In un’intervista del 2010, il regista bosniaco naturalizzato serbo Emir Kusturica raccontò che il cinema lo aveva reso uno specialista del nulla. “È l’onniscienza del regista: la specializzazione in nulla”, disse. Una sensazione che accomuna molti registi ma che, a posteriori, sembra infondata. Non fu solo il suo caso: dopo i 23 capolavori cinematografici già consigliati, eccone altri 20 che dovresti vedere e che rivelano come quel nulla sia in realtà capace di trasformarsi in un tutto.
Il tempo dei gitani, di Emir Kusturica (1988)
Guardare un film può essere divertente, piacevole o rilassante, ma a volte la visione di un’opera può anche diventare una sorta di epifania, un momento in cui si sviluppa uno stato di empatia verso qualcosa che per vari motivi possiamo ritenere molto o troppo distante da noi. I film di Emir Kusturica forniscono un ottimo esempio di questo fenomeno, specialmente pellicole come Il tempo dei gitani, del 1988, che ha come centro narrativo le comunità zingare e racconta la storia di un ragazzo rom, dalla sua infanzia a Sarajevo all’arrivo in Italia, dove entra in contatto con la malavita milanese.
Spesso, quando parliamo della comunità rom con distanza e disprezzo ci sentiamo nella posizione di poter sparare a zero su una cultura che non ci appartiene e non ci tange; invece, il ribaltamento rappresentativo che Kusturica mette in atto con i suoi film, in cui i tratti così lontani del mondo gitano diventano protagonisti e punti di forza, ci invita a sospendere ogni giudizio. Basti pensare a una scena come quella del matrimonio, che rappresenta un momento così lirico ed emozionante, surreale e grottesco allo stesso tempo, che è impossibile guardarla e restare indifferenti.
La bravura di Kusturica – oltre ad aver raccontato negli anni anche molti altri aspetti della sua terra, rendendola più comprensibile anche al resto del mondo – è quella di aver creato uno stile applicabile anche ad altri contesti. La sua estetica, che passa anche attraverso la musica, è diventata un segno di chiaro riconoscimento dei suoi lavori. Con Il tempo dei gitani ha realizzato un’opera di pieno realismo magico, dove il privato è sempre pubblico, il sogno e l’illusione indistinguibili e la gioia e la tragedia inestricabili. Pur creando qualcosa di molto divertente, la parabola di Perhan, adolescente orfano che vive con la nonna guaritrice, la sorellina zoppa e uno zio eccentrico, si fa man mano più oscura e drammatica.
Nel raccontare la storia di questa famiglia, Kusturica riesce a mostrare i valori di un’intera comunità, mantenendo sempre – anche nei dettagli più fantastici – il focus sulla propria ricerca, che si impegna a rivelare tutti i chiaroscuri del mondo.
L’insostenibile leggerezza dell’essere, di Philip Kaufman (1988)
Nel 1988 Philip Kaufman girò L’insostenibile leggerezza dell’essere, adattando liberamente l’omonimo romanzo di Milan Kundera, pubblicato in Repubblica Ceca oltre quindici anni dopo la sua stesura a causa dei rapporti travagliati dell’autore con il Partito Comunista.
La trama del libro si sviluppa intorno a un quartetto di personaggi in cui ciascuno è interconnesso agli altri attraverso conflitti e similitudini. Tomáš (Daniel Day-Lewis), Sabina (Lena Olin), Franz (Derek de Lint) e Tereza (Juliette Binoche) si muovono sullo sfondo di una città sconvolta dalla Primavera di Praga, intrecciando le loro esistenze con fili metafisici e al tempo stesso fisiologici, pulsionali, soggettivi e collettivi, come marionette ingarbugliate nell’atelier di un burattinaio.
Le loro esperienze distinte, ma complementari, danno vita a una narrazione unica, che potrebbe sembrare inadatta alla trasposizione cinematografica, ma non è affatto così. Nel caso della pellicola di Kaufman, poi, lo scrittore fece da consulente attivo durante tutta la realizzazione del film, per tradurre al meglio in immagini la danza che i personaggi creano intorno allo spettatore, mescolando la libertà sessuale, che si impone come arma di rivoluzione e difesa dei propri sentimenti, all’amore più travolgente, fatto di quella compassione che è “la capacità massima di immaginazione affettiva, l’arte della telepatia delle emozioni”. Nella cappa asfissiante imposta dal regime sovietico l’eros sembra l’unico ambito in cui è ancora possibile esistere in maniera autentica.
Italo Calvino, nelle sue Lezioni americane, non a caso, prese questa storia come esempio di tutte quelle opere che, nascondendosi dietro al discorso della leggerezza, hanno come vera essenza la constatazione dell’ineluttabile pesantezza del vivere. Come dice Tomáš, infatti: “Se avessi due vite nella prima inviterei Tereza a restare a casa mia, e nella seconda la sbatterei fuori, così potrei fare un paragone e decidere come comportarmi. Ma si vive una volta sola, la vita è così leggera… è come uno schema che non si può mai riempire, né correggere, né migliorare: è spaventoso”.
L’insostenibile leggerezza dell’essere racconta quanto sia spaventoso vivere, ovvero fare i conti con singole, infinite possibilità, che ci mostrano costantemente il baratro del non sapere. Ma soprattutto rivela la necessità di non accontentarsi di significati forse più semplici, ma riduttivi e limitanti, men che meno quando ci sentiamo stanchi, sfiniti, insoddisfatti e impauriti.
Silkwood (1983), di Mike Nichols
Silkwood è uno di quei film che risulta impossibile scollarsi dalla memoria, non solo per la grande interpretazione di Meryl Streep, ma anche per i temi che affronta. Ambientato vicino a Crescent, in Oklahoma, è infatti stato tratto dalla storia vera di Karen Gay Silkwood, un’attivista sindacale statunitense morta misteriosamente nel 1974.
Dopo un passato da tossicodipendente e alcolista, che ha fatto sì che perdesse la custodia dei suoi tre figli e il marito, Karen lavora come operaia all’impianto di produzione di combustibile nucleare Cimarron Fuel Fabrication Site, della Kerr-McGee.
