“Un libro dev’essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi,” scriveva Franz Kafka in una lettera al suo amico di scuola e poi critico d’arte Oskar Pollak nel 1903. Se i libri devono servire a qualcosa, in effetti servono a cambiarci almeno un po’ la vita. Ma i libri sono anche luoghi in cui ritrovarsi, amici capaci di rispondere alle nostre domande, di distrarci dai nostri dispiaceri, e di farci riflettere sui nostri limiti e sulle nostre mancanze, portandoci molto lontano dai nostri confini. Forse è proprio per questo che la passione di Sebastian Copeland, tra i più grandi esploratori contemporanei, è nata dai libri. “Non avendo un papà presente,” mi racconta, “Ero in cerca di guide e modelli. Ero timido, solitario, introspettivo. Passavo molto tempo a leggere, soprattutto libri di avventura che mi facevano sognare, in particolare quelli di Jules Verne e Jack London. Cercavo un eroe in cui immedesimarmi, e quando trovai le biografie di alcuni alpinisti per me l’archetipo dell’eroe divenne quello dell’esploratore polare”.
Oltre a essere un esploratore, Sebastian Copeland è anche un fotografo e uno tra i più importanti testimoni dell’emergenza climatica. È infatti impegnato da anni nel portare l’attenzione mediatica sulle gravi problematiche generate da essa, facendo della sensibilizzazione riguardo alla necessità di agire un cambiamento la sua missione. Vincitore di numerosi premi e autore di importanti libri di fotografia, ultimo dei quali POLAR EXPLORATIONS: To the Ends of the World, negli ultimi vent’anni ha viaggiato soprattutto in Artide, Antartide e Groenlandia, raggiungendo entrambi i poli a piedi. Da tempo è inoltre ambassador per Audi, apripista mondiale della transizione ecologica per quanto riguarda l’automotive. Anche all’ultima Design Week di Milano con l’installazione “The Domino Act” del designer Gabriele Chiave nell’ambito dell’Audi House of Progress 2023 Audi ha portato sotto gli occhi dei visitatori il concetto di azione collettiva per invertire la rotta, riportando dati impressionanti rispetto ai risultati positivi ottenuti grazie all’innovazione della propria filiera produttiva, legata al ciclo chiuso di diversi elementi. Anche Sebastian era presente, e insieme a Fabrizio Longo, Brand Director Audi Italia, e a Gabriele, ha condiviso la sua visione del futuro, parlando di circolarità, progresso ed emozioni, e di quanto questi tre aspetti siano collegati.
Quando lo intervisto si sta occupando degli ultimi preparativi della sua prossima partenza in Groenlandia sponsorizzata da Norrøna – brand di attrezzatura sportiva e abbigliamento outdoor norvegese fondato nel 1929 da Jørgen Jørgensen – dove visiterà un villaggio composto da 12 abitanti, tra cui una sola bambina. Gli chiedo cosa significhi essere, oggi, un esploratore: “Tra l’inizio del Novecento e oggi ci sono state tantissime scoperte che hanno portato a grandi differenze, per quanto riguarda i trasporti, la tecnologia, le comunicazioni, ciascuno di questi aspetti ha cambiato profondamente il concetto stesso di esplorazione. Generalmente i primi esploratori passavano in missione un anno e mezzo, due anni. La missione in sé e per sé magari durava due o tre mesi, ma era necessario tantissimo tempo per raggiungere l’area, passarci tutta la stagione invernale, preparare la zona, eccetera. Non c’erano telefoni satellitari, gps… inoltre, all’epoca si stava davvero andando a scoprire il mondo. Oggi non stiamo più scoprendo niente per la prima volta. Così è cambiata anche la terminologia che descrive l’esplorazione, ma anche il suo stesso fine ultimo. Credo che l’esplorazione sia un’azione tanto esterna quanto interna. Due aspetti dell’esplorazione moderna sono l’imparare a riconoscere i propri limiti estremi e invitare altre persone a seguirti nel tuo viaggio di scoperta, anche da lontano”.
