cavalli, balene mentre altri rimarrebbero uomini e donne. Se fossi il protagonista dell’episodio, si parlerebbe di una mia piccola avventura con la scusa di raccontare la grande disavventura che è la mia vita, che è poi la vita di tutti noi. Si partirebbe ridendo e si finirebbe piangendo. Si penserebbe che questa è una storia semplice quando, invece, avrebbe tanti livelli di lettura. Tre, per l’esattezza. Per capire la profondità di Bojack Horseman, bisogna arrendersi al fatto che il cartone per adulti di Netflix è un prodotto di difficile definizione, un prodotto a cui non basta una visione superficiale per essere apprezzato. Bojack parla del nostro essere umani e di quanto effimera e complicata sia la felicità. Tre livelli di lettura sono quelli che ho trovato io, ma sono sicuro che, ognuno di voi, ne può trovare altri. È proprio questo il valore delle opere universali.
La nuova stagione (la quinta) di Bojack verrà caricata sul server Netflix questo venerdì 14 settembre. Saranno dodici nuovi episodi che riprenderanno il discorso interrotto nella precedente stagione, una stagione segnata dal confronto per Bojack con il suo passato. In questa nuova stagione ha di nuovo a che fare con se stesso, un se stesso sempre ingombrante e doloroso. Anche se inizialmente sembra che venga dedicato più spazio ai personaggi secondari – meravigliosa la puntata dedicata a Diane in Vietnam o quella incentrata su Princess Carolyn – al centro della scena c’è sempre lui, Bojack. Un centro della scena che il cavallo si riprende prepotentemente a metà della serie, in un episodio che dovrebbe essere studiato nei manuali di sceneggiatura, alla voce: come si scrive un monologo. E non è la prima volta che Bojack si merita di entrare nel sussidiario di chi vorrebbe fare televisione di qualità. Per iniziare un’analisi corretta del cartoon creato da Raphael Bob-Waksberg bisogna partire proprio da questo concetto di qualità, dal presupposto che stiamo parlando di un prodotto di altissimo livello, sotto ogni punto di vista.
La stupenda storia di come il cartone sia stato creato ci mette di fronte a un vero sogno Hollywoodiano. Un sogno in cui a un giovane di 26 anni con idee straordinarie viene data una possibilità sulla base di una sola mail. Una mail in cui Raphael fa un brevissimo riassunto della serie: 3 anni dopo, pressappoco, Bojack è una realtà. I disegni a tinte pastello dai tratti infantili, l’animazione bidimensionale, le musiche e sopra ogni altra cosa, la scrittura portano Bojack nell’olimpo delle migliori serie mai realizzate.
Bojack è un cavallo in un mondo dove animali antropomorfizzati e umani vivono insieme e parlano tra loro come se nulla fosse. La star di una sitcom di successo anni ‘90 – Horsin’ Around – è Bojack, ora un quasi ex attore che gode del suo successo sbronzandosi, drogandosi e trattando tutti nel peggiore dei modi. Bojack Horseman è, innanzitutto, una satira feroce nei confronti del microcosmo Hollywoodiano, e questo è il primo livello di lettura. In una delle primissime puntate Bojack ruba, senza rendersene conto perché troppo ubriaco, la “D” della scritta Hollywood sulle colline di Los Angeles. In questo modo, quello che rimane della location per le restanti stagioni è Hollywoo. “To woo” è un verbo usato in inglese per definire i boccaloni, i sognatori della peggior specie, quelle persone che credono ciecamente a qualcosa senza avere appigli nel mondo reale. Quale migliore definizione per tutti gli abitanti di Los Angeles che si illudono, che rimangono abbagliati dalla possibilità di poter diventare qualcuno. Tutti i personaggi di Bojack hanno a che fare con il mondo del cinema e della televisione e il modo in cui vengono descritti è spietato, ironico, senza speranze. Nella fabbrica dei sogni chiunque va in giro cercando la realizzazione dei propri desideri banali e infantili, senza badare troppo al prossimo.
Oltre a vere e proprie guest star – vedi Naomi Watts o la ricorrente Jessica Biel – ci sono personaggi animali che incarnano veri e propri archetipi dell’immaginario Hollywoodiano, come la delfina Sextina Acquafina, una pop star proto-Britney Spears imprigionata nella sua stupidità, e dai piccoli problemi esistenziali che da questa derivano. Oppure Lenny Turtletaub, una tartaruga a capo di una major, produttore di successo che non capisce nulla dei progetti che gli vengono pitchati. Ogni personaggio, per quanto macchietta e pur essendo una caricatura di qualcuno, ha una sua – seppur tratteggiata – tridimensionalità. Tutto ciò sempre grazie all’intelligente penna di Raphael Bob-Waksberg che, grazie a fantasiosi tratti animali o con ficcanti battute, riesce in poche righe a dare vita a personaggi – strano a dirsi per un cartone animato – realistici. Tutti i personaggi di Bojack, dunque, vivono intrappolati nel sogno hollywoodiano e questo ci porta dritti al secondo livello di lettura.
