Nel glossario contemporaneo alla discussa voce “genio” tra i primi nomi a venirci in mente – se non proprio il primo – c’è quello di Wolfgang Amadeus Mozart. Mozart è infatti passato alla storia come l’incarnazione del genio assoluto, che si fa manifestazione di un dono unico, stupefacente, agli occhi del mondo “divino”. Al tempo stesso, però, Mozart era un personaggio profondamente controverso, impossibile da incasellare e da dirigere, una figura scomoda che, come accade di epoca in epoca, il potere fa di tutto per sfruttare, ma senza riuscirci. Proprio per questo Mozart è un personaggio in grado di sfatare lo stesso mito del genio, che per quanto “affascinante” sarebbe ora di riconsiderare, perché profondamente fuorviante e limitato da un punto di vista intimo, sociale e politico.
Anche chi non sa riconoscere la musica di Mozart ha probabilmente scolpita nella memoria la sua immagine – che non è quella che appare sulla carta delle famose palle di marzapane, ma corrisponde a quella di Tom Hulce in Amadeus. Il film del 1984, diretto da Miloš Forman, è diventato un vero e proprio cult, non solo per musicisti e melomani, ma anche per il grande pubblico. L’opera vinse numerosi premi – tra cui ben 8 Oscar – aggiudicandosi un posto di rilievo nella storia del cinema e divulgando, grazie a una narrazione trascinante e un’interpretazione magistrale, le grandi opere di Mozart e facendo riscoprire quelle di Antonio Salieri (interpretato da Murray Abraham).
Forman non è stato semplicemente in grado di mettere in scena l’epoca a cavallo tra Sette e Ottocento – come aveva già fatto Stanley Kubrick quando nel 1975 aveva realizzato Barry Lyndon, Forman gira il film sfruttando esclusivamente la luce naturale o usando tutt’al più quella delle candele – al tempo stesso ha raccontato un Mozart contemporaneo, “umano” (non a caso il suo secondo nome dà il titolo al film), e ha ridato vita a una trama avvincente, in grado di riflettere sui grandi temi legati al ruolo dell’artista nel mondo e al significato simbolico e politico della creazione artistica. Il film, che si ispira liberamente alla vita del compositore di Salisburgo, è infatti tratto dall’omonima pièce del drammaturgo inglese Peter Shaffer, che a sua volta prese le mosse dal famoso microdramma “Mozart e Salieri”, parte delle Piccole tragedie del grande scrittore e poeta russo Aleksandr Sergeevič Puškin.
Il soggetto di tutte queste tre opere si fonda su quello che è diventato un perfetto espediente narrativo, per quanto del tutto infondato: l’avvelenamento di Mozart per mano dell’invidioso Antonio Salieri, talentuoso compositore di Legnago, Hofkapellmeister alla corte di Giuseppe II d’Asburgo, a Vienna. Il musicologo Volkmar von Braunbehrens – autore della prima biografia moderna su Salieri – racconta che il motivo del conflitto tra i due nasce proprio con Puškin, a cui non interessava in alcun modo la ricostruzione oggettiva degli eventi – così come né a Shaffer né a Forman – quanto la contrapposizione narrativa fra due diverse figure di artista, per le quali i nomi di Mozart e Salieri facevano da perfetta incarnazione storica. “Salieri accusa Dio di essere tanto ingiusto da non ricompensare [il suo] ardente amore per l’arte, l’abnegazione, lo sforzo, la diligenza e la preghiera con il dono di un genio immortale,” scrive von Braunbehrens, “e di coronare invece di tale genio proprio il capo di un pazzo, di un ozioso come Mozart”.
In realtà, quello del Mozart genio sfaticato, dalla cui fantasia emergono melodie stupefacenti dettate da un’ispirazione spontanea, trascinante e inarrestabile è solo uno stereotipo, un’idealizzazione. Gli studi ci restituiscono l’immagine di un lavoratore indefesso, che per comporre le sue opere arrivò a consumarsi – come si vede anche alla fine del film. Le fatiche di Mozart peraltro iniziarono da quando era bambino. Lo sviluppo del suo genio dipese infatti in larga misura dal padre Leopold, che già da quando era piccolo riconobbe il suo talento (così come quello della sorella), sottoponendolo a un vero e proprio tour de force per farlo crescere e conoscere come un bambino prodigio, portandolo a esibirsi di corte in corte in tutta Europa. Nonostante tutto, però, la disciplina ferrea e il rigore che Leopold gli impose – tanto osannati da alcuni – non ne piegano l’estro creativo.
