Da quando l’omicidio di George Floyd ha smosso nuovamente le coscienze delle persone bianche occidentali, molte si sono chieste in che modo poter contribuire alla causa antirazzista ed essere delle valide alleate. Il cinema, che da sempre – quand’è di qualità – non è solo puro intrattenimento, ma un mezzo di esplorazione e conoscenza, su questo versante diventa un valido strumento da affiancare alla lettura e all’ascolto delle persone nere, per approfondire le cause, gli eventi storici e le esperienze individuali e quotidiane che ancora oggi nutrono le trame del razzismo, spesso anche molto sottili.
- Un grappolo di sole (1961)
Adattato per il cinema dal regista canadese Daniel Petrie nel 1961, Un grappolo di sole (A Raising in the Sun) è tratto da uno spettacolo teatrale di Lorraine Hansberry, la prima donna nera a debuttare a Broadway come drammaturga. Scelto per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, il film è ambientato a Chicago negli anni Cinquanta, dove la famiglia afroamericana Younger si trova a dover decidere cosa fare di un rimborso dell’assicurazione sanitaria da diecimila dollari.
La storia si incentra sulle lotte finanziarie, la mancanza di opportunità e la discriminazione, ostacoli che ancora oggi impediscono alle persone nere di raggiungere i propri obiettivi, e su come il sogno americano sembrasse raggiungibile solo attraverso l’assimilazione alla maggioranza bianca. È l’eterno divario tra ricchi e poveri. Per usare le parole di Walter Lee, uno dei protagonisti, “tra chi guadagna e chi è sfruttato”. Il tentativo di raggiungere la sicurezza finanziaria e salire la scala sociale richiede ancora uno sforzo notevole per le persone afroamericane. Si stima che una famiglia nera guadagni in media 36mila dollari l’anno contro gli 80mila di una bianca, mentre anche a parità di livello di educazione le persone nere vengono pagate il 20% in meno rispetto ai colleghi bianchi.
- Il colore viola (1985)
Quando viene inquadrata per la prima volta, Celie sta correndo con sua sorella Nettie attraverso un campo di fiori viola, è ancora una bambina, non sappiamo nulla di lei. Presto scopriamo però che è incinta, abusata dal proprio padre, ed è già il secondo bambino che dà alla vita e da cui è costretta a separarsi. La sua sarà una vita di soprusi e castighi, vittima prima del patrigno e poi del marito, Albert. Tratto dal romanzo omonimo con cui la scrittrice statunitense Alice Walker sarà la prima afroamericana a vincere nel 1983 il Premio Pulitzer e il National Book Award, Il colore viola (The Color Purple) si concentra sulla condizione femminile degli inizi del Novecento nel Sud degli Stati Uniti, dove essere donna e nera equivaleva a non contare niente. È grazie al supporto reciproco che Celie e Nettie riescono a sopravvivere. Interrogandosi sul significato fino allora estraneo di felicità, Celie arriva a una presa di coscienza che le consentirà di elevarsi al di sopra di ogni stereotipo che fino ad allora le era stato imposto dagli uomini della propria vita. Il film, diretto da Steven Spielberg, vede l’esordio attoriale di Oprah Winfrey e Whoopi Goldberg, che per il ruolo di Celie vinse un Golden Globe e fu candidata agli Oscar, in cui la pellicola era nominata in ben dieci altre categorie. Il colore viola riflette sugli omicidi razziali, la deviazione generata dalla violenza, il predominio della cultura bianca e il potere maschile nella comunità nera e lo fa tramite il tentativo di una donna di resistere alla crudeltà del quotidiano e di emanciparsi dal dramma del presente.
- Mississippi Burning. Le radici dell’odio (1988)
Nella notte tra il 21 e il 22 giugno 1964, James Earl Chaney, Andrew Goodman e Michael Schwerner, attivisti del movimento civile per i diritti degli afroamericani, vennero assassinati a colpi di arma da fuoco da alcuni membri del Ku Klux Klan con la connivenza dello sceriffo della contea di Neshoba, in Mississippi, dove i tre si erano recati per convincere la comunità nera a iscriversi ai registri elettorali. È da questo fatto di cronaca realmente accaduto che parte la pellicola diretta da Alan Parker e interpretata da Gene Hackman, Willem Dafoe e Frances McDormand.
