Stiamo entrando nell'era in cui iniziare a considerare i rifiuti una risorsa - THE VISION

A leggere grafici e articoli che riportano i dati della crisi climatica, sembra che stiamo rivoltando il pianeta da dentro a fuori, capovolgendone il verso. Operazioni minerarie colossali che scavano la roccia, estraendo litio e altri metalli per costruire i dispositivi elettronici che acquistiamo e buttiamo a ritmi sempre più elevati; petrolio risucchiato dai fondali marini per alimentare la locomozione e la produzione, o per costruire la scenografia del nostro “futuro di plastica”, che rischia di essere letteralmente infestato da questo materiale e dai suoi derivati – realizzando la premonizione di una delle sequenze più famose del film Il laureato. Secondo una ricerca pubblicata su Nature, il peso di ciò che l’uomo ha costruito artificialmente ha superato quello della biomassa, ovvero la mole degli elementi viventi. Alcuni studi, inoltre, stimano che entro il 2080 le maggiori riserve di materie prime non saranno più sotterranee, ma in circolazione come prodotti già esistenti, pronti a estinguersi nella breve parabola che consente di consumarli, per poi diventare rifiuti. Ciò che stava all’interno, andrà a riempire lo spazio del mondo esterno, per accumulazione. E il risultato di questo “rovesciamento” planetario è ormai chiarissimo: i materiali e le molecole che estraiamo, trasformiamo, utilizziamo e poi gettiamo via quando non ci servono più non sono affatto destinati a scomparire, ma a muoversi salendo nell’atmosfera, nelle nuvole, che si riverseranno in pioggia, a diffondersi poi su terreni un tempo fertili, e a contaminare corsi d’acqua e oceani.

Oggi la crisi dei rifiuti è, senza dubbio, globale, perché oltre a estendersi a qualsiasi luogo del pianeta, ne ha intaccato ogni elemento naturale. Nonostante le evidenze – si stima, infatti, che ognuno di noi produca circa 1 kg di rifiuti al giorno e che entro il 2038 ne genereremo complessivamente circa 3,88 milioni di tonnellate –, continuiamo però a percepire i nostri prodotti di scarto come una questione marginale, sia letteralmente che in senso figurato. Li scarichiamo nelle periferie del mondo e del nostro immaginario come se non ci appartenessero, consegnandoli a quel luogo mitico chiamato “lontano”, tanto da non accorgerci che quello che abbiamo sempre trattato come un’esternalità, è ora diventata a tutti gli effetti un’internalità, un elemento che è riuscito a penetrare ovunque. Ora che i nostri rifiuti rappresentano una componente interna a ogni ecosistema e apparato digerente, dai microrganismi marini agli esseri umani, dovrebbero invece essere concepiti come una tematica di fondamentale importanza, portata al centro di ogni discorso su come le cose che progettiamo, produciamo e che poi abbiamo necessariamente bisogno di smaltire, impattino sull’ambiente così come sulla nostra salute e sulla qualità della nostra vita. Per riorientare la società e l’economia verso modi di produrre, consumare e vivere più sostenibili dobbiamo dunque iniziare a parlare degli scarti come una risorsa, comprendendo che questa enorme quantità di materiale apparentemente inutile diventa un vero e proprio rifiuto soltanto nel momento in cui non viene metabolizzata in modo significativo.

Secondo Max Liboiron, che lavora nel campo della ricerca geografica, è infatti proprio il paradigma di sovraproduzione in cui siamo inseriti ad aver creato la “strategia dello spreco” per autoalimentarsi, accorciando così la vita degli oggetti che possediamo e finendo per condannarne una quantità sempre più consistente all’insignificanza – dunque allo status di rifiuto. La foga consumistica che ci ha portato a essere circondati da circa 300mila oggetti soltanto nelle nostre case, e quindi semisommersi dai nostri stessi scarti, per Liboiron, è stata costruita con dedizione a partire dai primi passi della società industriale, modellando le nostre abitudini di consumo su strategie di vendita che vanno dall’obsolescenza programmata al fast fashion, fino a renderle indistinguibili dai nostri comportamenti spontanei, nonostante esse siano funzionali al mantenimento del sistema, più che alle esigenze di chi compra. Per estensione, oltre che ai prodotti ormai consunti che diventano spazzatura vera e propria, queste modalità di approccio usa-e-getta sono diventate la nostra risposta istintiva a praticamente tutte le cose che ci circondano, anche se non si tratta di oggetti in senso strettamente materiale. Con una riflessione simile a quella di Liboiron, lo storico dell’ambiente Marco Armiero ha infatti definito la nostra epoca “Wasteocene”: un momento storico dominato non solo dagli scarti, ma dalle relazioni di scarto, cioè da processi che mettono da parte sistematicamente anche gli esseri viventi, umani e non umani, i luoghi, i saperi e persino i ricordi, promettendoci di poterli facilmente sostituire – e ovviamente con qualcosa di meglio rispetto a ciò che già possedevamo.