Nella fabbrica vengono lavorati uranio e plutonio, fino alla produzione delle barre di combustibile per le centrali nucleari, un’attività che per forza di cose comporta il rischio costante di esposizione alle radiazioni. Dopo una contaminazione accidentale, Karen scopre nell’attivismo sindacale la sua ragione di vita, e inizia così una lotta senza tregua per ottenere la trasparenza delle informazioni date ai lavoratori dell’impianto e la loro sicurezza. Si trova però a doversi scontrare con i suoi stessi colleghi che temono di perdere il lavoro, ignari del fatto che probabilmente ciò che perderanno sarà la vita.
La parabola di Karen, sola contro gli enormi mulini a vento rappresentati dall’industria del nucleare, si fa sempre più tragica. Man mano che va a vanti nelle sue ricerche e nelle sue battaglie sindacali, infatti, rimane più volte contaminata in maniera inspiegabile e tracce di radioattività vengono trovate anche nella sua abitazione.
I dirigenti le propongono un patteggiamento in cambio del silenzio sulle anomalie della gestione dell’impianto che ha scoperto, ma lei rifiuta, determinata a denunciare tutto alla stampa. Morirà in un misterioso incidente d’auto la sera in cui avrebbe dovuto incontrare il giornalista con cui l’aveva messa in contatto il sindacato.
A volte la realtà supera la finzione, e questo è sicuramente uno di quei casi, quando poi viene raccontata un grande regista – Mike Nichols, che aveva già diretto Il laureato e Comma 22 – e da un’interprete del calibro di Streep: è inevitabile che si trasformi in arte, capace di parlare alle coscienze con potenza inaudita.
Brother, di Takeshi Kitano (2000)
Con i rispettivi cult degli anni Novanta e i loro personaggi, Scorsese e Tarantino sembravano aver costruito il modello indiscutibile del gangster. I bravi ragazzi italoamericani del primo e i killer Avantpop e citazionisti del secondo hanno segnato l’immaginario del pubblico con un certo tipo di figura feroce e cinica, ma anche sarcastica e immancabilmente cool che era entrata a far parte a pieno titolo del genere. Poco dopo, nel 2000, esce Brother di Takeshi Kitano, il primo film del regista giapponese girato negli Stati Uniti e che mette in discussione questa immagine ormai nota, dando vita a un’interpretazione assolutamente personale degli stilemi dei film di gangster, con personaggi caratterizzati da una freddezza inedita, ancora più crudele di quella americana.
Questa rilettura del genere risulta tanto inattesa quanto potente perché essendo fatta da un punto di vista esterno è capace per molti aspetti di superare le rappresentazioni precedenti, anticipando la svolta iperrealista che avrebbe poi segnato i gangster movies negli anni successivi. Con questo film Kitano inscrive il suo stile nell’universo di Los Angeles e lo utilizza per piegare alcuni canoni dei film d’azione, sovvertendoli per appropriarsene del tutto, fino a renderli perfettamente adatti alla storia che vuole raccontare: quella di un alto funzionario della Yakuza in pericolo di vita, che raggiunge gli Stati Uniti per nascondersi a casa del fratello emigrato.
Così, il protagonista della trama mette in discussione le regole della mafia locale – compresi i fondamentali del baseball, a cui i criminali amano giocare – proprio come Kitano riesce a innescare le dinamiche asciutte, violente, spietate del suo cinema in un contesto nuovo, senza perdere di credibilità. Partendo dalla cultura giapponese – e in particolare dall’assetto valoriale della Yakuza, che ancora oggi ha un ruolo strutturale nella società nipponica – il film sviluppa una riflessione sul concetto di fratellanza, che ci viene restituito come un sentimento intenso, viscerale, ancor più profondo di quello che è il legame fra consanguinei. L’architettura di credenze e valori da cui vengono mossi i personaggi, infatti, insinua nella violenza di cui si macchiano delle ambiguità, che la rendono molto sfaccettata, per certi aspetti più difficile da condannare, lontana dalle rappresentazioni dicotomiche delle guerre tra gangster all’americana.
La Storia, di Luigi Comencini (1986)
Il 1974 per l’Italia è un anno di grandi sommovimenti politici e sociali. Siamo nel bel mezzo degli anni di piombo. La strategia della tensione è alimentata da un clima di estremismo politico che egemonizza il dibattito pubblico e diffonde un’atmosfera di terrore. Quell’anno, in estate, esce un romanzo: La Storia, il libro a cui Elsa Morante dedicò anni di sforzi, e che racconta le vicende della vedova Ida Ramundo, maestra elementare, ebrea per parte di madre, che viene violentata all’inizio della seconda guerra mondiale nel suo appartamento di San Lorenzo da un giovane soldato tedesco. Da questa violenza nascerà un figlio, Useppe, secondogenito di Ida, che insieme a Nino, il fratello maggiore, accompagnerà il lettore in quell’arco di tempo maledetto e contemporaneamente capace di prodigi che fu la guerra, la sua fine e la ripresa che ne seguì.
Fu nel 1986, dodici anni dopo, che Luigi Comencini scelse di dirigerne la trasposizione cinematografica, pensata in tre puntate per la televisione, realizzando un film struggente, che tenta di rendere giustizia a un romanzo tanto amato dagli italiani (ma che la critica non si risparmiò di distruggere), di cui il regista mantenne intatti gli intenti dell’autrice, pur appianandoli e chiarendoli secondo un libero adattamento.
Per mezzo di filmati d’epoca in bianco e nero, con spezzoni di discorsi di Benito Mussolini, di marce fasciste, dati e numeri su ciò che la guerra ha comportato, al di là di ogni ideologia, Comencini, riprendendo Morante, mostra come la Storia e la storia non procedano parallele, ma si incrocino, intrecciando eventi storici e atti umani. Raccontando la guerra a debita distanza è possibile presentarla e rappresentarla non come un evento contingente, ancora fresco, ma come una condizione umana universale, un dramma perenne la cui vittima predestinata è dall’infanzia. Quello di Comencini, infatti, è un cinema morale ed etico, a tratti quasi pedagogico, che – come scrisse il critico Tullio Masoni in occasione de Le avventure di Pinocchio – riesce a costruire delle “favole neoraliste senza neoralismo”, mantenendone la forza morale ma distaccandosi da alcuni stilemi, per esempio con l’inserimento ricorrente dei sogni. Dalla sua trasposizione televisiva emerge il senso di un’epoca dal sapore amaro che, nonostante il progresso in cui si credeva nell’immediato dopoguerra, a suon di coca-cola e patti atlantici, fa piangere di pietà; un’epoca di cui nostro malgrado siamo figli e di cui ancora paghiamo il prezzo.
