In molti quest’estate hanno esclamato: “Questo caldo è invivibile”. In effetti non è sempre un’esagerazione: secondo gli esperti i prossimi decenni metteranno seriamente alla prova il benessere e la stessa sopravvivenza di quelle che oggi sono città abitate da milioni di persone. Fulcri economici e sociali che saranno presto costretti a mettersi in discussione, a partire dal proprio funzionamento e dalle proprie infrastrutture, ripensandole radicalmente. Problemi analoghi riguardano interi territori e i settori economici su cui si fondano e questo discorso non riguarda un futuro non ben identificato, che al massimo vedranno i nostri pronipoti: secondo la NASA abbiamo solo trent’anni prima che diversi territori diventino invivibili a causa del caldo e delle conseguenze della crisi climatica – e non stiamo parlando solamente di luoghi remoti e magari già inospitali, ma anche dello stesso bacino del Mediterraneo, Italia compresa.
Un’analisi pubblicata dalla NASA qualche mese fa ha evidenziato le regioni che nei prossimi 30-50 anni saranno invivibili per effetto della crisi climatica e queste, mano a mano che passano gli anni, si stringono sempre di più anche attorno ai territori italiani. I fattori che rendono invivibile un’area sono molteplici, ma il primo, e forse il più drammatico, è la temperatura, dato che a 35°C misurati con wet bulb – l’indice termico che fa riferimento alla temperatura registrata da un termometro bagnato, combinando cioè l’effetto del calore dell’aria con quello dell’umidità, per ottenere un’indicazione realistica della temperatura percepita dall’organismo – le condizioni sono proibitive, permettendo all’essere umano di resistere al massimo sei ore. A queste condizioni, infatti, viene meno la capacità dell’organismo di regolare il calore corporeo, mettendo seriamente a rischio la salute e la vita stessa e, nonostante quasi tutte le regioni calde e umide del Pianeta restino entro un wet bulb di 25-27°C in media, la soglia di pericolo è stata superata sempre più spesso dal 2005 a oggi.
Già nel 2020 uno studio congiunto di scienziati europei, statunitensi e cinesi aveva sottolineato che entro il 2070 la temperatura percepita sarà di 7,5°C in più rispetto alle medie preindustriali. Se le emissioni continuano ad aumentare secondo l’attuale trend; perché, sì, le emissioni climalteranti stanno continuando ad aumentare, nonostante le belle parole e le azioni di facciata; questo pericolo toccherà anche l’Italia, ai vertici europei per l’aumento di anidride carbonica derivante dalla produzione di energia. Nei prossimi decenni, quindi, se non si interviene subito non saranno solo gli Emirati Arabi a diventare sempre più inospitali, fino a essere inabitabili per diversi fattori – dal caldo, al collasso dell’agricoltura, agli eventi climatici estremi –, ma anche le regioni italiane somiglieranno al Golfo Persico, al Pakistan e alla Thailandia, ma con una società che poggia su uno stile di vita, infrastrutture, servizi e orari radicalmente diversi. La crisi climatica riguarda tutto il mondo e se il Pakistan oggi annega a causa delle inondazioni e il conto degli eventi atmosferici sale vertiginosamente, in Italia non possiamo illuderci di un’eterna Dolce Vita. Come riporta il fisico e climatologo Filippo Giorgi, il processo è già in corso: in Italia le medie sono cresciute di 2,5°C in un secolo, cioè oltre il doppio della media globale, perché il nostro territorio è collocato in una zona di transizione tra il clima arido nordafricano e quello umido e temperato nordeuropeo. Secondo Giorgi, senza ridurre le emissioni in Italia si arriverà a 3-4°C in più, ben oltre il fatidico grado e mezzo, e tutta l’area mediterranea, particolarmente sensibile all’effetto serra, in estate sarebbe esposta potenzialmente ad aumenti anche di 6 o 7°C. Purtroppo, questo scenario apocalittico si sta già concretizzando e quest’estate ne abbiamo avuto un assaggio.
Presto, molti Paesi, a partire da quelli affacciati sul mar Rosso – come l’Egitto, l’Arabia Saudita, il Sudan, l’Etiopia, la Somalia e lo Yemen – si ritroveranno in una situazione climatica letteralmente invivibile, secondo la NASA già nel 2050. Si tratta di territori già colpiti da diversi problemi, non ultimi i conflitti provocati da interessi relativi alle risorse naturali, comprese le contese per l’acqua, motivo per cui, tra le conseguenze della crisi ambientale, bisogna considerare anche l’intensificarsi dei flussi migratori diretti in Europa nei prossimi decenni. Inoltre, nel 2070 non saranno invivibili solo Brasile, Cina e Midwest degli Stati Uniti, ma anche tutta l’area del Mediterraneo – densamente popolata – comprese le sponde europee. Come ha sottolineato l’IPCC, anche limitando l’aumento della temperatura media globale a 1,5°C – un obiettivo comunque ormai sempre più lontano dalla nostra portata – alla fine del secolo la frequenza delle ondate di caldo estremo che abbiamo vissuto in questi mesi nei prossimi decenni sarà quadruplicata. Intanto, le estati nelle aree interne pianeggianti un po’ alla volta diventano troppo calde per le normali attività: per avere una misura concreta del fenomeno basta considerare che a Roma, nel 2050, la temperatura media equivarrà a quella attuale della città turca di Adana, con medie estive fino a 5,5°C più alte. Torino sarà la nuova Dallas, con estati fino a 7,7°C più roventi; e, allargando appena lo sguardo fuori dai confini, Marsiglia avrà la temperatura che oggi ha Algeri, Londra quella di Barcellona, Parigi e Berlino quelle di Canberra, in Australia. Secondo i ricercatori il 22% delle città al mondo vivrà in condizioni climatiche che oggi non esistono in nessuna grande città. Condizioni, di fatto, invivibili. Perché, come sottolineano gli esperti, una volta che la temperatura raggiunge i 50°C nelle aree urbane diventa praticamente impossibile da gestire.
