Alla fine la pioggia, almeno in alcune regioni, è arrivata tra gli ultimi giorni di marzo e i primi di aprile, ma purtroppo il problema della siccità nel Nord Italia a cui stiamo assistendo è troppo grave per potersi risolvere con precipitazioni così limitate. Un problema così evidente che in provincia di Mantova dalle secche del Po è emerso un semicingolato tedesco della Seconda guerra mondiale, mentre in provincia di Alessandria la secca ha portato alla luce i resti di un antico villaggio medievale che l’alluvione del 1808 aveva sommerso, facendolo sparire – si credeva – per sempre.
Dopo la siccità, in alcune parti d’Italia, il maltempo è arrivato con fenomeni violenti, come ha fatto a Palermo, dove il 31 marzo sono stati necessari oltre 80 interventi dei vigili del fuoco per mettere in sicurezza alberi, tettoie, lamiere e pensiline pericolanti, mentre il vento ha addirittura abbattuto una parete in cartongesso del terminal passeggeri dell’aeroporto Falcone e Borsellino del capoluogo siciliano, facendo scattare il piano d’emergenza con disagi ai passeggeri e cancellazione dei voli.
Mentre gli effetti dannosi di questo tipo di fenomeni atmosferici sono chiari, le piogge che negli ultimi giorni hanno riguardato diverse regioni da nord a sud della Penisola probabilmente non saranno sufficienti a placare l’aridità dei terreni, perché quello di cui c’è davvero bisogno con urgenza è un piano di adattamento climatico e un sistema di interventi strutturali per adeguare innanzitutto (ma non solo) il settore agricolo agli effetti di una crisi climatica che si dimostra anche più rapida, intensa e pericolosa del previsto.
Vale, per esempio, per il Veneto, una delle regioni italiane che sta più soffrendo la siccità dell’inverno anomalo che ci siamo lasciati alle spalle: qui, le piogge della settimana scorsa non sembrano sufficienti a salvare la prossima stagione agricola; nella regione, infatti, le riserve idriche sull’area del Piave sono ferme al 50% della capienza contro un valore che solitamente in questa stagione è tra il 60 e il 70%, mentre nel bacino del fiume Brenta il volume è arrivato al 35% contro il 60% di un anno “normale”. Prima che le ultime piogge dessero al fiume un po’ di respiro, la foce del Po era stata invasa dalle acque del mare, con effetti altrettanto disastrosi sulle coltivazioni, danneggiate dall’eccessiva salinità. Qui, l’ultimo anno simile era stato il 2017, con un intervallo di tempo molto ridotto tra i due periodi gravemente siccitosi e, quindi, particolarmente preoccupante. In Lombardia, invece, già a inizio marzo la riserva idrica totale era calata di oltre l’8% rispetto alla fine del mese precedente, per effetto dell’assenza di piogge e di neve; il risultato è stata la ridotta consistenza di tale riserva – calcolata sommando la quantità d’acqua dei grandi laghi a quella degli invasi artificiali, e aggiungendo l’equivalente idrico della neve –, meno della metà di quella media del periodo 2006-2020. E questa è la situazione in Lombardia, la regione italiana con più disponibilità d’acqua.
Questa siccità è il risultato dell’interazione fra la naturale riduzione delle precipitazioni al di sotto della media e i fabbisogni idrici per i diversi usi, che allo stato attuale del nostro sistema economico-produttivo sono elevatissimi, a partire da quelli del settore agricolo, che assorbe circa il 40% del fabbisogno idrico totale. Gli scenari più estremi – appena scongiurati dalle recenti piogge – vedono la trasformazione del deficit idrico temporaneo, che è più o meno fisiologico, in un deficit permanente, con il risultato di trasformare la siccità in vera e propria aridità.
Il problema in vista della stagione calda non è scongiurato ed è frutto, a sua volta, di un inverno insolitamente secco, in cui le correnti atmosferiche occidentali provenienti dall’Atlantico, invece di portare le perturbazioni sulla regione mediterranea, sono state bloccate da un anomalo – soprattutto per la sua durata prolungata – anticiclone di tipo subtropicale, associato al meteo soleggiato; di conseguenza sono mancate le consuete nevicate alpine – come dimostrano le rilevazioni dei preoccupanti livelli delle nevi nell’inverno 2021-2022 – che sarebbero servite a compensare la carenza d’acqua in pianura, specialmente al momento del disgelo primaverile, che si verificherebbe all’incirca adesso se solo ci fossero nevi da sciogliere. Una stagione di questo tipo è arrivata, per di più, dopo un’estate come quella scorsa, segnata da temperature letteralmente da record – con i 49 gradi sfiorati in Sicilia – e potrebbe precederne un’altra analoga; anche l’ultimo autunno – tipicamente una stagione molto umida – è stato segnato dalla mancanza di piogge. Soprattutto nell’agricolo Nord-Ovest, ma anche al sud, il problema è reale, con le precipitazioni che sono calate del 40% dal 2005 a oggi, a fronte di un aumento delle temperature medie di un grado. In un contesto del genere è chiaro che la siccità non si risolve con precipitazioni saltuarie, a meno che queste non si protraggano sul lungo periodo.