Con buona pace dei vari drammaturghi, non è stato tanto Salieri quanto suo padre a incarnare l’antagonismo rappresentato dalla rigidità e dall’ingiustizia dell’ordine consolidato del mondo, imponendogli il percorso artistico e sacrificando poi il probabilmente altrettanto grande talento della sorella Maria Anna, detta Nannerl: costretta prima a dare lezioni private a Salisburgo per finanziare il tour in Italia del fratello e poi a dedicarsi alla famiglia abbandonando la carriera musicale. Amadeus è un’opera tanto amata perché in grado di mostrarci una figura a tutti gli effetti vicina a noi, che ricorda la storia di tanti talenti, in particolare quella di un tennista come Andre Agassi, il suo faticoso rapporto con il padre e la sua formazione – e non a caso Hulce per rendere la personalità nevrotica di Mozart, oscillante tra fasi maniacali e depressive, non si ispirò a un musicista, ma a un altro grande tennista: John McEnroe. Mozart in qualche modo resiste a questo padre ingombrante e sviluppa una personalità ribelle, sposa una donna non appartenente alla nobiltà, snobba gli onori che gli offrono i regnanti, inscena personaggi popolari, che mettono i ricchi in ridicolo.
Le prime parole che Leporello, il servo di Don Giovanni, proferisce nell’omonima opera sono proprio: “Notte e giorno a faticar, per chi nulla sa gradir; piova e venti a sopportar, mangiar male e mal dormir… Voglio far il gentiluomo, e non voglio più servir”. E se oggi queste parole ci raggiungono in tutta la loro frizzante comicità, all’epoca – in cui la servitù esisteva ancora – avevano un’enorme potenza politica, erano un vero e proprio slogan ribelle. Mozart però fa di più: affida il portato sovversivo della sua musica al tema dell’amore e delle convenzioni che ruotano intorno a esso. È il caso di Papageno che nel Flauto magico, nel più totale caos di magie ed scontri di potere, si mostra come un personaggio umile e dall’animo semplice, in sintonia con la natura, lontano dai dilemmi morali di Tamino, il protagonista. All’inizio dell’opera, l’uccellatore rivestito di piume sembra un ingenuo approfittatore, bugiardo e un po’ vile, ma a discapito delle apparenze alla fine si rivela una figura saggia e di gran cuore, guidata dall’amore e dalla compassione, pur restando legato a una dimensione esistenziale istintiva e spontanea – o forse proprio per questo. Il suo canto pappagallesco – trovata straordinaria per l’epoca – è un vero e proprio gioco, così come tanti altri trucchi che Mozart dissemina nelle sue composizioni (come ad esempio “le turcherie” del Ratto dal serraglio, in cui inserì tra gli strumenti dell’orchestra sonagli rumorosi).
Il gioco è ciò che permette alla fantasia dentro ciascuno di noi di resistere alle perturbazioni, alle punizioni e allo scherno sociale – “Non più andrai [farfallone amoroso]” – e può farsi strumento di rivoluzione. La trovata e l’invenzione per Mozart non sono mai un fine ma sempre un mezzo. Ciò emerge in particolar modo nel personaggio di Cherubino, centrale nelle Nozze di Figaro, che al pari di Don Giovanni e Papageno rappresenta la condizione umana dell’amore, in questo caso nelle vesti di un cupido: un allegro seduttore in cui si intravede la figura dello stesso Mozart e che introduce nell’opera l’elemento bizzarro e fantasioso, come una sorta di inafferrabile spiritello. Il giovane Cherubino, che non sa ancora cosa sia l’amore, è uno strapazzatore di uomini adulti e il motore narrativo di un’opera che si beffa della sua stessa epoca e delle norme sociali che la caratterizzano, tanto da risultare per certi aspetti l’inizio della rovina di Mozart.
Cherubino è una sfrontata minaccia alla generazione dei padri. È l’adolescente che costringe a muoversi tutti gli altri personaggi che per età, classe e ruolo sociale – nonché pesanti parrucche, corpetti e ceroni – sono ormai immobili, calcificati, vecchi, intrappolati nelle loro stesse regole. Cherubino è leggero, si muove in continuazione e smuove, è un personaggio estremamente originale per l’epoca, tuttora incredibilmente attuale, dal genere fluido, ambiguo, che vorrebbe ogni donna perché non ne conosce ancora nessuna, sa solo del suo corpo (“parlo d’amor con me”) e accetta di farsi oggetto di desiderio. È curioso e vanitoso (“narcisetto” come lo chiama Figaro), aperto e libero, senza problemi si traveste da donna (non a caso è infatti interpretato da una mezzo soprano) e par quasi suscitare il desiderio degli uomini per via del suo “vermiglio, donnesco color”. La potenza della musica di Mozart sta in questa sua leggerezza, nel suo saper essere frivola, una presa in giro irriverente, mai rancorosa, eppure intensamente consapevole e quindi in grado di inabissarsi nella più oscura serietà quando serve, in un dramma privo di retorica e per questo ancor più potente (basti pensare al Requiem). Ciò emerge in tutte le sue opere, in cui si mescolano alla perfezione elementi buffi e tratti più seri.