Il deserto – sia di sabbia, d’acqua, di ghiaccio o di pianura – è lo spazio della mancanza. Nel deserto mancano tutti e tutto. Ti ci ritrovi solo, costretto a confrontarti con la natura e con il tuo io più profondo, mettendo alla prova i tuoi limiti e quindi la tua finitezza. “Esplorare è un movimento interno, intimo, filosofico, perché il livello di difficoltà esistenziale è sempre uguale, ci sono sì alcuni elementi tecnici che lo alleggeriscono, ma quando sei solo là fuori, sui tuoi sci, e devi andare dal punto A al punto B, le difficoltà sono sempre le stesse, le stesse tempeste, lo stesso freddo tremendo. Quando sei lì, sei solo di fronte ai tuoi limiti, e penso che esplorare questi limiti oggi rappresenti gran parte del significato della parola ‘esplorazione’, ancora più che in passato. Al tempo stesso, ora abbiamo la possibilità di avvicinare un pubblico sempre più ampio, incoraggiandolo a stringere una relazione molto più diretta con i luoghi che esploriamo. Grazie ai social media, a una comunicazione diretta quotidiana dei tuoi progressi con la base, alle fotografie, ai video. Questo apre una diversa finestra di partecipazione pubblica. Oggi l’esplorazione è molto più tangibile che cento anni fa. All’epoca la società era emotivamente colpita dal viaggio dell’esploratore, ma poi ciò che viveva era solo la sua partenza, e nel migliore dei casi il suo ritorno. Ciò che l’esploratore aveva visto poteva raggiungere il mondo solo attraverso i libri, magari qualche disegno. Invece oggi le persone possono esplorare attraverso qualcun altro un luogo in cui non andranno mai. Questa diventa quindi un’opportunità per conoscere meglio l’ambiente, soprattutto quello più lontano da loro, e di esplorare se stessi, anche solo con l’immaginazione, aspirare a qualcosa che magari sembra impossibile”.
Non c’è niente e nessuno che conservi la memoria del mondo meglio del ghiaccio, scrive lo scrittore francese Erik Orsenna nel suo Briser en nous la mer gelée. (Rompere il mare gelato dentro di noi). “Il ghiaccio è il primo indicatore del fatto che il mondo si stia trasformando. È il più facile da notare. L’aumento di un grado nelle regioni polari ha enormi implicazioni su tutto il resto del pianeta. Ovviamente non significa che il ghiaccio inizi improvvisamente a sciogliersi per un grado in più, ma che l’estate diventi più lunga e l’inverno più corto. Il periodo di scioglimento aumenta e quello di congelamento si accorcia. Così, l’accumulo di ghiaccio si riduce, ma anche lo spessore diminuisce”.
Uno studio del 2016, “Uneven onset and pace of ice-dynamical imbalance in the Amundsen Sea Embayment”, pubblicato su Geophysical Research Letters da un team guidato da Hannes Konrad, del Centre for polar observation and modelling della School of Earth and Environment dell’Università di Leeds, ha riscontrato che sia l’acqua calda dell’oceano che scioglie la parte galleggiante del ghiacciaio, il che poi permette al ghiacciaio di fluire più facilmente perché non è più trattenuto dalla piattaforma di ghiaccio galleggiante. Dato che il ghiacciaio scorre più velocemente, comincia a diventare più sottile. Se non ci sono abbastanza neve e ghiaccio che si accumulano più in alto per compensare, i ghiacciai perdono sempre più la loro massa mentre fluiscono verso il mare. “Questo è molto facile da notare nel Mar Glaciale Artico”, continua Sebastian. “Il Polo Nord, infatti, è composto soprattutto da una banchisa di ghiaccio che galleggia sull’oceano, c’è pochissima terra, solo qualche isola. In inverno la superficie dei poli aumenta e in estate si riduce e così via, come se pulsasse. Ma in inverno si sta espandendo sempre meno, e nel tempo si sta assottigliando sempre di più. Ciò comporta grandi rischi per gli esploratori, perché se il ghiaccio cede non puoi più tornare indietro e nessuno può venirti a recuperare. Sono andato per la prima volta al Polo Nord nel 2009, ci ho riprovato nel 2017 e nel 2021, ma temo che non sia più possibile muoversi con sicurezza sul ghiaccio, perché si sta sciogliendo sempre di più”.
