Dopo un anno di pandemia, l’umanità non vede l’ora di archiviare il Covid-19 come un brutto ricordo. Ci si illude che una volta usciti da quest’incubo saremo liberi di riprendere in mano le nostre vite dove le avevamo lasciate, di viaggiare e di abbracciarci senza paura del contagio. Ma in questo lungo anno la crisi climatica non ha smesso di distruggere il Pianeta e, se prima o poi l’epidemia da coronavirus sarà debellata o quanto meno contenuta, il riscaldamento climatico, al contrario, non si fermerà con l’immunità di gregge. L’aumento delle temperature sta facendo sciogliere i ghiacci più longevi, come quelli dell’Himalaya e della Siberia, con la conseguente devastazione dell’equilibrio degli ecosistemi, l’immane perdita di biodiversità e gli ingenti danni all’approvvigionamento idrico e alimentare. Inoltre, sta anche aumentando la diffusione di virus pericolosi. Per questo, se quando finirà la pandemia da Covid-19 non vorremo trovarci ad affrontarne altre, potenzialmente anche più pericolose, dobbiamo fermare la crisi climatica.
Uno studio pubblicato a gennaio 2020, infatti, mette nero su bianco un ulteriore rischio medico che dobbiamo tenere in conto nei prossimi anni, causato dallo scioglimento dei ghiacci. Il paper espone i risultati di una ricerca condotta a partire dal 2015 da un team di ricercatori statunitensi che hanno analizzato il contenuto microbico delle carote di ghiaccio prelevate nel nord-ovest dell’altopiano del Tibet. I ricercatori hanno perforato uno strato di ghiacciaio profondo 50 metri per ottenere due campioni. Al loro interno l’analisi microbiologica ha identificato 33 gruppi di virus, dei quali 28 sconosciuti e di origine antica. Lo studio delle carote di ghiaccio ha permesso di ripercorrere la storia climatica dell’area fino a 15mila anni fa. Il rischio è che, per effetto del cambiamento climatico che colpisce più duramente ai Poli, lo scioglimento dei ghiacci liberi i batteri intrappolati per tutto questo tempo. Facendo arretrare e assottigliare anche i grandi ghiacciai himalayani, infatti, l’emergenza climatica può liberare nell’atmosfera antichi virus sconosciuti e quindi potenzialmente pericolosi. Il biologo Jean-Michel Claverie, professore emerito di Genomica e Bioinformatica all’università francese di Aix-Marseille, sottolinea che un ulteriore pericolo viene dal fatto che le regioni più settentrionali del Pianeta, fino a oggi disabitate, a causa del disgelo sono sempre più interessate dalle ricerche minerarie di petrolio e terre rare, che scavando possono riportare in superficie non solo i minerali, ma anche le malattie sepolte.
Non sappiamo cosa potrebbe accadere se ci trovassimo faccia a faccia con patogeni sepolti da secoli, ma non bisogna sottovalutare i rischi: non avendo a che fare con quei virus e batteri da tempo, l’uomo non è più equipaggiato con gli anticorpi necessari ad affrontarli. Inoltre, alcune di queste patologie non si sono mai diffuse da quando esiste la medicina moderna, che non dispone quindi di studi affidabili su cui basare la produzione di cure e vaccini.
Il permafrost – lo strato di terreno ghiacciato costituito da biomassa vegetale stratificatasi nel tempo – è l’ambiente perfetto per conservare batteri e virus anche per milioni di anni perché è ghiacciato, privo di ossigeno e buio, spiega ancora Claverie, sottolineando che proprio lì possono trovarsi anche i responsabili delle epidemie globali del passato. Si tratta di patogeni che potrebbero liberarsi nell’aria ed entrare in contatto con le falde acquifere: tra questi il vaiolo, l’antrace e persino la peste bubbonica, oltre ad altre malattie sconosciute. Tutto questo può avvenire perché, mentre in condizioni normali ogni estate nel permafrost si scioglie uno strato di circa 50 cm di ghiaccio, che d’inverno torna a formarsi, con il surriscaldamento globale la copertura glaciale è in costante diminuzione: nell’Artico se ne perde ogni decennio quasi il 13%.
Oggi è concreto il rischio di riportare in vita il virus del vaiolo, responsabile di una malattia infettiva della piccola circolazione della cute, della bocca e della faringe, che ha un tasso di mortalità del 30-35% e provoca caratteristiche cicatrici sul volto e sul corpo dei sopravvissuti. Nei pressi delle rive del fiume Kolyma, nella Siberia nord-orientale, sono rimaste sepolte a lungo le vittime di un’epidemia di vaiolo che colpì la regione negli anni Novanta del diciannovesimo secolo e che in alcuni paesi e villaggi uccise fino al 40% della popolazione; oggi gli argini del fiume, sottoposti a disgelo ed erosione, riportano a galla lo spettro di quegli anni. Qui i ricercatori hanno rinvenuto dei frammenti del Dna del virus nei cadaveri sepolti nel permafrost tra il 1700 e il 1800, che riportavano cicatrici riconducibili al vaiolo.