Ora, non è affatto scontato che si verifichino le due condizioni necessarie a salvarci dalla crisi delle colture, ossia che altre piogge si ripetano nel corso del mese e che queste non siano di carattere temporalesco – né tantomeno in forma di fenomeni atmosferici estremi come troppo spesso accade – ma costanti, moderate e prolungate per giorni. Il terreno secco e compatto che risulta da una siccità anomala, infatti, non potrebbe assorbire tutta l’acqua di un temporale violento, per cui questa sarebbe in eccesso e potrebbe ristagnare creando danni di segno opposto alle colture, che così soffocherebbero per mancanza di ossigeno.
Le preoccupazioni per il settore agricolo sono già reali: il presidente della Coldiretti di Alessandria, Mauro Bianco, prevede per quest’anno un calo almeno del 40% sulle produzioni agricole proprio a causa degli effetti locali della crisi climatica, un colpo drammatico all’economia della provincia a più intensa produzione cerealicola d’Italia. Queste previsioni si inseriscono, per di più, nel contesto di una congiuntura economica che a livello internazionale è segnata dai forti aumenti dei costi delle materie prime – a partire proprio dal grano – dovuti anche alle ragioni geopolitiche, non ultima l’invasione russa dell’Ucraina, uno dei più grandi “granai” d’Europa con i suoi 30 milioni di tonnellate esportati in sei mesi.
Ora il rischio è che non ci sia acqua sufficiente per le coltivazioni padane di agosto, come quella del mais che è la più esigente d’acqua, di cui ha bisogno proprio d’estate, perché in condizioni drammatiche di siccità tutta l’acqua dolce a disposizione viene convogliata nell’irrigazione dei campi – si pensi che l’agricoltura oggi impiega oltre il 70% della risorsa idrica, mentre solo piccole percentuali spettano al settore industriale e al sistema dell’acqua potabile – lasciando in secca i fiumi, con un danno ecologico per tutte le zone umide e le aree circostanti, fauna locale compresa. Meno problemi dovrebbe averli il riso, che ha bisogno d’acqua per lo più tra aprile e maggio, quando ce n’è a sufficienza per effetto del disgelo dei (pochi) ghiacciai. Poiché una parte consistente delle colture della Pianura Padana sono al servizio degli allevamenti, Legambiente sottolinea chiaramente che non possiamo più permetterci di mantenere livelli così intensi di zootecnia, perché – anche senza considerare gli altri problemi ambientali del settore – non abbiamo più possibilità di approvvigionamento di foraggio per il bestiame. E questo anche considerando che una parte consistente del mais usato in Italia per i mangimi viene importato dall’Europa orientale, mentre la soia arriva dall’America meridionale, dove peraltro è responsabile di una drammatica deforestazione.
Se nel breve periodo si può solo sperare in altre piogge, è chiaro che un intervento di adattamento è urgente per affrontare una condizione che, data la crisi climatica, bisogna imparare a considerare sistemica: come ha spiegato a Repubblica il responsabile scientifico di Legambiente Damiano Di Simine, devono cambiare gli ordinamenti colturali, specialmente in Lombardia, che sono storicamente fondati su una grande disponibilità d’acqua che non corrisponde più alla realtà. È anche a questo che ci si riferisce quando si parla dell’urgenza di adottare strategie di adattamento alla crisi climatica. Per esempio, per far fronte agli scenari peggiori per l’agricoltura ci sarebbe estremo bisogno di nuovi bacini in pianura e nelle zone collinari, una migliore e più moderna infrastruttura idrica su tutto il territorio e un sistema di depurazione e riuso delle acque per scopo agricolo, assieme a una più diffusa e capillare consapevolezza sull’uso dell’acqua. Nel frattempo, c’è il rischio che questa alternanza di periodi prolungati senza pioggia ed eventi atmosferici più intensi e violenti diventi la nuova normalità: anche a questo bisogna prepararsi, mettendo in atto strategie concrete di conversione ecologica, a partire dal settore alimentare e agricolo.