Il famoso esploratore polare di inizio Novecento Jean Baptiste Charcot aveva chiamato almeno quattro delle sue navi “Pourquoi-pas?”, “Perché no?”, e in effetti questa domanda che non nasconde una certa arroganza – dato che ci sarebbero tantissimi motivi per appunto non farlo – sintetizza bene il sentimento che spinge gli avventurieri ad andare oltre il loro conosciuto, ma Sebastian sfata subito questo mito. “Non si deve pensare che gli esploratori vadano incontro alla morte, anche se vanno incontro a dei rischi, gli esploratori non esagerano mai, non vogliono morire, è tutto calcolato al millimetro, per quanto possibile, come per qualsiasi sport estremo. Le missioni vengono organizzate in base a complicate previsioni. Ma oggi prevedere è diventato sempre più difficile. Non siamo suicidi, siamo sportivi”.
Ci sono delle persone che riescono a trovare subito la loro verità. Per altri è necessario viaggiare e viaggiare, perché partono da una fuga. Questi non si ritrovano che per un caso fortunato. “Io sono cresciuto a Parigi, ho passato molto tempo in Inghilterra, il Paese di origine di mia madre, ma a sedici anni ci siamo trasferiti a New York. Mi ritrovai con un’enorme distanza tra il mondo della mia immaginazione, alle estreme frontiere del mondo, e la realtà urbana in cui mi trovavo. Prima di arrivare al mio sogno, che era raggiungere il Polo Nord, ho iniziato dall’atletica leggera, da ragazzo correvo, facevo dai 400 ai 10mila metri, poi ho fatto rugby, tennis, alpinismo. Mio padre anche se non era molto presente mi insegnò a sciare quando avevo tre anni, era un appassionato di vela quindi mi portava anche in barca fin da quando ero piccolo, a tredici anni mi insegnò a fare wind-surf. Lo sport mi ha permesso di ricongiungere la mia immaginazione al mondo”.
La fotografia per Sebastian è uno modo per parlare di ambienti a rischio e problemi legati al clima, ma è anche un modo per creare “un inventario sentimentale dello scorrere del tempo”, come ha detto in una sua mostra del 2018. Gli chiedo come la nostra percezione possa comprendere quanto sia maestosa la natura senza che il nostro senso di identità si spezzi, o se forse è necessario che si spezzi per abbracciare questa sproporzione. “Quando ci si trova circondati dalla natura si attiva una strettissima relazione, quasi mistica. Ma è un po’ come con la fede, devi volerlo. Oppure devi essere stato educato in quel senso. Io vivevo in città, ma volevo a tutti i costi raggiungere quel senso di comunione con la natura. Avevo bisogno di quell’esperienza, di quel legame. E costruendo quella relazione ho capito quanto i ritmi e i valori della nostra civiltà siano sfasati rispetto a questa ricchissima natura da cui dipendiamo. L’ambiente e l’economia oggi sono più in simbiosi che mai. E se è vero che l’economia è importante sono fermamente convinto che l’umanità non possa prosperare senza un ecosistema vivibile. Solo riconoscendo che è in corso una crisi sistematica possiamo mettere in atto tutte le pratiche a disposizione per arginare il problema che noi stessi abbiamo creato: un sistema di trasporti carbon neutral, una carbon tax, tecnologie di carbon capture e sequestration, sono tutti elementi fondamentali per salvare l’ambiente. Tutto il sistema produttivo deve azzerare le proprie emissioni, non solo alcuni ambiti. Dobbiamo riallinearci con i bisogni del pianeta, altrimenti non ce la faremo. Per farlo è necessario lo scambio di idee, che rende l’innovazione e lo sviluppo tecnologico ancora più interessante. Le grandi aziende devono interagire e sostenere le start-up, in modo da stimolare la ricerca e integrare nella loro filiera innovazione di alto livello. Un’altra cosa fondamentale sono le tecnologie open-source, in modo da diffondere nel minor tempo possibile le soluzioni migliori per ridurre l’impronta carbonica mantenendo prezzi vantaggiosi. Il progresso o è collettivo o non è progresso. Se tutti possono evolvere, tutti ne possono beneficiare. Altrimenti si sta solo sprecando tempo, tempo che stiamo sottraendo alla Terra”.
Amo considerare i limiti come confini, perimetri che danno forma, e che quindi possono sempre cambiare, cambiandoci. Per farlo, però, come sostiene Sebastian, è fondamentale conoscerli, mapparli, scoprirli, metterli alla prova, solo così è possibile una trasformazione, quella di cui abbiamo bisogno per salvare il nostro ecosistema e continuare a vivere.