In Italia le temperature si innalzano più che altrove. Dobbiamo intervenire sul clima, subito.

L’aria più pulita che si respirava durante il lockdown – con la chiusura di diverse aziende e lo stop quasi completo del traffico – è stata una breve parentesi illusoria. Non solo i livelli di inquinamento stanno tornando alla “normalità” – come già avvenuto in Cina – ma a confermare lo stato di salute preoccupante dell’ambiente in Italia e l’insufficienza delle azioni intraprese per proteggerlo è arrivato l’Annuario dei dati ambientali 2019 dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione la ricerca ambientale). Il rapporto è stato presentato il 3 giugno, in videoconferenza con il premier Conte e il Presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Nella stessa occasione è stato pubblicato anche il Soer 2020 (State of the Environment Report), un’approfondita analisi dello stato ambientale dell’Europa, pubblicata ogni cinque anni dall’Agenzia europea per l’Ambiente.

Nella presentazione dell’Annuario, il presidente dell’Ispra Stefano Laporta sottolinea che il bacino del Mediterraneo e la nostra Penisola sono tra le regioni europee più vulnerabili agli effetti dell’emergenza climatica, come dimostra uno dei dati più interessanti dell’intero rapporto: con un +1,71°C, l’aumento delle temperature medie in Italia è superiore a quello registrato nel resto del mondo, dove si attesta a +0,98°C rispetto alla media climatologica del periodo di riferimento 1961-1990. In Italia, quindi, l’aumento è stato di circa 0,38°C per ogni decennio tra il 1981 e il 2018, anno ricordato come il 22esimo consecutivo ad aver avuto un valore di giorni estivi (cioè nei quali la temperatura massima dell’aria supera i 25°C) superiore alla media. Tutti i cinque valori record nelle temperature medie, inoltre, si sono registrati negli ultimi cinque anni, a dimostrare che la temperatura continua a crescere. Era già noto che la regione mediterranea fosse tra le più sensibili di tutto il continente agli sconvolgimenti climatici e ora abbiamo una misura di questa vulnerabilità, aggravata dalla frequenza sempre più alta dei fenomeni climatici estremi: rispetto alla media del periodo 1961-1990, lo scorso anno le precipitazioni annuali sono state superiori del 18%, alternandosi però a lunghi periodi di forte aridità. Anche a causa di questi fattori, il 43% circa del territorio italiano è soggetto a una vulnerabilità media alla desertificazione, mentre il 10% è ormai molto vulnerabile.

Gli sconvolgimenti climatici di una regione come quella mediterranea di cui fanno parte non solo Paesi industrializzati come l’Italia, ma anche Paesi in via di sviluppo, hanno conseguenze geopolitiche che non possiamo più ignorare, comprese le tensioni sociali e le migrazioni climatiche. Sul piano più strettamente ambientale di cui si occupa l’Annuario dell’Ispra una delle conseguenze è invece il pericolo che corrono la flora e la fauna italiane, tra le più ricche e varie d’Europa e oggi minacciate dall’introduzione – consapevole o meno – di oltre 3mila specie aliene potenzialmente invasive, che si adattano e prosperano ai danni delle autoctone grazie ai mutamenti del clima. Oltre a queste, a mettere in pericolo questa ricca biodiversità sono la degradazione dell’ambiente e la distruzione degli habitat, legate a loro volta all’urbanizzazione e all’agricoltura estensiva. Questi dati, però, non sono gli unici preoccupanti tra quelli raccolti dall’Annuario: tra i trend negativi c’è, per esempio, quello relativo al consumo di suolo, specialmente nelle aree costiere, con picchi in Liguria e Marche. A provocarlo sono frane, alluvioni, contaminazione e compattazione del suolo stesso, a loro volta dovute ad attività economiche, cambiamenti climatici, pratiche agricole scorrette e concentrazione della popolazione nelle aree costiere più densamente urbanizzate. Alla forte antropizzazione (il 7,6% del suolo italiano ha una copertura artificiale, mentre la media europea si ferma al 4,2%) si aggiungono le precipitazioni particolarmente violente e limitate a un breve arco temporale che provocano danni ad agricoltura e infrastrutture. Nel nostro Paese sono esposte al rischio idrogeologico in aree a media pericolosità idraulica sei milioni di persone, mentre 1,2 milioni vivono in aree a elevato pericolo di frane. Queste cifre sottolineano l’importanza di piani regolatori aggiornati e che tengano conto dell’impatto dell’emergenza climatica sul territorio.