La principale conseguenza di questa “ideologia della sostituzione” è che le relazioni di scarto finiscono per rafforzarsi sempre più, confluendo in un generale atteggiamento di distanziamento da ciò che riteniamo ormai vecchio, superato, o semplicemente poco interessante, spiacevole, fastidioso. Il mythos della crescita-a-ogni-costo – sia per quanto riguarda le strutture del sistema capitalistico, sia per i modelli aspirazionali a cui tendono a rifarsi gli individui che lo abitano – è dunque nutrito quotidianamente dalla falsa promessa di poter spingere all’esterno e allontanare tutto ciò che non vorremmo ci riguardasse, di rifiutarlo e per certi versi invisibilizzarlo, anche se solo in modo illusorio – come accade con molti aspetti del nostro universo psicologico o della nostra vita sociale, tra cui esperienze come il fallimento, la povertà o il confronto con le emozioni negative, che abbiamo trasformato in dei veri e propri tabù del nostro tempo. Relegare quello che non ci piace o non ci serve, dagli oggetti ai sentimenti, a una posizione di subordinazione, ci convince infatti di poterne automaticamente annullare i possibili effetti collaterali, a tutti i livelli della nostra esperienza.

Il punto, in una realtà in cui la spazzatura che produciamo è ormai diventata troppo ingombrante e pervasiva per esiliarla dal nostro campo visivo, consiste allora proprio nell’agire su queste relazioni di scarto, impedendo che un automatismo appreso dal sistema in cui siamo immersi ci distolga dal peso che la gestione dei rifiuti ha, a livello di conseguenze, nel plasmare il nostro futuro e le sorti del pianeta. Perché questo peso non solo esiste, ma è decisamente rilevante: basti pensare che i rifiuti solidi mal gestiti sono responsabili di oltre un terzo dell’inquinamento del suolo, che attualmente nei mari sono sommersi più di 150 milioni di tonnellate di plastica e che il metano generato dal settore di smaltimento e dalle discariche corrisponde circa al 20% delle emissioni globali, oltre a produrre sostanze tossiche che comportano gravi rischi per la salute umana. Si tratta dunque di un cambiamento che è innanzitutto ideologico, di prospettiva, capace di superare la relazione di scarto che abbiamo con i rifiuti, per renderla una relazione di conservazione, recupero, riutilizzo, mossa da una maggiore consapevolezza sul loro impatto e in grado di conferire loro un valore.

Quando i rifiuti, nella storia, sono stati considerati materia agente, capace di avere effetti negativi, ma anche di trasformarsi in una risorsa, le politiche riguardanti la loro gestione sono infatti risultate spesso più lungimiranti di quelle attuali dato che al momento, in Unione Europea, meno della metà dei rifiuti prodotti viene correttamente riciclata. Nel suo studio sull’Ungheria comunista la sociologa Zsuzsa Gille parla per esempio di come nel contesto della rivalità ideologica determinato alla Guerra Fredda, il Paese avesse creato un vero e proprio culto dei rifiuti, affidandosi a piani statali di riciclaggio e riutilizzo che contrastavano nettamente con le pratiche capitaliste. Questo sistema permetteva di re-immettere la quasi totalità della materia consumata sul mercato, accordando i ritmi della produzione ai tempi in cui i rifiuti riuscivano a iniziare la loro seconda vita, per eliminare gli sprechi.

Ancora, e più di recente, nel campo dell’architettura e del design ci sono stati movimenti come quello dell’up-cycling, elaborato a metà degli anni Novanta dall’ingegnere meccanico tedesco Reiner Pilz, che hanno contribuito a veicolare l’idea che un prodotto riciclato, proveniente da materiale di scarto, abbia un valore maggiore – legato alla sua “storicità e alle diverse fasi di lavorazione attraversate – e non minore rispetto agli oggetti realizzati ex-novo, dando vita a una modalità progettuale e creativa in cui nulla veniva mai davvero buttato. In entrambi i casi le strategie che hanno rivoluzionato i sistemi di produzione, rendendoli più sostenibili, sono derivati dal significato che veniva dato ai rifiuti, considerati come un elemento a cui dedicare un preciso spazio, perché portatore di un possibile futuro e di nuove potenzialità; non come un sottoprodotto inerte e inevitabile della necessaria industrializzazione.

Interrogare i sistemi attuali, e il modo in cui influiscono sulle nostre prospettive e abitudini, è dunque fondamentale per ridurre gli sprechi e l’inquinamento in ogni fase della vita di un oggetto, dall’estrazione allo smaltimento. Se è vero che sempre più aziende, progetti creativi e correnti artistiche stanno lavorando sulla sensibilizzazione rispetto all’insostenibilità del nostro sistema, per uscire dal paradigma consumistico serve che la riflessione sul significato dei rifiuti – ovvero sulla loro gestione, sull’impatto, sulla possibilità di una seconda vita in nuova forma e sulla conseguenti potenzialità – venga integrata a tutti i livelli dei processi produttivi. Occorre approcciare una visione che parta dal modo in cui ognuno degli oggetti che ci circondano è connesso al mondo, attraverso una miriade di relazioni sociali ed ecologiche, dal materiale grezzo a quello di scarto, e che quindi disfarsene senza pensarci due volte significhi aver sfruttato indiscriminatamente tutta una “filiera” di risorse, che va dal lavoro umano al patrimonio ambientale.

Riconoscere l’esistenza e il valore di queste interconnessioni equivale a evitare di liquidarle a relazioni di scarto, a rapporti gerarchici per cui ci sentiamo in diritto di prosciugare le risorse di cui disponiamo fino all’estinzione, e iniziare a prendere coscienza degli effetti che ciascuna delle nostre azioni ha sul pianeta, così come sullo stesso futuro dell’umanità. Agire affinché le nostre interazioni con il mondo non si incentrino più sul rifiuto, ma sulla possibilità di conservare o rigenerare i materiali che utilizziamo, è dunque uno sforzo necessario, una questione che non possiamo più permetterci di allontanare.


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