In quegli anni tutto il Sud degli Stati Uniti, tra cui appunto il Mississippi, era segnato da episodi di violenza e terrore. Gli afroamericani, sulla scia delle parole di Martin Luther King, lottavano ovunque per i propri diritti e la propria dignità, cercando di scardinare la divisione razziale che i bianchi davano per necessaria. L’iter giudiziario fu complesso e continuamente ostacolato dai giornali locali. Nonostante negli anni successivi l’FBI incriminò 21 persone, i tre ragazzi hanno ottenuto giustizia solo nel 2005, quando l’ex capo del Klan Edgar Ray Killen è stato condannato per omicidio preterintenzionale. Nonostante molti abbiano criticato la pellicola di Parker per la mancanza di un vero protagonista nero e per uno spirito un po’ paternalista, Mississippi Burning venne candidato in quattro categorie ai Golden Globe e in sette ai premi Oscar, di cui vinse solo quello per la fotografia. Secondo alcuni fu proprio il successo del film che portò il Congresso americano ad approvare nel 1989 una risoluzione che onorasse la memoria dei tre attivisti: “Ci dispiace profondamente per quello che è successo qui 25 anni fa”, ha dichiarato Dick Molpus, segretario di stato del Mississippi, scusandosi pubblicamente a nome delle istituzioni durante un servizio commemorativo a cui parteciparono i parenti delle vittime.
- Fa’ la cosa giusta (1989)
Accusato di istigare alla violenza – probabilmente dallo stesso tipo di persone che oggi dicono ai neri come dovrebbero opporsi agli abusi e al sistema bianco che subiscono – Fa’ la cosa giusta (Do the Right Thing) prende le mosse da una frase di Malcom X ed esplora come la disuguaglianza razziale in una comunità prevalentemente afroamericana porti al conflitto. Ispirandosi a un fatto di cronaca del 1986, in cui quattro ragazzi neri furono picchiati e uno di loro morì in una rissa in una pizzeria gestita da italoamericani nel Queens, la pellicola, definita dal New York Times “la prova viva, vivace e affascinante dell’arrivo di un nuovo grande talento del cinema”, segna l’esordio di Spike Lee e mostra le dinamiche alla base del razzismo, enfatizzando alcuni cliché, e portando l’attenzione sul razzismo istituzionalizzato tutt’oggi esistente. Il monito con cui il film si apre – “Wake up”, svegliati – resta ancora una grande lezione da imparare, rendendo l’opera un mezzo per aprire una finestra su un Paese che ha storicamente svalutato la vita delle persone nere.
- American History X (1998)
Diretto da Tony Kaye e interpretato da Edward Norton e Edward Furlong, American History X racconta la storia vera di Frank Meeink, uno dei maggiori esponenti del suprematismo bianco. Protagonista è Derek, un giovane skinhead neofascista uscito di prigione visibilmente cambiato, e del fratello minore Danny, che ne vuole seguire le orme. Durante gli anni passati in carcere Derek si è però reso conto di quanto tutto ciò in cui credeva non fosse altro che un fanatismo dannoso, e cerca in tutti modi di far abbracciare a Danny i nuovi ideali di comunità in cui crede. Il regista, che alla fine delle riprese ha tentato di dissociarsi dalla pellicola per gli eccessivi cambi al copione apportati da Norton, per riportare le due traiettorie temporali usa un trucco formale molto efficace: in bianco e nero viene raccontata la vita sregolata e il passato di Derek, in un mondo in cui non esisteva che l’opposizione noi-loro a indicare il giusto e lo sbagliato, mentre le immagini diventano a colori nel seguire il presente e il tentativo di cercare un equilibrio.
American History X riflette la nascita di fenomeni quanto mai odierni, come il sovranismo e l’alt right trumpiana: l’emulazione di valori familiari e l’incapacità di metterli in discussione, la scarsa conoscenza e apertura all’altro, l’affidarsi a un’ideologia che non permette a nessun’altra idea di attecchire. “Ascoltatemi bene, dovete aprire gli occhi. Ci sono più di due milioni di immigrati clandestini che dormono sulla nostra terra stanotte,” dice Derek in una scena del film, “Qui si tratta della vostra vita e della mia. Di onesti lavoratori americani che oggi vengono ignorati e trattati di merda perché il loro governo si preoccupa più dei diritti costituzionali di un gruppo di persone che non hanno la cittadinanza”. Più di vent’anni dopo, potrebbe questo potrebbe ancora essere il discorso di uno qualunque dei nostri tanti politici.
