Esponendo in parlamento le linee guida sulla politica estera del nuovo governo, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha confermato il “Mediterraneo e l’Africa” come area assolutamente prioritaria per l’Italia, “piattaforma di connettività economica, energetica e infrastrutturale tra Europa, Africa e Asia”. Prima di volare a Tripoli con il premier Mario Draghi, Di Maio ha più volte citato gli interessi strategici ed economici in Libia, nel Sahel e nel Corno d’Africa, insieme alla necessità di “stabilizzazione” e alla “sicurezza” delle regioni, oltre che all’importanza strategica per l’Italia anche delle acque del Mediterraneo orientale tra Grecia e Cipro – ovvero il punto di snodo del progetto di gasdotto Eastmed dove, proprio come in Libia e nel Corno d’Africa, crescono le frizioni con la Turchia per il controllo delle risorse di idrocarburi.
Proteggere e promuovere asset strategici statali dell’energia e della difesa come Eni e Leonardo, in chiave tradizionale, resterà di conseguenza anche nei prossimi anni l’impianto alla base delle relazioni diplomatiche dell’Italia con i Paesi nella regione. Una geopolitica che si concentra ancora su petrolio e gas, e non vede cenni (se non generici sulla “sostenibilità” e la “svolta verde”) da parte del governo italiano agli accordi di cooperazione che i Paesi del Nord Europa hanno stretto con Stati vicini e anche extraeuropei, nel Nord Africa, per produrre e scambiarsi energia pulita.
Di fatto in Germania e nei Paesi baltici e scandinavi la riconversione green promossa ora dal Recovery Fund europeo è in atto da qualche anno, grazie ai progetti sulle rinnovabili portati avanti da grandi gruppi statali, anche in un’ottica di business, in sinergia con i Paesi della regione e con le economie emergenti. Lo scorso 27 maggio ha fatto notizia l’inaugurazione della cancelliera tedesca Angela Merkel e della premier norvegese Erna Solberg della prima conduttura green d’Europa: 623 chilometri di elettrodotto sottomarino tra i due Paesi, costruito in 5 anni attraverso il Mare del Nord per un costo di 1,8 miliardi di euro e una potenzialità di 1400 megawatt, che permette ora alla Norvegia di vendere alla Germania il surplus di energia idroelettrica e alla Germania energia eolica alla Norvegia. Merkel ha definito il NordLink “un successo per la cooperazione dei due Paesi” e una “pietra miliare per un approvvigionamento moderno di energia da concepire, in ultima analisi, in una dimensione europea”. L’elettrodotto è chiamato anche “cavo green” perché tutta l’energia che trasporta è pulita: la corrente elettrica della Norvegia è infatti generata da turbine idroelettriche sostenibili installate sotto il corso dei fiumi, in modo da non deturpare il paesaggio dei fiordi. Il Nordlink è stato realizzato ed è gestito da un consorzio che riunisce la compagnia energetica statale norvegese Statnett, l’operatore della rete elettrica olandese controllata dal governo TenneT, che ha una sussidiaria in Germania, e l’Istituto di credito per la ricostruzione tedesco (KfW) – la banca di sviluppo statale, che dal 1948 finanzia programmi nazionali e internazionali. Il primo grande interscambio di energia verde in Europa è il chiaro esempio di come, attraverso la regia dei governi e grandi investimenti, anche Paesi come la Germania, con la più grande industria pesante della Ue, o come la Norvegia, primo produttore di petrolio e gas, possano cambiare paradigma dal primato del fossile e degli idrocarburi, realizzando gradualmente una riconversione ecologica.
La Germania punta infatti ad anticipare al 2045 il target della neutralità climatica fissato dall’Unione Europea entro il 2050 e la Norvegia al 2030. La Scandinavia è così avanti perché la cooperazione tra governi per la sostenibilità ambientale è una realtà esistente da prima del NordLink: parte dell’elettricità norvegese a emissioni zero veniva infatti già esportata verso i Paesi Bassi, la Danimarca, la Svezia e la Finlandia. Un Paese, quest’ultimo, che grazie ai livelli di eccellenza raggiunti nel digitale e nell’hi-tech, fa anche da ponte con i governi baltici per sviluppare e condividere programmi ecologici: è dell’ottobre 2020 il patto della Baltic Sea Offshore Wind Declaration stretto tra Lituania, Estonia, Lettonia, Finlandia, Svezia, Danimarca, Germania e Polonia per creare un mercato comune dell’eolico che, attraverso campi offshore a tecnologia ibrida, reti intelligenti e digitalizzazione, rafforzi con la forza del vento in modo sostenibile la connessione tra le reti energetiche del Nord-Est dell’Europa e quelle continentali.
