Con il nostro Paese alle prese con la peggiore siccità degli ultimi settant’anni e la crisi climatica che minaccia i già fragili ecosistemi e la sopravvivenza stessa dell’uomo sulla Terra, l’acqua e il suo controllo assumeranno un ruolo sempre più centrale nelle dinamiche di potere e di controllo delle risorse fra gli Stati. Già nel 2019, secondo un rapporto Unesco, 2,1 miliardi di persone nel mondo non avevano accesso all’acqua potabile e 4,5 miliardi non potevano usufruire di servizi igienici sicuri. D’altra parte, il tasso di utilizzo dell’acqua è cresciuto di circa l’1% all’anno a partire dagli anni Ottanta, a causa della crescita della popolazione, dello sviluppo socioeconomico dei Paesi in via di sviluppo e per il cambiamento dei modelli di consumo. Anche le previsioni citate nel rapporto stimano che la domanda globale di acqua continuerà ad aumentare a un tasso simile fino al 2050, superando di circa il 20-30% i livelli di utilizzo attuali, soprattutto per via della crescente domanda proveniente dall’apparato industriale e dal consumo domestico. Un documento del Dipartimento per gli affari economici e sociali delle Nazioni Unite sulla scarsità d’acqua stima invece che, entro il 2025, 1,8 miliardi di persone si troveranno a fare i conti con questo problema e due terzi del mondo vivranno in condizioni di “stress idrico”.
Le categorie più penalizzate ed esposte alle crisi idriche sono i rifugiati, le donne, i bambini, in generale tutti i tipi di minoranze, da quelle etniche a quelle linguistiche, da sempre oggetto di discriminazioni e politiche vessatorie. Sempre nello stesso rapporto Unesco, si legge che tra il 2015 e il 2019 sono state oltre 25 milioni le persone che ogni anno, in media, sono migrate a causa dei disastri naturali. A dimostrazione del fatto che il fenomeno delle migrazioni non dipende soltanto dagli attriti geopolitici e dai conflitti armati, ma anche dagli effetti sempre più violenti e drammatici dei cambiamenti climatici. Una ricerca dello Stockholm International Peace Research Institute mostra poi che il cambiamento climatico potrebbe portare a un calo compreso tra il 20 e il 40% della disponibilità di cibo e acqua. Inoltre, quasi ogni anno a partire dal 2012, le crisi idriche sono state classificate tra le prime cinque della lista Global Risks by Impact del World Economic Forum. Nel 2017, gravi periodi di siccità hanno contribuito alla peggiore crisi umanitaria dalla seconda guerra mondiale, quando 20 milioni di persone in tutta l’Africa e nel Medio Oriente sono state costrette a lasciare le proprie case a causa della carenza di cibo e dei conflitti scoppiati sui propri territori. Se a questi dati si aggiunge che la disponibilità di risorse idriche è minacciata dalla rapida crescita della popolazione mondiale, che potrebbe raggiungere i 10 miliardi entro il 2050, e che 12 dei 17 Paesi più poveri d’acqua del mondo si trovano in Medio Oriente, Nord Africa, Pakistan e India, regioni già economicamente e politicamente fragili, fortemente colpite dalla siccità e dalla crisi climatica, e per lo più sconvolte da guerre e scontri interni, non sorprende che i conflitti e la violenza per il controllo dell’acqua siano in aumento e destinati a intensificarsi nei prossimi anni.
