“Io non guardo la tv” è una frase che dicono in tanti. Non è solo un’informazione neutrale sulle proprie abitudini al consumo di materiale audiovisivo, è una dichiarazione, un posizionamento. Lo snobismo verso la televisione, così come la semplice insofferenza o il disinteresse verso questo mezzo, sono sempre esistiti, ma da quando l’offerta si è decuplicata con internet, questa frase ha assunto un’accezione nuova. Non guardare la televisione oggi non è più un’eccezione, è molto più diffuso di un tempo, sebbene tutto ciò non comporti affatto un miglioramento della qualità dei nostri consumi culturali, ma solo una personalizzazione, o meglio una “customizzazione”, dei contenuti a scelta del singolo piuttosto che del generalista. Il processo di cambiamento dei mezzi di comunicazione è molto più imprevedibile e veloce di quanto il Novecento avesse immaginato, ma per quanto le forme e i modi di fruizione prendano direzioni inattese – chi ci avrebbe mai pensato a un social come TikTok anche solo dieci anni fa? – esiste una certezza che non ci tradisce mai: tutto quello che vediamo oggi su internet qualcuno l’ha già messo in pratica in tv diversi anni prima. E quel qualcuno, molto spesso, è stato Angelo Guglielmi.
Capisco molto bene chi dice che la tv fa schifo, che è vecchia, stantia e sempre uguale a se stessa. Ci sono una marea di ragioni per cui dopo settant’anni circa di presenza nel nostro Paese, il mezzo televisivo sta colando lentamente a picco. Perché mai una prima serata di Italia Uno dovrebbe essere più interessante di una qualsiasi serie televisiva da iniziare su una delle tante piattaforme di streaming a nostra disposizione oggi o di un paio d’ore di scrolling su Instagram? La risposta a una domanda del genere, apparentemente scontata e retorica, non è così banale. In questo preciso momento storico, infatti, stiamo assistendo a una ridefinizione in chiave “reazionaria” dei prodotti che offrono le piattaforme di streaming: la diretta, il ripescaggio di format prettamente televisivi, l’introduzione della pubblicità. Questo per dire che, anche le cose che ci sembrano più innovative e inedite, da qualche parte pescano, e conoscere il passato, anche quando è recente, è una fonte inesauribile di spunti. La tv non è sempre stata uno schifo – e per molti aspetti, in realtà, non è lo neanche tutt’ora – dal momento che, per esempio, è stata il mezzo attraverso cui in Italia abbiamo imparato la nostra stessa lingua. È stata la Rai di Ettore Bernabei, il luogo della pedagogia diffusa e democratica, della formazione di miti e personaggi che sono patrimonio della nostra cultura popolare, della diffusione di Shakespeare e Dostoevskij. Ma, soprattutto, è stata per alcuni anni anche uno spazio in cui la sperimentazione libera, seppur sotto l’ala dei partiti, ha generato dei programmi che non sono invecchiati mai e da cui il presente attinge a piene mani, spesso senza neanche saperlo.
Fino al 1987, Rai 3 era solo la terza e anonima rete dell’emittente pubblica. Non generava buoni ascolti, non aveva un’identità precisa e le televisioni di Silvio Berlusconi cominciavano a divorarsi uno spazio sempre più grande e predominante nel pubblico. Mentre Rai 1 era la rete ammiraglia, il canale per eccellenza della Democrazia Cristiana, e Rai 2 era la rete del Partito Socialista Italiano, più pop e dirompente, il terzo canale rimaneva nell’ombra, con uno share inferiore a quello delle televisioni private. Poi, Angelo Guglielmi venne nominato direttore da Walter Veltroni, responsabile della cultura del Partito Comunista Italiano, e da lì in avanti, per i successivi sette anni, fino al 1994, Rai 3 ha cambiato radicalmente la sua presenza nei palinsesti, diventando una rete che rimane ancora saldamente attaccata a un principio di qualità non proprio così diffuso in ambito televisivo.
“Cos’è la neo-tv? la televisione pedagogica considerava lo strumento televisivo alla stregua di un nastro trasportatore su cui portare prodotti e conoscenze nati all’interno di altri linguaggi, il teatro, la letteratura, la musica, le arti visive, perfino il cinema. La neo-tv considerava la tv non uno strumento ma un linguaggio,” scriveva Angelo Guglielmi nella sua raccolta di saggi uscita nel 2019, per i suoi novant’anni, Sfido a riconoscermi. “Neo-televisione” è infatti il termine che viene utilizzato per descrivere il cambiamento che la sua presenza portò in quegli anni e che proseguì nella sua eredità anche nei decenni successivi: la televisione che, come diceva Guglielmi citando Pasolini, usava la realtà per parlare della realtà, la televisione che inventava un suo personale codice di rappresentazione, unico e caratteristico.