America oggi, di Robert Altman (1993)
Leggendo la prima raccolta di racconti Vuoi star zitta, per favore? di Raymond Carver, a un certo punto ci si imbatte in una frase apparentemente banale: “He wondered if she wondered if he were watching her”, che è la migliore sintesi dei rapporti tra i vari personaggi che compaiono nel libro, stretti in un intreccio di connessioni, sguardi, pensieri, giudizi e fantasie reciproche. Non è un caso che America oggi, uno dei capolavori dimenticati di Robert Altman, sia ispirato anche a questo libro, da cui riprende gli incastri e le sovrapposizioni che interessano le vicende personali dei suoi ventidue protagonisti.
Il racconto corale di Altman si svolge in una Los Angeles irrorata dall’insetticida sparso sulla città dagli elicotteri, che cercano di contrastare un’infestazione da mosca della frutta. Le vite dei personaggi rimangono ingabbiate in un’area suburbana, periferica e anonima della città, trasferendoci in una dimensione laterale. Il film, infatti, non è tanto interessato agli avvenimenti apocalittici che si verificano (all’infestazione, infatti, seguirà un terremoto), ma vuole scavare in quella che secondo il regista (e probabilmente anche secondo Carver) è la vera catastrofe dei protagonisti, ovvero quella intima, esistenziale, personale, che accade nel privato.
America oggi racconta la tragicità del quotidiano – quella apparentemente insignificante che capita alle persone comuni cambiando la loro la vita – ritraendola con un minimalismo brutale, che non rende volutamente giustizia agli effetti che questi eventi minuscoli hanno sui personaggi coinvolti, nonostante per loro siano devastanti. Questa spietata banalizzazione dei drammi personali crea un’atmosfera di desolante spegnimento esistenziale, in cui lo squallore a cui si riducono i personaggi rimane l’unico elemento presente, e l’horror vacui si fa ben più infestante degli insetti di cui pensavano di doversi preoccupare.
Hannah e le sue sorelle (1986), di Woody Allen
Hannah e le sue sorelle – film corale con uno dei cast meglio assortiti di sempre – rappresenta una delle sceneggiature più interessanti e riuscite di Woody Allen, e infatti gli valse l’Oscar come Miglior sceneggiatura originale, oltre che a Dianne Wiest e Michael Caine come miglior attrice e attore non protagonista, e ben sette nomination.
In particolare, in questo film Allen non accentra esclusivamente sul suo personaggio autobiografico tutto il portato esistenziale della storia, ma riesce a suddividerlo sui vari personaggi – Hannah (Mia Farrow) e le sue sorelle appunto, Holly (Dianne Wiest) e Lee (Barbara Hershey) – che ne tessono l’intreccio rendendolo ancor più potente e prismatico e offrendo allo spettatore tanti modi diversi di provare a fare i conti con l’esistenza. Le tre sorelle, infatti, nonostante la stessa origine e gli stessi stimoli famigliari, hanno tre personalità del tutto distinte e vivono in maniera molto diversa all’interno dell’ambiente da cui provengono, fatto di artisti e più o meno presunti intellettuali. Ad affiancarle sullo schermo ci sono poi il marito di Hannah, Elliot (Michael Caine) e il suo ex marito, Mickey (Allen).
La storia, che come al solito nel caso di Allen è composta da dialoghi e monologhi indimenticabili, è scandita da sedici didascalie e si dispiega nell’arco di tre cene del Ringraziamento, in cui i personaggi hanno occasione – più o meno forzata – di ritrovarsi e di mostrare le debolezze e gli irrisolti del loro mondo. Tutto è trattato in maniera ironica e agrodolce, mai forzata, senza paura di sperimentare anche una resa più drammatica e sentimentale delle dinamiche affrontate sullo schermo, che avvicina il cinema al teatro in maniera sapiente e sempre misurata.
In questo film, Allen è riuscito a inoculare un distillato di emozioni che ciascuno di noi ha provato almeno una volta nella vita, ma in maniera indimenticabile: amore e attrazione, paura della morte, del futuro e del rifiuto, incertezza sul proprio valore e sulla propria identità, angoscia di fronte alla crisi dei valori, spirituali e sociali, solitudine, incomprensione e incomunicabilità, in particolare tra persone vicine, e nonostante tutto desiderio di condivisione e di affetto, speranza, e tensione verso una possibile consolazione esistenziale, che ci dia sollievo dal dolore, più o meno grave, con cui siamo continuamente chiamati a fare i conti.
Natural Born Killers, di Oliver Stone (1994)
“Una consegna per Ed Wilson”, “Beh, ma che diamine è?”, “Manzo, signora. Ventidue chili netti”. L’incontro tra Mickey (Woody Harrelson) e Mallory (Juliette Lewis) avviene grazie a un pacco di carne ordinato dal padre di lei. Da quel momento i due protagonisti di Natural Born Killers si innamorano e iniziano una relazione che sembra il distillato romantico di uno snuff movie: niente scene esplicitamente porno, sostituite dal racconto di un sentimento anomalo, ma sincero; che si accompagna a un’enorme quantità di omicidi che Mickey e Mallory compiono soltanto per gusto – ispirati peraltro alla vera storia di Charles Starkweather, che alla fine degli anni Cinquanta uccise undici persone insieme alla fidanzata quattordicenne Caril Ann Fugate.
