Dall’inizio del 1900 il numero di animali che popolano il Pianeta si è più che dimezzato. Circa un milione di specie animali e vegetali rischiano l’estinzione, secondo il rapporto del 2019 del panel dell’Onu sulla biodiversità Ipbes: un numero senza precedenti nella storia dell’umanità. L’estinzione di vertebrati, registrata da biologi e zoologi nell’ordine di alcune decine di specie tra la fine del Settecento e l’Ottocento, ha poi interessato centinaia di specie nel secolo scorso, con un’accelerazione drastica soprattutto negli ultimi 50 anni. Accorpando i dati di una popolazione di 16.704 vertebrati appartenenti a 4.005 specie (circa il 6% del totale stimato di mammiferi, uccelli, rettili, anfibi e pesci), il Living Planet Index del 2018, principale indice statistico dello stato di biodiversità sulla Terra, ha tracciato una perdita del 60% dei vertebrati tra il 1970 e il 2014. L’unica eccezione vale per l’uomo, che continua a moltiplicarsi: dagli anni Settanta gli esseri umani sono raddoppiati dai quattro ai quasi otto miliardi e si avviano verso il traguardo dei dieci miliardi nel 2050. Nel mentre è scomparsa la metà dei vertebrati, con un ritmo che fa già parlare di “sesta estinzione di massa”, la prima dall’avvento dell’uomo.
Per una larga parte della comunità scientifica siamo noi la causa di questo disastro. Con la presenza dell’uomo sulla Terra, l’estinzione degli altri animali è diventata, secondo le misurazioni del biologo della statunitense Duke University Stuart Pimm, almeno mille volte più veloce rispetto ai normali ritmi naturali. L’ultima moria di biodiversità procede a una “perdita media di specie vertebrate fino a cento volte più alta” del tasso delle precedenti estinzioni di massa, ha ricostruito una ricerca del 2015 sull’impatto delle attività umane sul fenomeno, pubblicata su Science Advances. La scomparsa della fauna, denuncia lo studio di Gerardo Ceballos e di altri biologi di università statunitensi e del Messico, risulta “bruscamente aumentata negli ultimi 200 anni (in corrispondenza con il sorgere della società industriale)”. Il calo significativo delle specie è parallelo al climax di dispersione di anidride carbonica nell’ambiente e allo sfruttamento sempre più intensivo dei suoli.
In una ricerca del 2017, pubblicata sulla rivista Pnas della United States National Academy of Sciences, Ceballos e altri scienziati hanno confermato le loro tesi sull’“annientamento biologico” in corso: “Il tasso di perdita di popolazione” emerso tra il 1900 e il 2015 dalle analisi di 27.600 specie vertebrate, tra cui 177 di mammiferi, “è estremamente alto”. Si tratta di “quasi duecento specie estinte negli ultimi cento anni”, “circa due l’anno”, annotano gli scienziati, “mentre il 32% del totale vive una fase di declino. Il tasso di estinzione di background dei vertebrati, prevalente cioè negli ultimi 2 milioni di anni, sarebbe di duecento specie perse in 10mila anni”. La conclusione è che la “sesta estinzione di massa sia in atto e sia più grave del previsto”.
Il declino maggiore, tra i vertebrati, secondo i dati dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) interessa quelli più a contatto con l’acqua: circa il 30% dei pesci, il 25% degli anfibi e il 20% dei rettili sono a rischio. Anche un quarto dei mammiferi e un ottavo degli uccelli è minacciato. E se il panda è stato il primo animale protagonista di battaglie ambientali anche efficaci, ogni habitat ha i suoi simboli che scompaiono. Gli orsi bianchi al Polo Nord e i pinguini all’Antartide, tra i ghiacci surriscaldati dall’effetto serra; le tigri ridotte a meno di 4mila dai 100mila esemplari di inizio Novecento per via del bracconaggio. In Italia la caccia di frodo decima orsi bruni, lupi e aquile: nel nostro Paese 313 specie sono segnalate a rischio nella Animal Endangerment Map, con un aumento del 160% rispetto al 2010. Gli Stati Uniti (Paese con il maggior numero di specie animali in pericolo, 1.283) e il Centro e il Sud America (con l’89% in meno dei vertebrati negli ultimi dieci anni) portano il continente americano a essere il più colpito dall’estinzione in corso. La situazione è critica anche in Australia, dove dallo scorso settembre i circa 6.3 milioni di ettari di boschi e di praterie divorati dalle fiamme hanno portato, secondo una stima dell’Università di Sydney, all’ecatombe di circa 480 milioni di animali solo nel Nuovo Galles del Sud. Nella stessa regione il ministero dell’Ambiente australiano ha registrato la morte di oltre 8mila koala, circa il 30% della popolazione totale.