Un tasto dolente per l’Italia è anche la gestione dei rifiuti: la raccolta differenziata nel Paese, seppur di poco, non ha ancora centrato gli obiettivi del 2011 (60%), né tantomeno del 2012 (65%), con percentuali particolarmente basse per metallo e plastica che è il rifiuto più presente sulle spiagge italiane, con un primato negativo di 170 oggetti plastici abbandonati ogni 100 metri di litorale lungo le coste adriatiche. Un problema quanto mai attuale in tempi di Coronavirus e con l’aumento di quella monouso, che si prospetta critico rispetto alla legge in vigore che la vieta entro l’anno prossimo: non si tratta solo dei dispositivi di sicurezza – all’origine, secondo le stime, di 250-720 tonnellate di rifiuti al giorno nella fase 2 –, ma soprattutto di confezioni e imballaggi, percepiti come più igienici.

Se una nota positiva è rappresentata dalla produzione di energie rinnovabili (il 18,3% del totale) – responsabile di una buona parte della riduzione delle emissioni di gas serra rispetto al 1990 – i livelli di inquinanti preoccupano ancora; nonostante un calo, tra il 1990 e il 2017, del Pm10 – i cui limiti previsti dall’Oms sono comunque stati superati almeno una volta dal 75% delle stazioni di rilevamento – nel complesso i livelli di molte sostanze nocive sono ancora troppo alti, dal particolato (compreso il Pm2,5) al biossido di azoto. La Pianura Padana si distingue in negativo rispetto a tutto il resto dell’Europa – anche per la conformazione geografica che impedisce un buon ricircolo d’aria, e per la forte densità industriale – ed è una delle zone dove le temperature medie aumentano maggiormente. Anche se il Nord registra il surriscaldamento con i ritmi più allarmanti, il problema riguarda comunque tutto il Paese.

Non possiamo più ignorare il contributo di tutti questi fattori al cambiamento climatico, che colpisce particolarmente l’area geografica in cui si colloca l’Italia. Nel complesso, non si sta facendo abbastanza per risolverli. Questo vale anche sul piano europeo, dato che le analisi del Soer mostrano come i passi in avanti non siano sufficienti sul lungo periodo: nonostante diversi progressi – come la riduzione delle emissioni di gas serra e di quelle industriali, una maggiore efficienza energetica e la produzione di energia rinnovabile –, il 95% della popolazione urbana dell’Unione vive ancora in aree esposte a concentrazioni di inquinanti atmosferici superiori ai livelli indicati dalle linee guida dell’Oms, fattore che potrebbe aver aggravato la virulenza dell’epidemia da Coronavirus nel nostro continente.

Quegli stessi fattori – a partire dalla perdita di biodiversità dovuta al mutamento climatico – sono registrati anche in Europa dal Soer 2020. Valutando i trend, il report mostra che le politiche europee degli ultimi dieci anni sono efficaci, ma non ancora sufficienti a raggiungere l’obiettivo di vivere riducendo il nostro impatto negativo sul Pianeta. Il direttore generale dell’Agenzia europea dell’ambiente, Hans Bruyninckx, mettendo in guardia dal rischio di investimenti sbagliati – come quelli per migliorare l’efficienza dei motori a combustione, anziché puntare su altre tipologie energetiche che li sostituiscano – ha sottolineato che anche a livello europeo non è stato fatto abbastanza e che una vera transizione è possibile solo raggiungendo l’equità sociale, come ribadito anche da Sassoli: “Le società più eque hanno migliori condizioni ambientali e mostrano una maggiore capacità di diventare più sostenibili. Al contrario, una società diseguale in cui ampie fasce di popolazione vivono in condizioni di povertà alimenta la crisi ecologica”. Eppure l’Europa continua a consumare risorse e a contribuire al degrado ambientale più di molte altre regioni al mondo e lo fa sfruttando risorse estratte o importante da altre zone del Pianeta, come terreno, biomasse e metalli. Se proseguiamo sulla linea attuale non raggiungeremo gli obiettivi fissati per il 2050 per quanto riguarda il consumo di suolo, solo parzialmente quelli per il 2030 sull’inquinamento atmosferico e non ci avvicineremo né a quelli del 2030 né del 2050 per quanto riguarda mitigazione del clima, efficienza energetica e implementazione delle fonti rinnovabili.

Bruyninckx chiede che i Paesi smettano di investire nei settori nocivi per l’ambiente, come invece si sta ancora facendo finanziando, tra gli altri, le compagnie petrolifere. Il governo italiano ha annunciato il mese scorso che la commissione interministeriale appositamente creata sta studiando come procedere con i tagli ai sussidi ambientalmente dannosi (per lo più sconti fiscali), in modo da “guidare a partire da quest’anno la transizione ecologica dei settori interessati, agendo a saldo zero”, come ha spiegato il ministro dell’Ambiente Sergio Costa. Dopo la falsa speranza rappresentata dal Decreto Clima, c’è da augurarsi che i dati dell’Annuario Ispra e del Soer siano chiari abbastanza da smuovere la coscienza dei governi. Se è vero che è nella natura umana non riuscire a rispondere e prepararsi a minacce sconosciute e apparentemente remote, rischiamo che quando gli effetti della crisi climatica saranno palesi ovunque e innegabili non avremo più il tempo e la possibilità di rimediare.

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