La sitcom in cui recitava Bojack e che lo ha portato al successo era la classica sitcom anni ‘80/’90, vedi Il Principe di Bel Air, Otto sotto un tetto o, andando più indietro, i Robinson. Sitcom dall’ambientazione casalinga e familiare in cui ogni puntata era focalizzata su un problema che, inevitabilmente, veniva risolto nell’arco dei 30 minuti. Il mondo delle sitcom – e quello di Horsin Around non fa eccezione – è un mondo colorato, facile, dove i sentimenti non vengono mai feriti veramente, dove il perdono è garantito e dove il dolore trova fine nell’applauso consolatorio del pubblico in studio. Ma il problema di Bojack, come degli altri personaggi principali del cartone, è quello di credere che le regole del racconto televisivo si possano applicare fuori dallo schermo catodico. Questo tema viene focalizzato in modo estremamente preciso in questa ultima stagione dove Bojack torna a essere protagonista di una nuova serie tv crime. I piani tra finzione e realtà si mischiano distorcendosi, e vorrei ricordare a chi condannerà questa avventura nel meta televisivo – e ce ne saranno – che Bojack ha iniziato questo discorso tanti anni fa e che quest’ultima serie è solo l’estrema conseguenza di un tema centrale fin dalla prima stagione dello show.
Qualsiasi azione perpetrata da Bojack non è mai abbastanza cattiva o vile per lui, che crede che il perdono possa arrivare con un gran gesto, con un’unica azione catartica, perché così avviene nelle sitcom. Ma la colpa è spesso un fardello che siamo costretti a portarci addosso giorno dopo giorno per tutta la vita. E la catarsi è lenta e dolorosa e richiede impegno. E così Bojack si muove zoppicando, soffrendo, alla ricerca di un’assoluzione e, in questa ricerca, non può che continuare a commettere errori, a ferire chi ama.
Questa lunga agonia è un altro elemento di discrepanza tra il mondo televisivo e quello reale. Nelle sitcom, all’inizio di ogni puntata, il timer della vita viene resettato. Si può ricominciare da capo, con nuove energie, con rinnovato spirito. Per Bojack (e per noi) invece non è così. Il miglior momento della nostra vita può essere seguito da una giornata di merda. Così è per Bojack e per il suo creatore che mette in bocca a diversi personaggi questo concetto. Ad esempio la publicist Ana che permette a Bojack di vincere un Oscar nel finale di stagione tre, poco prima di ritirare il premio, ricorda a Bojack che: “Un Oscar non ti farà felice per sempre. Non risolverà i tuoi problemi. Vinci un Oscar e il giorno dopo torni ad essere quello che sei.” Un’altra citazione fondamentale per capire questo punto è quella dell’agente Princess Carolyn, che all’inizio dell’ultimo episodio della quarta stagione dice: “Faccio questo lavoro perché adoro le storie. Ci danno conforto, ci ispirano, dipingono un contesto che mostra come viviamo il mondo. Però devi anche stare attento, perché se passi troppo tempo con le storie, cominci a credere che la vita sia solo fatta di storie, ma non è così. La vita è la vita… ed è triste, perché… c’è così poco tempo e… Come lo stiamo usando?”
Princess Carolyn si sta riferendo a una nuova serie che vorrebbe produrre ma questo suo monologo ci porta direttamente all’ultimo livello di lettura di Bojack.
Credo che Bojack Horseman sia una dolorosa riflessione su come raccontiamo a noi stessi, attraverso storie e narrazioni che ci vedono protagonisti, la nostra vita. La nostra identità è filtrata dal racconto che operiamo su di noi. Dal momento in cui stringiamo la mano a una persona per presentarci, fino a quando ci raccontiamo rispondendo alla domanda “Tu chi sei?”, quello che facciamo è creare una nostra immagine, di cui possiamo innamorarci, o detestarla, ma non per questo smetterà di essere ciò che ci definisce. Bojack ha costruito una narrazione completamente falsata di se stesso e questo continuo gap è la causa del suo malessere. Bojack non riesce a credere di poter essere veramente il cavallo/persona capace di far soffrire chiunque gli si avvicini, capace di mandare in overdose un’amica, di provarci con la figlia minorenne del suo vecchio amore, capace di allontanare chiunque provi a volergli bene. “Tu sei la somma di tutti i tuoi sbagli”, gli ricorda Todd all’ennesima richiesta di perdono. Non si può scappare da chi siamo, si può solo venire a patti con noi stessi. Un percorso, una redenzione, che Bojack non riesce proprio a fare. E qui sta un altro grande merito della serie.
Non possiamo volere veramente bene a Bojack. A differenza di tanti altri eroi negativi, dal nostro Genny fino a Walter White, capita spesso di stare dalla parte di personaggi che compiono gesti orribili, molto più orribili di Bojack. Ma con Bojack non possiamo proprio fare il tifo per lui. Bojack è una persona orribile e non c’è niente di realmente affascinante in questo. L’unica speranza, sembra dire la quarta stagione – che ad oggi secondo me rimane la migliore – è tornare indietro nel passato e cercare le ragioni dell’odio e del rancore nel proprio passato. Ma anche questa speranza, dopo aver visto la quinta stagione, sembra essere scomparsa.
Così, proprio come in un episodio di Bojack, siamo partiti sorridendo alla possibilità di essere ippopotami, scimmie e delfini, e siamo finiti con gli occhi lucidi, di fronte ad una riflessione sulla nostra vita che mai ci saremmo aspettati di trovare nascosta tra le tinte pastello di un cartone animato.