Su Youtube circolano video che raccolgono gli spot televisivi degli anni Settanta, Ottanta e Novanta di prodotti di cui oggi è risaputo l’impatto dannoso sulla salute umana. Da quelli che reclamizzano la salubrità dello zucchero a quelli che esaltano il burro, si tratta di canzoncine e immagini che hanno fatto parte della nostra infanzia o di quella dei nostri genitori e che, in qualche modo, l’hanno influenzata. Sogno che, come uno spot di sigarette oggi farebbe – quantomeno – un effetto straniante e sarebbe controproducente sia per l’azienda produttrice che per chi lo trasmette, così tra qualche anno penseremo lo stesso di pubblicità che si vedono ora in giro. Perché i prodotti e i servizi che oggi sappiamo inquinanti e dannosi per la salute nostra e dell’ambiente siano sempre meno commercializzati e diffusi – e quindi perché il loro impatto si riduca sempre di più – infatti, abbiamo bisogno di smettere di renderli attraenti e di tendenza.
Proprio perché si conosce il potere del marketing, nel corso degli ultimi quarant’anni in molti Paesi sono stati introdotti divieti di pubblicità, anche indiretta, dei prodotti a base di tabacco: in Italia una pietra miliare è stata la legge 52/1983, che ha eliminato le distinzioni tra pubblicità diretta e indiretta, mentre in seguito è stata recepita la direttiva europea che regolamenta pubblicità e sponsorizzazione transfrontaliere dei prodotti del tabacco e la distribuzione gratuita promozionale dei prodotti correlati. Questo perché la consapevolezza dei danni del fumo per la salute ha spinto il legislatore a prendere posizione contro l’attività pubblicitaria che, suggerendo un’immagine attraente del fumo, indebolisce le avvertenze sulla sua pericolosità e riduce la motivazione a smettere. In un’epoca, questa, in cui la crisi climatica è un problema di portata globale – in cui, peraltro, anche la produzione di tabacco e sigarette ha un ruolo – dobbiamo chiederci se non sia il caso di applicare lo stesso principio anche a prodotti inquinanti, come i carburanti da combustibili fossili; questi, infatti, sono responsabili di emissioni che contribuiscono generosamente all’inquinamento da gas serra – secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente, il solo trasporto su strada rappresenterebbe il 25% del totale nell’Unione Europea – e, stando ai report promossi dalla Commissione Europea, sono del 20% più alte di quanto dichiarato dai valori ufficiali del test di omologazione dei veicoli. Tra le conseguenze, oltre agli effetti più diretti della crisi climatica, ci sono anche malattie respiratorie, allergie e disturbi cardiovascolari legati all’inquinamento, che causano circa 400mila morti premature all’anno in Europa.
Per questi motivi, il 5 giugno scorso il segretario ONU António Guterres – una delle voci più autorevoli a favore di politiche ambientali coraggiose – si è appellato alla comunità internazionale per vietare la pubblicità dei combustibili fossili. A settembre, la municipalità dell’Aja l’ha fatto, estendendo il divieto – che entrerà in vigore da gennaio 2025, per contribuire all’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2030 che la città si è posta – anche alla promozione di servizi come le crociere e i viaggi aerei, che sono le modalità di trasporto più inquinanti e che per questo andrebbero radicalmente limitati, tanto più di fronte all’overtourism.
Quando si tratta di ridurre il ricorso ai combustibili fossili e ai prodotti correlati, non si può non considerare la capacità di marketing e pubblicità di influenzare e manipolare le nostre scelte d’acquisto, perché non ha senso promuovere campagne di sensibilizzazione sui danni dell’inquinamento se poi non si mette un freno alla pubblicità dei prodotti e delle attività che ne sono più responsabili. La pubblicità, infatti, è capace di orientare le scelte dei consumatori, sfruttando la psicologia che guida l’acquisto e usando ogni elemento a disposizione per insinuare il desiderio di un certo prodotto nella nostra mente e magari anche creando bisogni che non avevamo. Dal colore alla musica, dal design della confezione al posizionamento del prodotto su uno scaffale o in una vetrina: tutto fa marketing. In più, oggi le aziende fanno leva sull’empatia: conoscono il nostro vissuto quotidiano, le difficoltà e frustrazioni di ogni giorno, e puntano a creare una connessione emotiva con gli spettatori. Gli spot delle auto, in particolare, usano l’emotività per attirarli e lo fanno adattandosi di volta in volta alle sensibilità della società; così, per esempio, si è passati dalle pubblicità degli anni Ottanta a base di motori potenti, virilità e seduzione, alle protagoniste femminili emancipate, dalle immagini evocative di rassicuranti ritorni a casa al tramonto dopo una lunga giornata, a quelle di viaggi avventurosi che stuzzicano il nostro bisogno di evasione.