Natural Born Killers parte da una sceneggiatura acquistata per 400mila dollari dal suo autore – Quentin Tarantino – che il regista Oliver Stone ha fatto diventare la versione più perversa – e molto più televisiva – di Cuore selvaggio, di David Lynch. Le azioni dei personaggi, sempre eccessivamente pulp, infatti, sono accompagnate dalle risate finte e dai sospiri fuori campo delle sitcom, in un effetto che rende le intrusioni dei media ben più disturbanti della violenza messa in scena. L’esibizione spettacolare degli omicidi diventa così una critica spietata ai meccanismi della comunicazione, che godono della stessa brutalità che condannano, generandone altrettanta. Attaccando un certo tipo di sadismo true crime, Stone ragiona sulla responsabilità sociale della criminalità, a partire dal momento in cui è diventata notizia, show, intrattenimento di un presente sempre più annoiato dove, come dice Mickey: “Se non ti ammazzo di che parla la gente?”.
Rusty il selvaggio, di Francis Ford Coppola (1983)
Dopo il successo de Il padrino, la carriera di Francis Ford Coppola ha costantemente registrato diversi alti e bassi, tanto da ritrovarsi ad accettare di girare alcuni film solo per il bisogno di risanare i propri debiti. Avvenne così, negli anni Ottanta, che per compensare il fallimento al botteghino di Un sogno lungo un giorno, si avvicinò all’adattamento cinematografico di un romanzo di Susan Eloise Hinton: I ragazzi della 56° strada. La pellicola ebbe un tale successo di critica e pubblico che Coppola decise di rimaneggiare un altro romanzo di Hinton per il progetto successivo: Rusty il selvaggio, che pur configurandosi come una sorta di seguito ideale, abbandonava la nostalgia con cui i protagonisti de I ragazzi della 56° strada sognavano di emulare le esperienze delle bande che li avevano preceduti, per farsi rappresentazione della perdita dell’innocenza. Entrambi i film possono infatti essere visti come un unico racconto sul tema della giovinezza, che Coppola avrebbe poi continuato a esplorare.
Pur mantenendo il tema degli scontri tra bande giovanili, in Rusty il selvaggio il regista cercò una sintesi tra le esigenze commerciali e la propria considerazione di arte. Così, nel mettere in scena il legame tra Rusty James, leader sedicenne di una piccola gang, e suo fratello, noto come “quello della moto”, per cui vive in adorazione, Coppola sceglie di tornare a uno stile espressionista, in bianco e nero, dove gli unici elementi a colori sono dei piccoli pesci all’interno di un acquario. Il titolo originale infatti – Rumble Fish, pesci combattenti – allude proprio al tentativo del ragazzo più grande di liberare i pesci per dar loro un maggior spazio vitale. È a questi pesci, gli unici elementi a colori, che Coppola delega la metafora più importante del film: come le band si attaccano tra loro – e più in generale come fa l’uomo con i propri simili – così i pesci si aggrediscono l’un l’altro, e a volte aggrediscono persino la propria immagine riflessa nella vasca.
I protagonisti, allo stesso modo, sentono il bisogno di compiere un atto eroico per distinguersi ed emergere, ma sono destinati a fallire, perché costretti a scontrarsi con i vincoli della realtà circostante. Nel mondo interiore dei personaggi, il cui racconto è spesso onirico e surreale, si alternano i conflitti e il desiderio di ribellione tipici di questo genere a un senso opprimente di fine, mentre si attende qualcosa a cui non si sa dare nome, l’epilogo di un’epoca o il termine di un fenomeno, come quello delle bande giovanili decimate dalla droga, ma soprattutto di un certo modo di fare cinema, di cui lo stesso Coppola, a lungo, si è sentito ostaggio.
The Funeral, di Abel Ferrara (1996)
C’è un passaggio, appena dopo la metà degli anni Novanta, in cui la poetica cinematografica di Abel Ferrara si lega profondamente alla sua formazione religiosa e a quella del suo sceneggiatore, Nicholas St. John – personaggio misterioso dalla biografia sconosciuta, se non per le dichiarate origini italiane. The Funeral, uscito nel 1996, è il film più rappresentativo di questo passaggio: dalla violenza fine a sé stessa, rappresentata come evento e non come punto di partenza di un processo di estetizzazione o riflessione, Ferrara inizia a indagare il conflitto morale che la accompagna, penetrando sempre più in profondità nel concetto di giustizia elaborato dal cattolicesimo.
Nella New York degli anni Trenta Ray (Cristopher Walken) e Chez (Chris Penn) Tempio si riuniscono in occasione del funerale del fratello minore, Johnny (Vincent Gallo), che si crede esser stato ucciso dalla famiglia di gangster rivale. La cerimonia permette ai protagonisti di ripercorrere la loro storia familiare e i loro crimini, inserendosi nello spazio di una riflessione teologica che porta Ferrara a sondare i contrasti interni a temi come la vendetta, il perdono, l’orgoglio e la predestinazione. Ray, in particolare, è determinato a consumare la sua vendetta a ogni costo, nonostante gli avvertimenti profetici della moglie – personaggio fondamentale nel film, che rappresenta l’apertura a una possibilità di redenzione. Da una delle scene iniziali, in cui Johnny guarda un noir con Humphrey Bogart al cinema per poi riapparire dentro alla bara nella sequenza successiva; fino alla sparatoria finale, che si configura come una vera e propria esperienza mistica di espiazione, l’attenzione rimane sempre fissata sull’analisi psicologica dei personaggi. Ogni scelta, ogni azione, ogni dialogo è funzionale a sviluppare una fenomenologia della brutalità, in tutta la sua articolazione di effetti e conseguenze, alla costante ricerca di una forma di giustizia in cui risolversi.