Per capire la radice di questo grande cambiamento, prima ancora di analizzare i programmi e i personaggi che proliferarono sulla Rai 3 di Guglielmi, è importante capire chi fosse la persona che l’ha messa in atto. Non un semplice addetto ai lavori, nonostante lavorasse in Rai da diverso tempo – il primo talk show italiano, Bontà loro, condotto da Maurizio Costanzo, era nato da una sua idea nel 1976 – e nonostante fosse un produttore cinematografico da Oscar. Angelo Guglielmi era prima di tutto un intellettuale, parte del gruppo neoavanguardista Gruppo 63, di cui facevano parte anche Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Giorgio Bassani e Alberto Arbasino, giusto per citare alcuni nomi. Oltre a essere stato un insegnante di lettere e un giornalista, Guglielmi era infatti un finissimo critico letterario, temuto e osannato per il suo stile spietato e lucido. Un uomo di cultura che, a differenza di molti altri intellettuali, ha colto il potenziale espressivo e creativo del mezzo televisivo, senza confinarlo a un linguaggio triviale né esoterico: Rai 3 in mano a Guglielmi diventò un raffinato equilibrio di sperimentazione, ironia, cultura e intrattenimento, un mix lungimirante che ha fece sì che quasi ogni suo format diventasse di fatto un cult.
Partiamo del modo in cui Guglielmi ha utilizzato la componente del racconto drammatico in televisione, non certo con un approccio da pornografia del dolore ma con quello spirito di fedeltà alla realtà pasoliniano che citavo sopra. Chi l’ha visto?, Telefono giallo, Linea rovente, Un giorno in pretura, Storie maledette, questi format vengono tutti messi in onda sulla Rai 3 di Guglielmi, programmi con un metodo di analisi cristallina, meticolosa ma allo stesso tempo anche catchy, come diremmo ora, facile da seguire e da comprendere, non più materia distante, semplificata nella forma ma non semplicistica nel contenuto. La giustizia alla portata di tutti, talmente tanto vicina alla realtà da diventare il teatro, per esempio, del primo processo messo a disposizione del grande pubblico, la fine del maxiprocesso alla mafia, trasmesso per la prima volta su Rai 3, o di una incredibile testimonianza sulla strage di Ustica data in diretta a Corrado Augias a Telefono giallo. Non solo giustizia, ma anche politica: mentre l’Italia veniva sommersa dalla valanga di Mani Pulite, Guglielmi dava spazio a personaggi televisivi come Gad Lerner, che presentava un talk proprio da Milano, teatro degli scandali di Tangentopoli, Milano, Italia e poi Michele Santoro e Samarcanda. Tutto ciò alzando i dati d’ascolto da percentuali irrisorie alla competizione con i mostri di Mediaset.
Difficile scegliere quale fosse il programma migliore in assoluto lanciato dalla Rai 3 di Guglielmi quando a competere ci sono format come Blob, La tv delle ragazze, Avanzi, Tunnel, Mi manda Rai3, Quelli che il calcio. Di sicuro, però, a livello comico l’apporto di questo canale fu senza precedenti. Prendiamo per esempio un programma come Blob in cui Enrico Ghezzi e Marco Giusti hanno anticipato la tendenza postmoderna di rimescolare i contenuti televisivi per crearne altri con un nuovo senso, un modo di riciclare tutto ciò che ingurgitiamo tramite gli schermi che oggi, con internet, è diventato la base di qualsiasi meme o realtà comico-satirica contemporanea del web. Già solo un format del genere basta per comprendere l’ampiezza della visione di Angelo Guglielmi e della sua idea di tv, che oltre a programmi sperimentali – sperimentali ma non elitari, questo è sempre bene sottolinearlo, anche nei casi più estremi come con Fuori orario – ha dato spazio a personaggi come Corrado Guzzanti. La televisione di Serena Dandini, dove esordisce Guzzanti, infatti, nasce proprio in quel periodo, non solo con La tv delle ragazze, una pietra miliare della comicità italiana con un cast quasi tutto femminile di livello altissimo, ma anche con altri format come Avanzi, programmi in cui Guzzanti va in scena per il grande pubblico diventando presto un’icona. In sostanza, senza la Rai 3 di Angelo Guglielmi, forse non avremmo mai avuto Sabina, Corrado e Caterina Guzzanti. Così come Fabio Fazio, anche lui nato artisticamente tra le mura di quel canale, ma anche Piero Chiambretti, Claudio Bisio, Aldo Giovanni e Giacomo.
Chi non guarda la televisione oggi, nella maggior parte dei casi, non si perde nulla. Ma chi non conosce la portata della rivoluzione culturale che fece la televisione di Angelo Guglielmi non solo si perde un pezzo enorme di storia recente, ma anche una serie infinita di tasselli per capire molte cose del presente che sembrano piovute dal cielo ma che invece vengono da un mondo che non è poi così distante da noi. Tutto ciò non sarebbe esistito senza l’apporto di chi ha inventato la neo-tv, ossia di chi ha creduto nelle alternative possibili, investendo nel rischio della sperimentazione contro la comodità del già noto, nella lotta folle degli anni Ottanta alla rincorsa dello share, quando la televisione si sfidava per la prima volta nel duopolio tra Rai e Mediaset, tra leggi fatte per garantire ai privati di superare il pubblico e partiti che si dividevano i canali con le arcinote “lottizzazioni”. In quel momento, un uomo di cultura ha preso le redini di un canale abbandonato a se stesso e lo ha reso un cantiere di creatività e di idee così tanto geniali da rimanere perfettamente attuali, a prescindere dal mezzo, che sia YouTube o una seconda serata su Rai 3 o una diretta su Twitch. Angelo Guglielmi se n’è andato a novantatre anni ma ha lasciato un’eredità enorme, che vale non solo per chi guarda ancora la tv, ma soprattutto per chi non la guarda più o non l’ha mai guardata. Del resto, anche lui per sua ammissione, o forse solo per provocazione, diceva: “Io non guardo la tv”.
Cover photo courtesy Rai Cultura