- La 25ª ora (2002)
“Sentivamo che girare un film come questo a New York, così poco tempo dopo l’attacco, ci imponeva di doverlo realizzare anche come se fosse un commento alla città dopo l’11 settembre. Per questo abbiamo trasformato New York in un personaggio della storia, trattandola come una città ferita, popolata da persone che cercano semplicemente di vivere le proprie vite”, racconta Spike Lee descrivendo La 25ª ora (The 25th Hour). Il film, ispirato all’omonimo libro di David Benioff, riflette infatti sull’America segnata dagli attacchi terroristici ed è il primo a mostrare Ground Zero. Ricca di riferimenti cinematografici – da Taxi Driver a C’era una volta in America – la storia critica il sentimento di emarginazione, la cultura del sospetto, e il ricorso a miti nazionalisti figli della società capitalista, ma descrive anche la malinconia che caratterizza l’umore degli Stati Uniti dopo il crollo delle Torri Gemelle. La narrazione segue le ventiquattro ore che precedono l’arresto di Monty Brogan, spacciatore di droga fidanzato con Naturelle, una ragazza di origini portoricane. Incastrato da una soffiata e restio a collaborare con la polizia, Brogan viene condannato a sette anni di carcere per detenzione di droga e decide di passare l’ultima notte in compagnia della ragazza e di alcuni amici, nonostante l’amarezza che finisce per contagiare tutto il gruppo. La 25ª ora è quindi l’ora della verità, quella in cui decidere se arrendersi alla vita o diventare padroni del proprio destino, e quella che il padre di Brogan spera possa servire al figlio per rimediare ai propri errori.
- La nascita di una nazione. Il risveglio di un popolo (2016)
Ambientato nella Virginia del 1831, La nascita di una nazione (The Birth of a Nation) racconta la vita di Nat Turner, schiavo che diventerà un grande predicatore grazie all’educazione religiosa ricevuta da bambino e che verrà utilizzato dal proprio padrone per sedare “con la voce di Dio” le rivolte degli altri oppressi. Il titolo è un riferimento ironico all’omonimo The Birth of a Nation, film muto del 1915 diretto da David Wark Griffith, che descrive la nascita del Ku Klux Klan. La pellicola originale attirò numerose proteste, soprattutto da parte della NAACP, perché inneggiava alla creazione di gruppi bianchi e li incitava ad attaccare le persone nere. Quello girato da Nate Parker nel 2016, prende invece le mosse da un episodio realmente accaduto: per 48 ore Nat, ribellandosi al proprio padrone, guida una rivolta in alcune piantagioni della Virginia. L’elemento più originale della pellicola, oltre a raccontare la biografia di un personaggio praticamente sconosciuto, è quello di sottolineare come le sacre scritture possano sempre essere utilizzate sia per fini pacifici che sanguinari, giustificando i gesti più atroci. The Birth of a Nation è un documento indispensabile per sondare non solo il brutale passato americano, ma anche le sue contraddizioni presenti. Un ambizioso tentativo di correggere le contraddizioni della storia all’interno delle convenzioni della narrativa mainstream.
- Prossima fermata – Fruitvale Station (2013)
Forse la pellicola più rappresentativa delle proteste di queste settimane in America, Fruitvale Station racconta la storia vera di Oscar Grant, un afroamericano ucciso la notte del 1 gennaio 2009 dopo essere stato fermato per una rissa. Il poliziotto che ha sparato, condannato a due anni, ha scontato solo metà della pena e si è giustificato dicendo di aver confuso la pistola con il taser elettrico. Tutta la Bay Area di Oakland, in California, venne sconvolta dalle proteste, perché ad assistere a quella morte, come avvenuto per George Floyd, erano stati anche molti passeggeri della metropolitana, che hanno filmato e condiviso le immagini del pestaggio. È proprio con questi frame amatoriali che inizia il film di Ryan Coogler, al suo debutto in un lungometraggio, in cui l’unico suono che sentiamo è la flebile voce di Grant che si chiede come mai spetti proprio a lui quella sorte, padre di una bambina a cui badare. “Poteva capitare a me quello che è capitato a Oscar. Ho più o meno la stessa età, non sono californiano come lui, ma come lui sono cresciuto in una inner city, uno di quei ghetti urbani abitati da afroamericani. Non è stato difficile identificarmi con lui”, ha dichiarato Michael B. Jordan, che impersona il protagonista. Il regista ha scelto di raccontare le ultime 24 ore di Grant e di farlo senza trasformare l’uomo in un simbolo, polarizzandolo verso il bravo o il cattivo ragazzo, ma riportando tutte le sfumature di una vita difficile e l’umanità che ne può derivare: faticava ad avere un lavoro regolare ed era stato in carcere per spaccio, ma stava cercando di rimediare agli errori del passato per dare un futuro alla sua bambina e alla sua compagna. Né santo né eroe, insomma, solo un’altra vittima della violenza gratuita e radicata alle basi della polizia americana.