In realtà, i conflitti per l’“oro blu” sono antichi quanto la storia dell’umanità: il primo risale addirittura al 2500 a.C., quando le due città-stato sumere di Lagash e Umma si scontrarono per l’approvvigionamento idrico dai due famosi fiumi dell’area, il Tigri e l’Eufrate. Un altro esempio che ci arriva dal passato riguarda le proteste, nel 30 d.C., degli ebrei contro i Romani per l’ingiusta distribuzione delle risorse idriche. Oggi, nella stessa zona, quasi duemila anni dopo, sono i palestinesi a portare avanti la battaglia per l’accesso all’acqua, ostacolato dagli occupanti israeliani. Come riporta il sito Water Conflict Chronology, che monitora e classifica gli eventi relativi ai conflitti per l’acqua dall’inizio della civiltà a oggi, il numero di scontri per l’approvvigionamento o il controllo idrico nel mondo negli ultimi anni è aumentato. Se tra il 2000 e il 2009 se ne sono infatti contati 220, tra il 2010 e il 2019 sono saliti a 620, mentre dal 2020 a marzo 2022 ne vengono segnalati 202. Gli eventi avversi sono distinti in base al ruolo, all’impatto o all’effetto che l’acqua ha avuto all’interno di un conflitto: si va dall’acqua come causa scatenante di una guerra o conflitto, lo scenario più comune (140 casi segnalati dal 2022 a oggi), all’acqua come arma di conflitto (8 casi), fino all’acqua come vittima intenzionale o accidentale di un conflitto (63 casi). Oggi, la maggior parte degli scontri per l’acqua, come si evince dal progetto, sono concentrati in quelle aree del mondo fortemente instabili, dove la tensione geopolitica è già molto alta e la crisi climatica inasprisce i rapporti diplomatici e commerciali fra Paesi confinanti.
Bene comune e risorsa fondamentale per la vita, l’acqua diventa sempre più spesso oggetto di contesa o motivo di ricatto, e anche nel conflitto tra Russia e Ucraina, per esempio, l’acqua svolge un ruolo decisivo: il danneggiamento delle infrastrutture idriche e il taglio dell’acqua alle città assediate dai russi sono infatti efficaci e terribili strumenti di guerra – proprio come ai tempi del tentativo di Napoleone di invadere la Russia, nel 1812. In realtà, la tensione tra i due Paesi per il controllo dell’acqua risale già a diversi anni fa, quando, nel 2014, dopo l’annessione forzata della Crimea alla Russia, Kiev ha fatto costruire in fretta una diga per bloccare il flusso del canale della Crimea settentrionale, lungo circa 420 chilometri, che collegava la penisola occupata dai russi al fiume Dnepr in Ucraina. “Le tensioni sul canale sono aumentate negli ultimi mesi dopo che la siccità ha aggravato la crisi idrica della Crimea,” si leggeva sul New York Times a giugno 2021. L’aumento delle temperature e la diminuzione delle precipitazioni causati dal surriscaldamento terrestre hanno complicato la situazione, fornendo a Putin un’ulteriore motivazione, fra le altre, per l’invasione.
Un altro luogo della Terra dove il controllo dell’acqua è causa di scontri e controversie è ancora il bacino del Tigri-Eufrate, dove si affacciano Turchia, Siria, Iraq e Iran occidentale. Le immagini satellitari mostrano infatti che la regione sta perdendo acque sotterranee più velocemente che in qualsiasi altra parte del mondo. Nel giugno del 2019, mentre l’Iraq era soffocato da un’intensa ondata di calore (con picchi di 50 gradi), la Turchia aveva annunciato che avrebbe iniziato a riempire la sua diga di Ilisu, vicino alla sorgente del Tigri. Un’azione che rientra in un più ampio progetto di lunga data, il Guneydogu Anadolu Projesi (GAP), che prevede la costruzione di 22 dighe e centrali elettriche lungo il corso dei due fiumi e che, secondo un rapporto dell’Ufficio internazionale per l’acqua francese, sta influenzando in modo significativo il flusso d’acqua in Siria, Iraq e Iran, dimezzando la disponibilità della risorsa in Iraq e deteriorando la qualità dell’acqua a Bassora, dove ad agosto 2019, come riportato da Human Rights Watch, centinaia di persone si sono recate in ospedale con diversi sintomi, come dolori addominali, vomito, diarrea e persino colera, riconducibili all’insalubrità delle acque.
Anche fra i Paesi che condividono il corso del fiume più lungo del mondo, il Nilo, ovvero Egitto, Sudan ed Etiopia, la tensione è alle stelle e, dopo l’annuncio del governo etiope dell’avvio del progetto della Grande Diga del Rinascimento Etiope (GERD), un’opera mastodontica da 5 miliardi di dollari, il rischio di escalation è molto elevato. Secondo il dittatore Abdel Fattah al-Sisi, attuale Presidente della Repubblica egiziana, la diga metterebbe in pericolo la vita di più di 150 milioni di persone, egiziane e sudanesi, mentre dalla capitale etiope, Addis Abeba, si sostiene che il progetto idroelettrico favorirà lo sviluppo di tutta la regione e dell’economia del Paese e che oltre il 60% dei territori nazionali sono costituiti da terra asciutta, mentre l’Egitto è dotato di riserve sotterranee e potrebbe e desalinizzare l’acqua del mare. Intanto, nel maggio 2021 Egitto e Sudan hanno tenuto un’esercitazione di guerra congiunta dal nome emblematico: “Guardiani del Nilo”.