È stato portato in superficie dai ricercatori anche il virus dell’Influenza spagnola – la più devastante epidemia nella storia moderna, con decine di milioni di morti in tutto il mondo tra il 1918 e il 1920 –, il cui studio può rivelare informazioni preziose non solo sul piano storico, ma anche su quello medico, fornendo una base per affrontare le influenze future. Oltre ai virus, possono sopravvivere per migliaia di anni (e tornare a colpire) anche i batteri che producono spore, come quelli responsabili del tetano e del botulismo. Nel corso di uno studio del 2005 un team di ricercatori statunitensi è infatti riuscito a riportare in vita batteri rimasti intrappolati in un lago ghiacciato dell’Alaska per 30mila anni. I microbi, del tipo Carnobacterium pleistocenium, erano rimasti ghiacciati fin dal Pleistocene e sono tornati a muoversi, all’apparenza senza aver subito danni nella lunga ibernazione. Nel 2007 gli scienziati hanno riportato in vita un batterio rimasto sotto la superficie di un ghiacciaio in Antartide per 8 milioni di anni.
Finché il virus della Spagnola e batteri scomparsi dalla Preistoria sono in grado di riattivarsi dopo un lungo sonno ma restano nei laboratori dei centri ricerca, i patogeni sono utili a scoprire di più su queste malattie e altre patologie derivate. Il problema sorge quando, a causa dello scioglimento del permafrost, contaminando le acque passano agli animali e si diffondono. Non si tratta di un rischio remoto: un episodio del genere si è già verificato nell’estate del 2016, quando un focolaio di antrace nel nord della Siberia uccise un adolescente e un migliaio di renne, oltre a infettare decine di persone.
L’antrace è un’infezione batterica che può dare vita a focolai endemici tra gli erbivori – come periodicamente accade – e trasmettersi all’uomo per contatto diretto, ma anche per ingestione di cibo contaminato o per inalazione delle spore del batterio. Con una letalità del 20% dei casi nella forma più comune, quella dermatologica, e fino al 75% in quella gastrointestinale, l’antrace ha un decorso piuttosto rapido. Il vaccino esiste, ma viene inoculato solo in casi di individui ad alto rischio, a causa dei suoi gravi effetti collaterali. Solo nel periodo compreso tra il 1897 e il 1925 nella Russia artica sono morti un milione e mezzo di cervi a causa dell’antrace, forse proprio per effetto della contaminazione da parte di batteri sopravvissuti nell’ambiente per circa 70 anni e ancora più a lungo nel permafrost. Questo è dovuto al fatto che spesso le carcasse si trovano all’aperto, semplicemente sepolte da strati di neve ghiacciata, data la difficoltà nello scavare sepolture più profonde nel terreno ghiacciato di quelle zone. A far tornare l’antrace nel 2016 sembra sia stata un’ondata di calore che sciolse lo strato superficiale di ghiaccio sotto il quale giacevano i resti delle renne uccise decenni prima dall’antrace. Una volta tornate alla luce le carcasse ancora infette, il batterio avrebbe contaminato il suolo e l’acqua, per passare prima agli animali e poi all’uomo.
Un ulteriore motivo di preoccupazione è sollevato da uno studio del 2016 di scienziati canadesi che hanno scoperto batteri del tipo Paenibacillus, sopravvissuti in una grotta sotterranea del New Mexico per quattro milioni di anni e molto resistenti a farmaci e antibiotici. La scoperta ha messo in luce l’esistenza di una classe di agenti patogeni con una resistenza agli antibiotici “naturale” e non determinata dall’abuso di farmaci degli ultimi anni.
Dalla scomparsa di intere città all’erosione delle coste a causa dell’innalzamento del livello dei mari, dallo sconvolgimento del clima a quello delle catene alimentari: sono molte le conseguenze dello scioglimento dei ghiacci, e il ritorno di malattie che credevamo scomparse è una di quelle di cui dovremmo preoccuparci di più. Oltre alle migliaia di vittime e ai danni sociali ed economici della pandemia, stiamo riscontrando anche le difficoltà legate alla distribuzione del vaccino anti-Covid. In pochi anni potremmo dover affrontare altre epidemie per le quali non abbiamo contromisure adeguate, oppure possiamo impegnarci davvero per arrestare lo scioglimento dei ghiacci, ridurre le emissioni inquinanti e fermare la deforestazione.