- 12 anni schiavo (2013)
A far conoscere a Steve McQueen la storia vera alla base di 12 anni schiavo (12 Years a Slave), tramandata in un libro di memorie scritto nel 1853, fu sua moglie Bianca. Solomon Northup, protagonista del memoir e del film, era un uomo nero nato libero ma rapito a Washington D.C. e venduto in Louisiana come schiavo. Il libro veniva pubblicato in un momento in cui negli stati americani del Nord la schiavitù era già illegale, mentre in quelli del Sud stava iniziando a sgretolarsi: non per motivi umanitari, ma perché i bianchi si erano accorti che economicamente era più conveniente assumere persone solo per farle lavorare piuttosto che “mantenere” uno schiavo anche in periodi in cui il lavoro scarseggiava. Riproducendo i ritmi e la routine del lavoro, con scene di estrema crudeltà, insieme all’inquietante intimità tra oppressi e oppressori, 12 anni schiavo riflette la condizione degli afroamericani nel periodo precedente alla guerra civile, senza risparmiare nulla di ciò che realmente accadde e dando una descrizione dettagliata di quello che era la quotidianità di queste persone in quell’epoca. Prima pellicola di un regista nero a vincere l’Oscar come Miglior film – che già con Shame e Hunger aveva dato prova delle proprie capacità – e grande debutto di Lupita Nyong’o, celebrata con quello alla Miglior attrice non protagonista, l’uscita dell’opera in Italia produsse non poche polemiche. Sulle locandine realizzate dalla casa di distribuzione italiana, infatti, venivano promossi soltanto gli attori bianchi, come Brad Pitt e Michael Fassbender, che pur avendo parti minori erano stati posti in primo piano, relegando il protagonista Chiwetel Ejiofor a una posticino nell’angolo in basso.
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- Il diritto di opporsi (2019)
Ispirato al processo a Walter McMillian, nero ingiustamente accusato di aver ucciso una ragazza, Just Mercy, Il diritto di opporsi ripercorre la storia dell’avvocato difensore Bryan Stevenson, fondatore della Equal Justice Initiative e professore alla New York University School of Law, che fin da giovane ha scelto di combattere contro le ingiustizie. La colpa di McMillian è infatti più legata al colore della propria pelle che a un reale coinvolgimento nell’omicidio. Al fianco di Stevenson ci sarà l’attivista bianca Eva Ansley, che aiutandolo a individuare prove che scagionino McMillian, si ritroverà a essere ostacolata dalla comunità bianca dell’Alabama, colpevole di aiutare un nero. Secondo i dati del Sentencing Project, nonostante gli afroamericani siano il 13% della popolazione americana, rappresentano circa il 40% dei detenuti e sono incarcerati a un tasso cinque volte superiore a quello dei bianchi. Decisiva alla carcerazione di queste persone è anche la povertà e Just Mercy, rappresentando il razzismo nelle sue espressioni più quotidiane, riflette il sistema bianco a cui non importa perseguire la verità, ma solo alimentare l’idea che le persone afroamericane vadano fermate e rappresentino un pericolo. In questo senso, il film diretto da Destin Daniel Cretton con protagonisti Michael B. Jordan, Jamie Foxx e Brie Larson, si unisce agli altri film che evidenziano il razzismo endemico ai vari piani del sistema giudiziario statunitense, come Il buio oltre la siepe e When They See Us.
- Il diritto di opporsi (2019)