D’altra parte, l’Egitto sembra voler sfruttare per davvero il potenziale dell’acqua di mare su cui si affaccia il Paese: nel 2020, infatti, il governo ha negoziato una serie di accordi per aprire fino a 47 nuovi impianti di desalinizzazione, insieme al più grande impianto di trattamento delle acque reflue del mondo. La maggior parte di questi progetti, però, non vedrà la luce prima del 2030, mentre l’emergenza idrica si fa sempre più pressante. Leader nel campo della desalinizzazione dell’acqua è invece l’Arabia Saudita, che attualmente soddisfa il 50% del suo fabbisogno idrico attraverso questa tecnica. Secondo le stime, l’implementazione globale di questo sistema, unito a quello di recupero delle acque reflue, ridurrebbe la percentuale della popolazione mondiale che soffre di carenza d’acqua dal 40% al 14%. Se da un lato però la desalinizzazione può rappresentare una soluzione, dall’altro i suoi effetti sugli ecosistemi marini possono essere drammatici: secondo uno studio commissionato dalle Nazioni Unite, infatti, quasi 16mila impianti di desalinizzazione in tutto il mondo producono flussi maggiori del previsto di acque reflue altamente salate (142 milioni di metri cubi al giorno di salamoia, acqua composta da circa il 5% di sale, che spesso include tossine come cloro e rame) e sostanze tossiche che stanno danneggiando l’ambiente e la fauna marina.
Di fronte all’inasprimento dei conflitti e delle tensioni globali per l’acqua, esistono degli strumenti che tentano di ridurre il numero degli scontri e di promuovere la cooperazione internazionale. Fra questi compaiono gli accordi di condivisione dell’acqua: ne sono stati firmati più di 200 dalla fine della seconda guerra mondiale, come il Trattato sulle acque dell’Indo del 1960, tra India e Pakistan, o l’accordo tra Israele e Giordania, firmato prima del trattato di pace del 1994. Nonostante gli sforzi della comunità internazionale e l’inserimento del diritto umano all’acqua potabile e ai servizi igienici di base per tutti, fra gli obiettivi di sviluppo sostenibili delle Nazioni Unite per il 2030, molti tentativi sono andati però a vuoto e la richiesta dell’ONU di inserire una Convenzione globale sull’acqua, sui fiumi e sui laghi transfrontalieri è stata firmata solo da 43 Paesi.
Soluzioni immediate evidentemente non esistono, ma si può provare a invertire queste tendenze mettendo in atto alcune strategie mirate: per esempio, come suggerisce Andrea Karlsson, direttore del SIWI (Istituto Internazionale dell’Acqua di Stoccolma), si può rafforzare la cooperazione transfrontaliera, riducendo in questo modo il rischio di conflitti violenti. Attraverso la condivisione di dati e conoscenze, gli esperti potrebbero aiutare i governi a comprendere la gravità della situazione facendo sì che intervengano prima sul problema, e quindi con maggior probabilità di successo. Infine, bisognerebbe migliorare la governance dell’acqua: una gestione sostenibile di questa risorsa, infatti, può ridurre il rischio che finisca sotto il controllo di gruppi criminali, evitare lo scoppio di conflitti armati, la diffusione di malattie e il verificarsi di disastri ambientali.
Anche se fino a oggi la maggior parte dei conflitti per l’acqua ha avuto dimensioni generalmente ridotte e non è sfociata in vere e proprie guerre, il riscaldamento globale, la siccità prolungata e il conseguente esaurimento di questa risorsa potrebbero far presto degenerare la situazione. “Se le guerre del XX secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del XXI avranno come oggetto l’acqua,” sosteneva nel 1995 l’allora vicepresidente della Banca mondiale Ismail Serageldin e questa profezia sembra destinata ad avverarsi.