A Salieri, invece, nel film viene affibbiato il ruolo che incarna la pesantezza e l’artificiosità che la cultura si porta dietro dai tempi dell’Antico Testamento. Per lui è inconcepibile che un uomo volgare come gli sembra Mozart sia degno di un così grande successo e inizia a dubitare del suo talento. Cionondimeno ascoltando la sua musica non può che restare rapito. L’ingegno musicale di Mozart, anche solo per scherzo e sfottò – come si vede nel film – fa crollare ogni coordinata esistenziale del suo antagonista, che vede vacillare la sua fede. Sembra quindi che il genio per essere tollerato debba quantomeno fare lo sforzo di mostrarsi umile e casto, riprendendo le qualità dell’ideale ascetico evidenziate un secolo dopo da Nietzsche nella Genealogia della morale. Come avanzò anche Franz Camille Overbeck, l’asceta per essere accettato deve “migliorarsi” facendosi monaco: caritatevole e soccorrevole. Aggiungo io compassionevole dei limiti altrui, rispettoso del ruolo che agli occhi del mondo ricopre: un eremita riabilitato alla civiltà. Alla puntiformità del genio, invece, si accompagna spesso la misantropia, l’arroganza e l’indolenza, che indigna e appare ancor più irriverente, e fa sì che questa figura da un momento all’altro possa diventare il capro espiatorio di tutta l’insoddisfazione dei mediocri, o di coloro che non si sono esercitati in maniera sufficientemente radicale. Anche per questo il potere porta a relegare il genio a una dimensione superiore, extramondana, che i comuni esseri umani non possono raggiungere, disinnescando così tutta la sua capacità di sovversione. E dal canto loro gli assoggettati accettano di buon grado il riparo di questa visione per giustificare la loro uniformità.
Nel dramma di Puškin accade una situazione rivelatoria. Mozart entra in scena portando con sé un violinista cieco, trovato in un’osteria mentre suona un passaggio delle Nozze. Mozart è sinceramente divertito da come il musicista storpi la sua composizione; ma Salieri, al contrario, si indigna. Per quest’ultimo infatti l’arte è sacra e quindi intoccabile, e la musica di Mozart soprattutto perché da lui considerata “la voce di Dio” – giudizio ben lontano dalla visione dello stesso Mozart – scevro da qualsiasi freno inibitore, audace, libertino e immorale – secondo il quale l’arte è una tecnica squisitamente umana, sviluppata degli esseri umani per gli esseri umani. Secondo Salieri, Mozart sarebbe così al di fuori dal mondo, così lontano da ogni aspirazione terrena dell’arte da non poter più giovare in alcun modo all’arte stessa, ma invece è tutto il contrario. La verità è che il suo semplice esistere mette in discussione il rigido sistema di valori della sua epoca e dei suoi rappresentanti.
Amadeus mostra come il più grande genio universalmente acclamato sia in realtà un incompreso, anzi, forse il meno compreso di tutti. Il genio appare infatti destinato a essere solo, quasi fosse una punizione per essersi spinto tanto oltre. Per quanto tutti lo vogliano imbrigliare, mettendolo a lavorare su commissione, assumendolo stabilmente, facendogli rispettare le abitudini consolidate del sistema, Mozart resta libero, indipendente, padrone se non di sé stesso della sua arte, sempre dalla parte del pubblico. Non lascia che il suo talento venga canalizzato e sfruttato dalle istituzioni, influenzato da una regola impostagli quasi per ricatto, che appare come una violenza e una castrazione. Il musicologo Roberto Verti diceva in maniera provocatoria che sfilando Mozart dalla Storia della musica non sarebbe cambiata. Mozart, infatti, usa in maniera singolare un linguaggio già esistente e canonizzato e quel che fa è talmente inedito da risultare irriproducibile, per certi aspetti rappresenta l’apice estremo di un fenomeno (non a caso lui amava profondamente Bach, a dimostrazione che il “genio” non nasce dal nulla), è un fiore che sboccia in inverno, il germoglio più ricco e vivo, che pur venendo eliminato non uccide la pianta, ed è proprio questa sua eccezionalità a sancirne il talento, per certi aspetti impossibilitato a evolversi e svanito come un delirio, un sogno o un’allucinazione, e che pure a distanza di secoli continua a essere riconosciuto. Salieri incarna a tutti gli effetti il potere e la forma della sua epoca, e in questo è parte integrante della Storia, anche grazie ai ruoli istituzionali che ha rivestito e che invece Mozart rifuggiva. Mozart invece rappresenta il soggetto per antonomasia, l’elemento unico e individuale, una cometa dalla vita rapidissima, che pure illumina a giorno il cielo, anche se solo per un istante, mostrando agli altri esseri umani qualcosa di assurdo, una cesura tra quello che potremmo dire l’assoluto e lo spirito del tempo.