Un bisogno che è sfruttato anche dalle pubblicità di compagnie aeree e navali, servizi che, rispetto ai meri beni di consumo, è più difficile associare al consumismo; se è vero che viaggiare non è indispensabile, infatti, la vacanza e la scoperta dell’altro – che siano persone, luoghi, usanze, cibi – contribuiscono al benessere personale e all’arricchimento culturale e spirituale di cui abbiamo tanto bisogno. Se a questo valore indubbio si aggiungono le pubblicità che aumentano l’appeal dei voli, sarà difficile cambiare prospettiva. La questione è spinosa: spesso volare è il modo più economico di viaggiare e il rischio di scadere nel classismo nei discorsi sul turismo “sostenibile” è molto alto. Proprio per questo, i consumatori devono essere posti nelle condizioni di poter scegliere – con adeguata informazione e adeguate possibilità economiche – e a dover essere colpite sono, piuttosto, le aziende che lucrano inquinando.
Tanto più che siamo in balia di messaggi seducenti: sui social media, in particolare, aumenta l’efficacia del messaggio pubblicitario, grazie ai dati relativi a età, geolocalizzazione e interessi degli utenti, che permettono di personalizzare i messaggi. Così, sfruttando la nostra insoddisfazione, gli spot ci inducono a credere che se compreremo quel paio di pantaloni, quel rossetto, quell’auto ci piaceremo di più, saremo più apprezzati dagli altri, la nostra vita sarà più semplice, più soddisfacente e più bella. E funziona: negli Stati Uniti, per esempio, l’85% dei giovani appartenenti alla Gen Z sono influenzati dai social nei loro acquisti. Ma è un circolo vizioso, perché la dopamina che l’acquisto ci dà passa in fretta, lo stress quotidiano resta e, per cambiare gli aspetti che non apprezziamo della nostra vita, nessun accessorio e nessuna automobile nuova – per quanto potente e confortevole – possono sostituire la psicoterapia, né tantomeno un cambiamento politico e culturale che ridimensioni il peso sociale di performance e competitività. E, mentre siamo già proiettati al prossimo acquisto, continuiamo a spendere denaro, le risorse naturali continuano a essere sprecate per produrre quel paio di pantaloni o quell’auto e le emissioni vengono rilasciate in atmosfera.
Il punto, però, non è far sentire in colpa i singoli, ma attribuire alle aziende inquinanti le giuste responsabilità: magari proprio regolamentando le pubblicità dei loro prodotti e servizi, oltre a introdurre politiche di tassazione che potrebbero avrebbe il duplice effetto di recuperare risorse da investire in azioni di adattamento climatico – facendole sborsare proprio a chi ha più contribuito alla crisi climatica – e di fungere da deterrente per le aziende, incentivandone la transizione.
Sarebbe un forte messaggio di cambiamento imporre un divieto alle pubblicità di benzina, diesel, viaggi aerei, crociere, ma anche, estendendo il concetto ad altri prodotti come carne, il cui consumo, previsto in aumento del 60-70% di qui al 2050, annullerà ogni sforzo di mitigazione climatica, e indumenti di fast fashion, dato che l’industria della moda è all’origine di almeno il 10% delle emissioni globali di carbonio, senza contare lo sfruttamento di chi lavora nel settore. Potrebbe essere una strategia efficace, da affiancare a politiche come la diffusione di piste ciclabili e mezzi pubblici, l’introduzione di sistemi di gestione dei rifiuti più efficienti e la promozione di stili alimentari meno impattanti.
È questa la strada verso un futuro sostenibile, che richiede un cambiamento radicale nelle nostre abitudini di consumo e nel nostro stile di vita, ma non si può sperare che questo avvenga spontaneamente, soprattutto non nei tempi stretti che la crisi climatica ci impone. I cittadini devono essere informati e convinti a fare le scelte migliori per loro, per l’ambiente in cui vivono e per le generazioni future, ma non ha senso appellarsi alla loro buona volontà se si lascia che il marketing li bombardi con i suoi messaggi seduttivi che incitano al consumo. E di certo non possiamo aspettarci che le aziende petrolifere e le compagnie aeree decidano volontariamente di ridimensionare i loro guadagni, privandosi del potere persuasivo della pubblicità. A imporglielo dovrebbero essere le istituzioni, e, se da un governo che fa propaganda contro le auto elettriche e contro la carne coltivata non possiamo aspettarci molto, la speranza è tutta nelle amministrazioni locali, con l’augurio che spingano l’azione laddove i governi nazionali fanno più fatica, specialmente in una fase storica in cui il conservatorismo di estrema destra, che considera la sostenibilità ambientale una minaccia invece che una soluzione, vive un ritorno. L’Aja dimostra che è possibile farlo: basta un po’ di coraggio.