Killing Zoe, di Roger Avery (1994)
Mentre a Parigi si festeggia la commemorazione della presa della Bastiglia, una gang criminale tenta di rapinare l’unica banca aperta durante il giorno di festa nazionale. Zed (Eric Stoltz) è stato chiamato appositamente dagli Stati Uniti per le sue doti di scassinatore di casseforti. Proprio la sera prima del suo arrivo in città fa sesso con una prostituta, Zoe (Julie Delpy), mentre in televisione danno Nosferatu, di Murnau, creando inconsapevolmente la coincidenza che cambierà tutto l’incastro di eventi in cui verrà coinvolto appena poche ore dopo. Il primo lungometraggio di Roger Avery – ideato dopo aver sceneggiato Una vita al massimo e Pulp Fiction insieme a Quentin Tarantino, che compare qui in veste di produttore esecutivo – è una costante sovrapposizione di tempi imprevedibili, scomposti e convulsi; perché altrettanto inaspettate sono le azioni della banda di tossici criminali in cui Zed entra a far parte, così come le scelte del loro capo, Eric (Jean-Hugues Anglade), mosso dal solo desiderio di assicurarsi la prossima dose di eroina, o crack, o qualsiasi altra droga.
Le scene si muovono sui bit della colonna sonora firmata dal gruppo Tomandandy, a metà tra la techno e la trance, che alimenta l’atmosfera caotica e malsana da cui ogni movimento dei personaggi sembra venire immediatamente risucchiato. Gli unici che provano a staccarsi dal disordine nichilista, privo di qualsiasi punto di riferimento morale, sono Zed e Zoe, che si oppongono a un universo abbruttito, fatto di serie di mitragliate e lacci emostatici tranciati, dove il denaro conta più della vita – e non solo per i rapinatori, ma per tutti.
La caratterizzazione dei personaggi è sottolineata anche dal fatto che ognuno di essi ha una “sua” Parigi: dalle cantine sotterranee, putride e stagnanti di Eric, fino alla dimensione più superficiale degli spazi urbani, che Zed deve tentare di raggiungere con l’aiuto di Zoe, partendo dal caveau della banca che sta rapinando, nel momento in cui si rende conto che il colpo è destinato a fallire. Ad aprire un varco nel contesto sconfitto e svuotato da cui gli altri personaggi non riusciranno mai a emanciparsi, infatti, è l’evoluzione del loro legame, che alla fine del film non appare più come un semplice incontro dettato dal caso.
Onora il padre e la madre, di Sidney Lumet (2007)
C’è un vecchio detto irlandese che recita “Che tu possa arrivare in paradiso mezz’ora prima che il diavolo si accorga che sei morto”. È un augurio – per chi confida nella grazia – di poter accedere alla beatitudine ben oltre la vita terrena, ed è il punto di partenza del titolo originale dell’ultimo film di Sidney Lumet: Onora il padre e la madre, realizzato nel 2007, pochi anni prima della sua scomparsa, e il cui titolo originale è appunto Before the Devil Knows You’re Dead, prima che il diavolo scopra della tua morte. Nella pellicola, però, a nessuno viene concesso di arrivare in anticipo.
Andy ed Hank sono due fratelli disperatamente bisognosi di soldi. Il primo è dipendente dall’eroina, il secondo fa fatica a pagare gli alimenti. La soluzione è una: rapinare la gioielleria dei loro genitori, tanto c’è il premio assicurativo che può aiutarli, e farla franca. La vicenda, che si svolge nell’arco di una settimana, viene ricostruita componendo pezzi avanti e indietro nel tempo. Mano a mano che il quadro si fa più definito, emerge un senso più grande del dramma di un crimine che andrà male: quello famigliare, in cui nessuno è salvo.
È la destrutturazione di ciò che a lungo è stato considerato il nucleo fondante della società occidentale – il più sano, forte e valido –, la sua demolizione. Il fatto che peccatori, vittime e colpevoli, ognuno a modo proprio, facciano parte di un unico nucleo conferisce alla pellicola parte del fatalismo soffocante proprio delle antiche tragedie greche. Nel suo sviluppo senza compromessi, nella tensione e nella paura crescenti, Onora il padre e la madre ruota attorno alle idee ataviche di male e peccato, nonostante, al di là del richiamo biblico del titolo italiano, l’intera storia si svolga in un contesto laico. Il male non ha origine però da un principio assoluto, da una qualche fonte esterna all’essere umano, ma piuttosto da elementi propri del suo carattere: l’avidità, l’invidia, la stupidità e la vanità. È un male che spurga dalle piccole tristezze e meschinità ordinarie e che si replica di continuo, di volta in volta più o meno intensamente.
“Il mondo è un posto malvagio”, dice a un certo punto un anziano commerciante di gioielli seduto in un negozio buio da qualche parte tra i quartieri di Manhattan. “Alcune persone ci guadagnano e altre ne sono distrutte”. Per Lumet, però, esiste solo la distruzione.
Festen, di Thomas Vinterberg (1998)
Quando nel 1995 Lars Von Trier ideò il manifesto di Dogma 95, un movimento nato per tornare a un cinema lontano da effetti speciali e investimenti miliardari, i registi che vi aderirono giurarono di astenersi dal ottenere crediti per le proprie opere e di non utilizzare mai oggetti di scena. Ogni cosa doveva essere usata e ritratta nel luogo in cui la si poteva trovare. I primi – e unici – film a essere realizzati seguendo il decalogo furono Idioti di Lars Von Trier e Festen di Thomas Vinterberg, usciti quasi contemporaneamente nel 1998, anche se il secondo violò un punto, dato che fu acquistato un abito appositamente per girare.
Vinterberg ha raccontato di aver avuto quest’idea partendo dalla testimonianza – poi dimostratasi falsa – di un uomo noto solo come “Allan” e apparso in un programma radiofonico danese, in cui rivelava di aver subito molestie dal padre durante una cena di famiglia. Così, Festen, indagando l’ipocrisia borghese e ponendo lo spettatore di fronte alle disgrazie e alla vergogna altrui, parte dalle celebrazioni del sessantesimo compleanno del patriarca della famiglia Klingenfeldt, che durante la serata viene accusato di pedofilia, così come di aver provocato il suicidio di una figlia.
Al di là di rappresentare il movimento fondato con von Trier – anche per l’uso della camera a mano – il film rimane il ritratto essenziale di un tema affrontato a lungo nel cinema e non solo: il disvelamento graduale di cosa si nasconda sotto la superficie borghese. Il tema centrale di Festen sembra concretizzarsi proprio nell’accanimento messo in atto per preservare le strutture di potere corrotte, così come l’incapacità di molte famiglie di fare i conti con le proprie problematiche, nascondendole dietro una facciata perbenista. Il suo ritratto del paternalismo, del diritto patriarcale del capofamiglia a cui tutto sembra concesso, il razzismo e i tabù dell’incesto e della pedofilia si legano a una scrittura allo stesso tempo autentica e assurda, capace di mostrare senza filtri la verità.