L’emorragia di biodiversità che si è appena consumata questo inverno rappresenta uno dei fenomeni più evidenti “dell’accelerazione di estinzione di specie animali” denunciata da Ceballos. Più in generale, tutte le forme di vita (non solo vertebrate e anche quelle vegetali) stanno subendo la distruzione dei loro ecosistemi. Conoscere anche in modo indicativo quanti organismi viventi popolino effettivamente il Pianeta è impossibile, considerata la comparsa di forme di vita sempre nuove e spesso sconosciute, soprattutto in ambienti tropicali ed equatoriali e nelle profondità oceaniche: il range di tutte le possibili specie è per questo molto vago e oscilla, secondo i dati raccolti dal Wwf, tra i due milioni e i cento milioni. Si è però calcolato matematicamente che il loro tasso annuo di estinzione varia tra lo 0,01% e lo 0,1%: di conseguenza, oggi è molto probabile che in media scompaiano ogni anno alcune migliaia di specie viventi.
Nonostante ciò, per i negazionisti dell’emergenza climatica – del tutto marginali nella comunità scientifica internazionale – le estinzioni di massa ci sono sempre state e sarebbero fenomeni del tutto naturali. La prima si verificò 450 milioni di anni fa, tra il periodo geologico Ordoviciano e il Siluriano. La terza, durante il Permiano (circa 250 milioni di anni fa), fu la più grave e portò alla scomparsa di oltre il 95% delle specie animali. La quinta – avvenuta 65 milioni di anni fa in pieno Paleocene – è ricordata per l’estinzione dei dinosauri, insieme al 76% degli esseri viventi di allora. In effetti non ci sarebbe niente di strano in una nuova estinzione di massa rispetto alla cadenza temporale registrata dalle precedenti. Anche la velocità nella scomparsa della fauna non indica di per sé che la colpa sia dell’uomo: le estinzioni di massa si caratterizzano come periodi geologicamente brevi di stravolgimenti della biodiversità. Innescati da cambiamenti naturali estremi causati, nella larga maggioranza dei casi, da un forte riscaldamento globale. Anche milioni e milioni di anni fa il livello eccessivo di anidride carbonica nell’atmosfera e negli oceani si impennò più volte.
Tuttavia, la sesta estinzione di massa per una parte significativa della comunità scientifica è già iniziata e per un’altra quella imminente presenta un’anomalia che è strettamente legata all’uomo. Stavolta l’accumulo di emissioni di CO2 oltre la soglia di tollerabilità del Pianeta è molto più accelerato rispetto all’aumento delle temperature di milioni di anni fa che fu provocato, ipotizzano i geologi, da eventi naturali terrestri o astronomici straordinari come attività vulcaniche o tettoniche di portata intensa e prolungata o la caduta di asteroidi. “Oggi gli oceani assorbono carbonio in un ordine di grandezza più veloce anche rispetto al peggior caso di estinzione di massa, alla fine del Permiano. Eppure gli esseri umani immettono CO2 nell’atmosfera solo da poche centinaia di anni, mentre per le eruzioni vulcaniche o gli altri sconvolgimenti che in passato avevano innescato i grandi caos ambientali sono occorsi per decine di migliaia di anni”, nota il geofisico del Mit di Boston Daniel Rothman, nel suo studio del 2019 sull’andamento del ciclo del carbonio durante gli ultimi 540 milioni di anni.
La ricerca del Mit ha ricostruito che quattro delle cinque precedenti estinzioni di massa furono causate dal superamento dei valori limite di anidride carbonica nell’atmosfera e poi negli oceani. La “soglia critica” di carbonio identificata da Rothman, oltre la quale scatta l’effetto domino che termina nelle estinzioni di massa, è 310 gigatonnellate di emissioni di CO2 negli oceani. Per lo scienziato ci siamo già molto vicini: il limite sarà raggiunto “entro la fine del secolo”, se il tasso di emissioni globali di CO2 non sarà arginato. “Nei 10mila anni successivi” al 2100 si creerà poi uno squilibrio degli ecosistemi che culminerà “potenzialmente nella sesta estinzione di massa”. Rothman è però meno catastrofista di Ceballos e di altri colleghi, concedendo all’uomo ancora alcuni decenni per rimediare.
La sesta estinzione di massa dei prossimi millenni, forse già di questo, potrebbe insomma rivelarsi della stessa portata delle precedenti e non maggiore, ma in ogni caso sarà devastante per il 75% – 95% della biodiversità del Pianeta. Considerato le ripercussioni letali della quinta estinzione per i dinosauri, è probabile che la specie umana rischi di fare la loro stessa fine. Per questo la sesta estinzione viene detta anche estinzione dell’Antropocene, l’era geologica influenzata direttamente dall’uomo e dal suo potere di sfigurare la natura e decimare il regno animale. Almeno per la nostra sopravvivenza è fondamentale, secondo le misurazioni di Rothman, evitare di toccare la soglia massima di carbonio assimilabile fissata per il 2100. Anche se le conseguenze potrebbero non essere immediate, il loro strascico avrà effetti così devastanti da non poterci permettere il lusso di continuare a ignorare gli avvertimenti della comunità scientifica.