Dopo aver ricevuto la notizia della morte del padre, nel 1787 Mozart inizia a comporre il suo secondo dramma giocoso il Don Giovanni, letto ancora una volta da Salieri nel film in chiave moralista. Egli, infatti, vede nel convitato di pietra – anch’esso ripreso da Puškin – una sorta di punizione edipica che Mozart si vuole infliggere. Ma in realtà anche in questo caso l’alter ego di Mozart, Don Giovanni, non si pente, non chiede scusa, piuttosto viene inghiottito dagli inferi, non rinnega la sua condotta, il suo uso del corpo come strumento per raggiungere il piacere e al tempo stesso stare nel mondo, disturbando e attaccando le norme sociali dell’epoca. Il libertinaggio, il sesso e il desiderio sono infatti vere e proprie armi che perturbano la quiete della gerarchia. Don Giovanni rappresenta allora, ancora una volta, un sovversivo che attraverso la sua persona si fa portatore di una critica all’ordine costituito. Vive la vita come un’avventura, a suo modo come un ribelle che calpesta le regole – e non a caso alla fine del secondo atto riprende l’aria che canta Figaro contro Cherubino e suona come una specie di monito: “Non più andrai”. Don Giovanni è infatti una sorta di proiezione di Cherubino nel futuro. Questi due personaggi incarnano i due volti di una stessa figura, che l’esperienza ha reso diversi. Il 5 dicembre del 1791, circa due mesi dopo la prima del Flauto magico, a trentacinque anni Mozart muore, senza riuscire a concludere il Requiem. Come un credente primitivo fino all’ultimo si confronta con la morte, mescolando la pulsione ascetica (l’esercizio indefesso, la perseveranza nei confronti del suo talento) alla pulsione del piacere (la creazione artistica, il desiderio erotico) e pur venendo seppellito in una fossa comune la sua musica resisterà alla storia – difendendosi dall’odio, dagli affronti, dall’invidia e dall’ignoranza.
Nei confronti della musica cosiddetta colta si sentono spesso gli stessi timori che in tanti provano verso la poesia. Entrambi sono mondi che vengono percepiti come irraggiungibili per una sorta di pudore e vergogna. Sembrano luoghi che non si frequentano per piacere. Qualcuno, nel tempo, sembra averli ammantati di quest’aura che in realtà non gli apparterrebbe. Questi ambiti sono stati strettamente circoscritti da chi li popolava, cercando di tenerne al di fuori gli altri. Eppure, così come nelle famiglie reali del passato i ripetuti rapporti con consanguinei creavano orrendi corredi genetici, nei Paesi – purtroppo come l’Italia – in cui la musica colta e la poesia non si sono aperte al mondo si stanno lentamente spegnendo, diventando via via sempre meno vive. Per ascoltare la musica, classica o colta che dir si voglia – se la prima nomenclatura è inesatta, la seconda finisce per essere involontariamente infelice e ribadire quanto detto sopra – basta avere le orecchie. Non serve altro. Orecchie in grado di ascoltare, un po’ di tempo e la voglia per farlo, per parafrasare Paul Valéry. Un film come Amadeus allora, al di là della licenza creativa, contribuisce a sfatare il falso mito legato al genio, riportando nel mondo qualcosa che tuttora sembra erroneamente inavvicinabile e per certi aspetti ultramondano, ma che invece appartiene alla nostra stessa vita di animali umani. Mozart e la sua musica – rivoluzionari un tempo così come oggi – incarnano proprio questo dato di fatto, riconoscendo a qualsiasi individuo la possibilità di esercitarsi, di comprendere e di sviluppare una propria coscienza a prescindere dal proprio ambiente.