Prendendo un archetipo narrativo classico e trattandolo attraverso il decalogo di Dogma 95, Vinterberg ha realizzato una pellicola composta da una miscela di tradizione e avanguardia, un’opera senza tempo, capace ancora oggi di mettere a nudo il sentimento che ci permette di elaborare il male, anche con dolore e disgusto.
Crash, di David Cronenberg (1996)
Nel 1944 Frida Kahlo ha dipinto La colonna rotta, un autoritratto realizzato a seguito di una delle tante operazioni a cui si è sottoposta dopo l’incidente che ha segnato la sua vita. Nell’immagine, Kahlo è sorretta da un palo metallico, che sostituisce la sua schiena spezzata, ed è lacerata sul petto, aperta in due, divisa in pezzi di carne che sembrano stare insieme solo grazie alla protesi che la attraversa dal collo ai piedi. L’elemento artificiale crea dunque una correlazione diretta tra dolore fisico, sofferenza psicologica e intrusione del macchinico nella natura umana: la stessa che governa il film Crash di David Cronenberg. La protesi di Gabrielle, una delle protagoniste della trama – indimenticabile nella locandina del film –, infatti, allude tanto quanto quella dipinta da Kahlo a una mutilazione che prima di essere fisica è esistenziale. Crash ruota attorno alla perversione di un gruppo di personaggi che trova nell’autolesionismo la via per raggiungere l’orgasmo e gli attribuisce un forte valore destabilizzante nei confronti di una società nichilista e narcotizzata alle emozioni.
Le escoriazioni, le cicatrici e gli incidenti ripresi in tempo reale aprono dunque un varco nella situazione di paralisi collettiva, diventando addirittura arte per uno dei personaggi, Vaughan, che dedica la sua vita a scattare fotografie alle vittime degli schianti e alle loro ferite. Il suo archivio – fatto di migliaia di close up che isolano le lesioni fino a reificarle completamente, tanto da renderle, nella loro totale dissociazione dal corpo, quasi una forma di design epiteliale – esprime una nuova visione della fisicità e della sessualità, fondata sull’esplorazione delle possibili geometrie erotiche che uniscono uomo e macchina.
La riflessione di Cronenberg sulla società dei consumi, infatti, riguarda anche la creazione di un sistema di simulacri e la loro amplificazione mediatica, che ci immerge in una realtà finta, ma sempre più credibile e difficile da distinguere rispetto all’originale. Il corpo martoriato e frammentato all’infinito nei collages diventa così il simbolo più compiuto della morsa artificiale del presente, che cristallizza tutto in una fredda oggettività, dagli stati d’animo, al dolore, fino al sesso.
La neve cade sui cedri, di Scott Hicks (1999)
Dopo l’attacco di Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, negli Stati Uniti si diffuse un forte senso anti-nipponico, tanto che nel febbraio dell’anno successivo, l’allora presidente Franklin D. Roosevelt autorizzò l’internamento di centinaia di migliaia di persone nippo-americane. Tutti coloro che vivevano lungo la costa del Pacifico degli Usa vennero trattenuti in quelli che si chiamavano “Campi di reinsediamento del periodo di guerra”. Si trattava di una misura finalizzata ad allontanare le persone – perlopiù cittadini statunitensi – dalle loro case per portarle, senza alcuna informazione, in campi di isolamento, dove la sopravvivenza non era facile. I servizi igienici erano in comune e le famiglie venivano spesso divise e costrette a vivere in condizioni di sovraffollamento. Quando, quasi quarant’anni dopo, il presidente Jimmy Carter condusse un’indagine per valutare se sussistessero effettive prove di slealtà per giustificare l’internamento poco o niente fu trovato e il governo fu sollecitato a pagare un risarcimento ai sopravvissuti. È su questo tratto di Storia perlopiù dimenticato che si innesta La neve cade sui cedri, che il regista Scott Hicks adattò nel 1999 dall’omonimo romanzo di David Guterson, pubblicato pochi anni prima.
Negli anni Cinquanta, Carl, un pescatore americano, viene trovato morto impigliato in una delle sue reti. Apparentemente sembra un incidente ma ha una ferita alla testa che fa pensare a un omicidio. Della sua scomparsa viene accusato Kazuo, un giovane pescatore che aveva avuto contrasti con lui e la sua famiglia, e che diventa il capro espiatorio dell’odio americano verso la comunità giapponese. Ishmael, giornalista locale, potrebbe avere le prove per scagionarlo, ma il suo amore passato per l’attuale moglie di Kazuo, Hatsue, complica le cose. Nella continua alternanza di flashback e presente – mostrati in una varietà di stili, dal colore, alla desaturazione, arrivando al bianco e nero e alla grana da pellicola –, Hicks mescola giallo e sdegno morale, ritratto corale e destini individuali. Le scene più potenti sono quelle che risalgono alla Seconda guerra mondiale e che mostrano i giapponesi venire interrogati, allontanati, ammassati e scortati fin nei campi di isolamento. Nella stessa corte in cui Kazuo è interrogato, è un pubblico ministero a far emergere quanto il pregiudizio americano sia ancora persistente e legato allo stereotipo razzista degli asiatici come traditori. Tutto intorno, la neve che cade vorticosa, la nebbia, il gocciolare della foresta, rendono il senso del luogo concreto, trasformandolo in un paesaggio interiore. È attraverso la sua riflessione incantata, infatti, che La neve cade sui cedri riesce a trasformare una singola storia nel racconto universale di un dramma collettivo, evocando uno scenario dove la memoria incombe solenne sul presente.