Fuori dai centri urbani non va molto meglio, però, perché prolungati periodi di siccità alternativi a inondazioni devastano il settore agricolo – quello che ha permesso al bacino mediterraneo di prosperare per millenni, rendendolo un fulcro di civiltà – sullo sfondo di pratiche agricole non sostenibili e di una drammatica carenza di precipitazioni che, aggravando la siccità provocata da un’errata gestione del territorio, cementificazione eccessiva e coltivazioni intensive, fanno colare a picco le riserve d’acqua dolce. In mare, invece, la temperatura spinge intanto i pesci a spostarsi verso acque più fresche e favorevoli. Già ora l’eccesso di anidride carbonica nei mari ha reso le acque del Mediterraneo più acide, provocando un calo delle popolazioni di molluschi, tra gli altri, e danneggiando il settore ittico, mentre le acque basse sono sempre più affollate dall’aumento esponenziale delle meduse.
Parlando delle acque, un (ennesimo) problema urgente riguarda l’innalzamento del livello dei mari causato dallo scioglimento dei ghiacci, specialmente per l’Italia che ne è abbracciata quasi per intero. Mentre le pianure dell’interno non potranno che spopolarsi, le coste rischiano di essere inghiottite a poco a poco dal mare. Al 2050 a Venezia si potrebbe avere un innalzamento del livello del mare di 24 cm, che diventeranno quasi 70 cm nel 2100; cifre simili riguarderanno Palermo, mentre di più ancora subirebbe Cagliari, con +30 cm già nel 2050, 10 cm in più di Genova, che supererà i 60 cm a fine secolo, nel caso in cui a concretizzarsi sia lo scenario nel quale le emissioni continuino ad aumentare, come presupposto dalla NASA.
Questi problemi ci riguardano e ci minacciano in prima persona – anche se i primi territori a rischio sono i paradisi delle isole del Pacifico. Le conseguenze, anche se in misura variabile, sono drammatiche per tutto il pianeta, non c’è un Paese che si salvi. Basti pensare, infatti, che gli insediamenti umani sono concentrati in fasce climatiche ristrette, con medie annuali tra gli 11° e i 15°C, mentre una frazione inferiore si trova in luoghi in cui la temperatura media è di 20-25°C. Questo equilibrio salterà nei prossimi decenni, con conseguenze sociali, economiche e sanitarie che si prefigurano disastrose, anche per coloro che vivono in zone in cui le condizioni climaticamente possono dirsi più favorevoli. Si calcola, infatti, che entro il 2070 un terzo dell’umanità sarà costretto ad abbandonare i propri territori perché invivibili.
Tra le conseguenze tangibili, poi, ve ne sono anche di indirette, come l’effetto sul mercato immobiliare: nonostante Trump sostenga che lo scioglimento dei ghiacci regalerà a tutti il balcone vista mare, la crisi che sta investendo il settore negli Stati Uniti, per esempio, è in parte correlata al clima, a dimostrazione del fatto che anche l’economia e le politiche sociali non possono che scontrarsi con la crisi climatica. Tra le migliaia di persone in tutto il mondo costrette a spostarsi per ragioni legate ai problemi ambientali ci sono anche cittadini del Nord del mondo e molti giovani europei sono già consapevoli di doversi prima o poi trasferire.
La campagna elettorale in questi giorni sta risollevando il presunto problema della sicurezza e degli sbarchi migratori – di chi “scappa dal caldo o perché gli va” come diceva Giorgia Meloni qualche anno fa – quando dovrebbe preoccuparsi seriamente delle cause che vi si celano. Tra queste, la crisi climatica ha un ruolo molto più centrale di quanto si sembra essere disposti a credere e ad ammettere, ed è di questo che la politica dovrebbe parlare, anche perché noi saremo i prossimi migranti climatici – come chiedono i giovani che rifiutano di votare partiti che non mettano in cima al proprio programma elettorale un piano per arginare la crisi climatica. Purtroppo, questo non è uno scenario distopico, ma la chiara direzione verso cui l’inazione (o quasi) climatica ci sta portando, così come una politica che si preoccupa solo di accontentare la fascia di elettori più affollata: quella dei boomer, tra cui si conta il numero più alto di negazionisti climatici.