In generale, tutta l’area scandinava è all’avanguardia nell’abbattere le emissioni di CO2 e nello sviluppo di fonti sostenibili. Ma se la Danimarca è pioniera e leader consolidata nella produzione e nel consumo di energia eolica, nell’Islanda dei geyser e dei vulcani il 100% dell’elettricità arriva dalle rinnovabili (il 73% dall’idroelettrico e il 27% dalla geotermia) e il 90% delle famiglie si riscalda grazie alla geotermia. E anche in Norvegia oltre il 90% dell’elettricità arriva a bassissimo costo da fonti rinnovabili e i profitti dell’export del petrolio sono reinvestiti per mezzi pubblici elettrici e a biocarburante, mentre la Svezia destina il fondo sovrano alla conversione verde delle linee di treni, metropolitane e in prospettiva anche di aerei civili e militari a emissioni zero o a propulsione pulita. A Stoccolma è infatti in fase di sperimentazione il progetto di ricerca Green Flyway, in collaborazione con lo Stato norvegese, su droni e aerei elettrici. E anche in Danimarca gli investimenti verdi nell’aerospaziale coinvolgono già il ministero della Difesa.
Per la Germania, che ha la più alta capacità installata in Europa di centrali a combustibile fossile (al 2020, secondo il Global energy monitor, oltre 42,5 gigawatt contro i 7,9 dell’Italia e i 6,3 del Regno Unito), il percorso verso la neutralità climatica è più difficile. Nel 2020 il governo ha autorizzato una nuova centrale a carbone nel cuore industriale estrattivo della Ruhr, andando contro le raccomandazioni della Commissione Ue e lo stesso piano ambientale di riconversione varato dall’esecutivo. Cionondimeno, già nel 2018 rispetto all’energia elettrica il Paese ha compiuto il sorpasso delle rinnovabili (oltre il 40% del mix) sul fossile, secondo il monitoraggio dell’energia dei Fraunhofer-Institut: una forbice che nel 2020, complice anche il rallentamento nella produzione causato dal lockdown, secondo i calcoli aggiornati del gruppo di ricerca Agee-Stat, si è allargata a oltre il 45%. L’indagine statistica sulle rinnovabili mostra chiaramente come l’inversione di rotta tedesca sia dovuta alla spinta crescente, in primo luogo, del comparto eolico, che dal 2015 ha generato il 60% in più di energia, e poi del fotovoltaico (+31%). La Germania persegue da anni questo trend positivo sulle rinnovabili anche attraverso alleanze internazionali con i Paesi emergenti del Nord Africa: nel 2015 il governo tedesco ha infatti finanziato il Marocco con 654 milioni di euro per costruire, in partnership anche con la Banca mondiale e la Banca europea per gli investimenti (Bei), il complesso solare più grande del continente africano, “a tutela di asset mondiali come il clima”. Una cooperazione ambientale ampliata nel 2020 alla produzione di idrogeno verde e di altri combustibili sostenibili, stanziando altri fondi per progetti pilota in Marocco supportati dagli istituti di scienza applicata Fraunhofer. Anche quest’anno la Germania ha investito 30 milioni di euro in un memorandum d’intesa con la Tunisia, per generare insieme idrogeno verde.
La realtà dei fatti è che, mentre in questi mesi i tedeschi per la ripartenza hanno messo sul piatto 8 miliardi di euro in incentivi sull’idrogeno costruendo ponti verdi con l’estero, in Tunisia l’Italia è balzata agli onori delle cronache per lo scandalo ambientale dei carichi delle tonnellate di rifiuti dal Salento diretti e bloccati nel porto di Tunisi. Roma sarà il maggior destinatario in Europa dei fondi post pandemia del Next Generation Eu (oltre 65 miliardi di euro in sovvenzioni, la prima rata da 25 miliardi questa estate) e ciononostante mantiene invariato al 2050 l’obiettivo per la neutralità climatica, limitandosi nei fatti a concepire i Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo come partner con cui trattare accordi sui migranti e partnership sul gas e il petrolio – quando non addirittura come discariche. Neanche il nuovo ministero per la Transizione ecologica istituito dal governo Draghi ha impresso per ora una svolta alle politiche ecologiche, rimaste bloccate sul piano interno dalla burocrazia e assenti su quello internazionale. Nel frattempo il NordLink resterà ancora per poco il primo elettrodotto green d’Europa: da fine 2021 un cavo elettrico sottomarino ancora più lungo, di 725 chilometri, trasporterà energia pulita dalla Norvegia al Regno Unito.
Giova ricordare che i governi del Nord Europa non inseguono piani utopici: Oslo non ha mai accolto le richieste degli ambientalisti di fermare le esplorazioni e le trivellazioni per il petrolio per combattere i cambiamenti climatici nell’estremo Nord, la Germania e ancor più il Regno Unito fanno avanzare le politiche green in un’ottica di compromesso con le industrie, è vero e forse inevitabile, eppure hanno avviato una pianificazione seria sulla sostenibilità ambientale, con progetti di cooperazione a lungo termine anche transnazionali. Al contrario, nonostante gli stimoli europei, l’Italia resta ancorata a una visione geopolitica miope e chiaramente superata. Limitarsi ai vecchi schemi della competizione per gli idrocarburi e della spartizione delle risorse, anziché imitare l’esempio del Nord Europa, è purtroppo una logica che, di questo passo, ci terrà, ancora una volta, un passo indietro rispetto agli equilibri europei, abbasserà la qualità della nostra vita rispetto a quella di altri Paesi e in ultima istanza, nonostante lo sforzo degli altri, contribuirà ancora a deteriorare la salute dell’intero Pianeta.