Le Grand Bleu, di Luc Besson (1988)
Le Grand Bleu di Luc Besson ha aperto il Festival di Cannes del 1988 ed è stato un enorme successo di pubblico in Francia. La sua distribuzione in Italia, però, è stata bloccata per ben quattordici anni, in seguito a una causa per diffamazione intentata da Enzo Maiorca, apneista siciliano più volte detentore del record mondiale di immersione. Maiorca, infatti, si sarebbe riconosciuto nel personaggio di Enzo Molinari – interpretato nel film da Jean Reno – definendo l’insieme delle sue caratteristiche come “un condensato di modi e di vizi che la peggior tradizione straniera attribuisce all’uomo italiano: insolenza, arroganza, complesso di superiorità, gallismo, aria di sufficienza, sciovinismo”. La versione del 2002 è stata dunque tagliata di quindici minuti rispetto a quella originale per ottenere il consenso dell’atleta.
L’aria strafottente di Enzo – che incarna senza dubbio un certo tipo di cinismo malinconico all’italiana – dai modi falsamente galanti e autenticamente sfacciati, si oppone diametralmente alla personalità dell’altro protagonista, Jacques Mayol, interpretato da Jean-Marc Barr, che cita – stavolta direttamente – la figura di uno dei più grandi apneisti francesi di sempre, più riservato, sensibile e autentico nel mostrare alcuni aspetti molto intimi di sé. Il rapporto tra i due è segnato da una passione condivisa, quella per il mare, che li porta a costruire una profonda stima reciproca, attraversata da non detti e confessioni mancate; ma anche da grandi differenze e rivalità, che non permettono loro di andare mai davvero d’accordo.
I protagonisti si sfidano durante diversi campionati di apnea – proprio come è accaduto nella realtà a Mayol e Maiorca – spostando sempre un po’ più in là il limite di discesa nell’abisso, fino a mettere a rischio la loro stessa vita. Ma il film è soprattutto un tentativo di esplorare e comprendere la figura di Jacques – intessuta di riferimenti autobiografici cari al regista, legati all’infanzia trascorsa tra Grecia e Jugoslavia in alcuni Club Mediterranée a osservare l’ambiente marino con i genitori che facevano gli istruttori di immersione – che, scena dopo scena, si dimostra sempre più alieno all’esistenza che gli uomini vivono sulla terraferma e sempre più attratto dal mare, a cui riconosce di appartenere. A trattenerlo dall’ascoltare le pulsioni ataviche che lo spingono a ricongiungersi con l’universo marino, infatti, non basteranno né gli appigli offerti dal suo amico-rivale, né l’amore che lo lega a Johanna (Rosanna Arquette).
Kaos, di Paolo e Vittorio Taviani (1984)
Ormai quasi trent’anni fa i fratelli Taviani hanno deciso di rappresentare le “novelle contadine” di Pirandello, traducendone i contenuti in quattro episodi – L’altro figlio, Mal di Luna, La giara, Requiem – incorniciati da un prologo e da un epilogo. Il singolare realismo lirico dell’autore è stato traslato nella dimensione cinematografica in modo da ritrarre ancora il mondo al contempo epico, elegiaco, doloroso e superstizioso degli ultimi della Terra, degli umiliati e degli offesi, che sono nati inchiodati alle zolle pietrose e ai campi arsi della Sicilia. Kaos unisce con estrema potenza le personali confessioni di debolezza dei protagonisti (una madre che pensa i figli l’abbiano dimenticata; un uomo che, pur non trasformandosi mai in lupo, soffre di una forma di licantropia; una comunità che non può seppellire i suoi morti), a una sensazione cosmica di esclusione, isolamento e marginalizzazione. I paesaggi siciliani sono surreali, quasi post-apocalittici e restituiscono l’idea di un luogo ai confini del mondo, lontano da qualsiasi rappresentazione inflazionata e semplicistica che riduce a Il Gattopardo e a Il padrino una terra tutt’altro che compatta e uniforme, sia dal punto di vista geografico che culturale.
Le figure che compaiono in Kaos – soprattutto i protagonisti del racconto La giara, interpretati dagli indimenticabili Franco e Ciccio – non aderiscono al cliché – a tratti toccante – dello straccione rassegnato alla sua condizione. Al contrario, provano ad affrancarsi – a loro modo e senza mai riuscirci davvero – dalla condizione di “figli del Caos”, da intendersi “non allegoricamente, ma in giusta realtà”, come scrisse lo stesso Pirandello in un frammento autobiografico apparso nel 1933 sulla Nuova Antologia.
Gli episodi sono attraversati dalla truffa e dal tradimento, ma anche dalla rivendicazione di diritti irrinunciabili e, a volte, dalla negazione di una realtà troppo dolorosa: tentativi di evasione che non possono che risolversi in fallimenti, ma vanno a fortificare una componente di ostinazione e di fierezza, ripresa dai registi con sguardo pasoliniano. Questa resistenza, che impedisce all’usurpazione di radicarsi ancora più profondamente alla base della società, è la vera protagonista del film.
The Breakfast Club, di John Hughes (1985)
Ci sono alcuni film che pur venendo distrutti o non capiti dalla critica riescono a raggiungere un enorme successo grazie al passaparola del pubblico. Non è una questione che si risolve nella qualità o nei tecnicismi, ma nella loro capacità di farsi manifesto di una generazione. The Breakfast Club, il secondo film di John Hughes, è riuscito proprio in questo, diventando uno dei suoi capolavori più riconosciuti e dando voce al malessere degli adolescenti americani degli anni Ottanta (ma non solo), costretti tra le pressioni dei loro genitori e il sentirsi ignorati.
“Questo è un film che rimarrà in giro per molto tempo. E anche se non dovesse diventare fonte di guadagno, sappiate che l’importante è aver documentato una piccola parentesi della vita che normalmente non viene mai mostrata sullo schermo”, dirà Hughes agli attori dopo la prima proiezione della pellicola. Il film, infatti, unisce cinque liceali che, per punizione, sono costretti a passare il sabato in biblioteca, sorvegliati dal preside mentre svolgono il tema dal titolo: “Chi sono io?”. Questi ragazzi non hanno niente in comune e hanno il forte desiderio che continui a essere così. Poi le ore si allungano, la biblioteca si fa opprimente, e in cinque iniziano prima a scambiarsi qualche parola e poi a creare una sorta di terapia di gruppo, in cui si aprono sulle proprie passioni, genitori, verginità e popolarità.
Pur mettendo in scena, a una prima impressione, i personaggi stereotipati dei teen movie americani – la reginetta, il secchione, la ribelle, l’atleta – Hughes utilizza tutti gli strumenti a disposizione del cinema per tirar loro fuori un’emotività di cui si vergognano e la cui espressione viene non solo resa in termini molto realistici, propri di chi ha ascoltato con cura la generazione a cui si rivolge, ma che risulta anche innovativa rispetto alle rappresentazioni dell’epoca. John, Andy, Brian, Claire e Allison, non hanno solo paura di non riuscire a realizzarsi, ma di non esistere affatto. Il film, infatti, oltre che sulle pressioni sociali per raggiungere modelli irraggiungibili, ruota attorno al dolore e all’incomprensione che nascono dalle gerarchie sociali, in particolare quando si è giovani. Le persone popolari non possono interagire con quelle al di fuori della propria cerchia sociale, mentre queste non hanno altra scelta che creare i propri gruppi ai margini, seguendo quel sistema per cui ciascuno riconosce il proprio posto nel mondo e lo accetta, pensando di non poterlo cambiare.
In questo, anche se la sua adolescenza non era stata così travagliata, con The Breakfast Club Hughes è riuscito in qualche modo a comprendere il malessere interiore di una certa generazione di figli, realizzandone un ritratto spesso goffo, indulgente e involontariamente divertente, ma sicuramente in grado di portarne in superficie l’angoscia – quella, soprattutto, di essere dimenticati.
Mignon è partita, di Francesca Archibugi (1988)
Mignon è una mean girl ante litteram, ma francese. Molto ricca, egoista, sofisticata, altezzosa e restia ai contatti con il mondo vero. Quando è costretta a trasferirsi per l’estate dagli zii romani, la famiglia Forbicioni – in cui Stefania Sandrelli interpreta il ruolo della madre – entra in contatto con una vita molto diversa da quella che faceva a Parigi, sentendosi ancor più aliena, se non per il rapporto con il cugino Giorgio. Mentre leggono due edizioni diverse di Grandi speranze, di Charles Dickens, Giorgio si innamora di Mignon, anche se il suo rimane un sentimento silenzioso, che non ha il coraggio di rivelarsi. Il legame fra i due si configura come un racconto di formazione, che dà ad Archibugi l’occasione di esplorare l’analfabetismo emotivo di un adolescente, quando diventando adulto inizia a prendere coscienza dei limiti del suo microcosmo familiare e a sperimentare le asimmetrie dei rapporti.
Giorgio scopre i sentimenti non corrisposti nel momento in cui Mignon si dimostra incapace di intercettare le loro – presunte – affinità elettive; percepisce la fine dell’amore fra i suoi genitori, frustrati dalla precarietà di un sentimento che non ha mantenuto le sue promesse; affronta la malattia della sua professoressa di latino che lo mette di fronte all’ irreversibile.
C’è un momento in cui ci rendiamo conto, con grande delusione, che la nostra famiglia è fatta di individui assolutamente ordinari, in cui non sempre è possibile riporre la fiducia cieca dell’infanzia, al di là di quanto ci amano; o proprio perché ci amano più di quanto sentiamo di poterci meritare. Archibugi riesce a cogliere l’avvenire di questo passaggio, con le sue conseguenze sul nostro modo di relazionarci agli altri, nei gesti estremi di Mignon e Giorgio: una bugia detta senza farsi scrupoli per tornare a casa al più presto; un tentativo di fuggire dalla tristezza sfinente che ci si è appena scoperti capaci di provare.
Departures, Yōjirō Takita (2008)
Departures – basato sull’autobiografia di Aoki Shinmon Coffinman: The Journal of a Buddhist Mortician e vincitore dell’Oscar come miglior film straniero nel 2009 – è un’opera sull’esercizio spirituale del saper lasciare andare e del portare a termine, o meglio ancora, dell’accompagnare alla fine, con un gesto e un’attitudine esistenziale simili a quelli dei musicisti quando suonano l’ultima nota di una composizione che termina con un pianissimo.
Per portarla a compimento, il regista, Yōjirō Takita, ha impiegato ben dieci anni, per comprendere a pieno i sentimenti che accompagnano la morte nella società contemporanea giapponese (e non solo). Nonostante la morte sia uno degli eventi più importanti della nostra vita, infatti, oltre che fulcro di importanti riti collettivi, come viene mostrato nel film, essa è ancora considerata allo stesso tempo uno dei nostri più grandi tabù culturali.
Nella storia, che ha inizio da uno di quei cambiamenti drammatici che ci spingono quasi a credere nel destino, la fine della professione del protagonista – Daigo (Masahiro Motoki) – viene vista come una sorta di silenziosa rinascita, così come la morte viene intesa dalla cultura zen come uno dei tanti viaggi possibili. Così, Daigo, da violoncellista disoccupato, tornando nel suo paese d’origine, si riscopre tanatoesteta, impegnato nell’antica tradizione giapponese del nōkan, la vestizione rituale dei defunti.
Eppure, anche in questa cultura di stampo buddhista, intorno alla morte e a questa professione si sono incrostati enormi pregiudizi, che fanno leva sulle emozioni più ataviche delle persone. Daigo viene quindi considerato con disprezzo, come se toccando i morti si contaminasse con qualcosa di indicibile e vergognoso. Lui, però, sempre più appassionato a questo lavoro – che gli riesce sorprendentemente spontaneo e lo porta a entrare in contatto con un’importante parte di sé – non demorde e piuttosto va incontro all’abbandono da parte dei suoi cari, che non riescono ad accettare questa sua passione.
Saranno proprio due morti a riavvicinare Daigo ai suoi affetti, al futuro e alla vita, permettendogli di risanare il suo stesso passato attraverso il coraggio necessario all’andare incontro a ciò che spaventa e alla profonda cura dell’Altro, senza paura di perdere se stessi, cedendo anzi una parte di ciò che si è all’incontro autentico con l’esistenza.