Quartieri popolari, un tempo degradati, con case vecchie, scarse infrastrutture, magari fuori dal centro e mal collegati a poco a poco vengono riqualificati, gli edifici ristrutturati, compaiono nuovi servizi e ristoranti alla moda: è la gentrificazione, il fenomeno che imborghesisce i quartieri, costringendo la popolazione locale a spostarsi, lasciando il posto prima agli artisti, poi alla classe media e infine alla borghesia. In Italia hanno subito più o meno recentemente la gentrificazione i famosi quartieri della Bolognina a Bologna, di Testaccio a Roma e di Isola a Milano – anche se gli esempi potrebbero essere molti di più. La forma di gentrificazione che sta investendo il mondo oggi, però, è di un nuovo tipo: climatica. Se il risultato è analogo (aumento dei prezzi, cambiamento della fascia demografica residente, emarginazione), le implicazioni sono forse ancora più complesse. Il processo, per certi versi, rivitalizza e riqualifica i quartieri con scarse risorse e grandi potenzialità, ma al contempo il costo della vita sale alle stelle e dunque diventa via via insostenibile per i residenti e le piccole imprese che li popolano, lasciando spazio a una nuova fascia demografica e trasformando spesso quartieri vitali in contenitori vuoti ma ben confezionati a beneficio dei più abbienti e dei turisti.
L’espressione “gentrificazione climatica” è stata coniata dai ricercatori Jesse Keenan, Thomas Hill e Anurag Gumber, autori di uno studio sull’andamento del mercato immobiliare di Miami in relazione alle inondazioni. In Italia è lecito aspettarsi che nei prossimi decenni il fenomeno riguarderà sempre di più le coste e le aree attraversate dai torrenti e investite da alluvioni devastanti – come quella appena vista nelle Marche, o quella del 2014 in Liguria e in Toscana –, ma anche le pianure esposte alla siccità e al caldo estremo, così come le zone sismiche centrali più trascurate dalla manutenzione e dai piani regolatori. Quello che potrebbe accadere è anticipato – con le dovute differenze del caso – da quanto sta avvenendo in modo massiccio negli Stati Uniti, dove i ricercatori tra il 1971 e il 2017 hanno rilevato un aumento del valore delle proprietà poste sui rilievi, al contrario che nelle aree pianeggianti. Il fenomeno è in corso da tempo, ma si è intensificato nettamente a partire dagli anni Zero: un caso eclatante ha coinvolto la ricostruzione di New Orleans dopo l’uragano Katrina del 2005, quando circa 100mila residenti Neri di New Orleans furono sfollati in modo permanente dalle loro case a causa della devastazione subita dagli alloggi economici, poi ristrutturati o ricostruiti.
Quel che succede in questi casi è che i residenti benestanti si trasferiscano negli ex quartieri a basso reddito, contribuendo a far alzare i prezzi di pari passo con il cambiamento dello stile di vita e della cultura delle città e dei singoli quartieri, dove aumenta anche il costo delle assicurazioni per eventi atmosferici. Sono, infatti, in particolare le città costiere – quelle in prima linea di fronte all’aumento del livello dei mari – a vedere arrivare un flusso di investimenti per progetti di riqualificazione o di costruzione di nuove strutture in grado di resistere agli eventi meteorologici estremi, all’erosione e all’innalzamento delle acque; le comunità meno abbienti – che spesso coincidono con minoranze razziali o di altro tipo – si trovano così strette tra i problemi connessi alla crisi climatica e la minaccia sociale-abitativa dell’aumento dei prezzi portato dagli investimenti per mettere in sicurezza quelle stesse zone, dato che nella maggior parte dei casi non sono proprietari delle case in cui abitano.
Nel 2016, Sean Becketti, l’economista a capo del colosso dei mutui Freddie Mac, aveva avvertito che la bolla immobiliare sarebbe riscoppiata presto: ora le sue previsioni si stanno avverando, lasciando presagire l’esplosione di una nuova crisi economica dopo quella del 2006. La dimensione del problema si può intuire pensando che nel solo 2018 negli Stati Uniti gli eventi atmosferici estremi hanno provocato oltre 1,2 milioni di sfollati, mentre già nel 2017, quando l’uragano Harvey colpì Houston, in Texas, una famiglia su sei vide la propria casa danneggiata o distrutta; quando queste famiglie poterono finalmente tornare, i prezzi delle case erano cresciuti in modo esponenziale.
Ed è così che le uniche case accessibili per i cittadini indigenti, ma spesso anche per la classe media, sono quelle esposte all’impatto devastante dei tornado e delle inondazioni, oppure degli incendi, mentre il flusso uguale e contrario delle famiglie ad alto reddito si allontana dalle proprietà costiere per evitare minacce come l’innalzamento del livello del mare e l’erosione e le tiene solo come possibili case delle vacanze, dove passare una parte circoscritta del loro tempo. Lo studio “Disaster on the Horizon: The Price Effect of Sea Level Rise” ha rilevato che questo tipo di case hanno un prezzo inferiore del 7% rispetto alle abitazioni meno esposte, un gap che aumenta in concomitanza con la pubblicazione di nuove prove scientifiche sull’entità e le tempistiche delle inondazioni. Questo, ovviamente, non significa che bisogna smettere di pubblicare ricerche sul clima, ma che la politica deve prendere dei seri provvedimenti, sia sul piano della mitigazione climatica, sia su quello sociale.
La recente crisi idrica della città di Jackson, in Mississippi, ad esempio, ha rappresentato un disastro proprio sul piano socio-economico, apoteosi di una sovrapposizione tra povertà, carenza di infrastrutture, discriminazione razziale e crisi climatica, in cui i cittadini – per oltre l’80% afrodiscendenti – si sono trovati senza acqua potabile in casa durante un’estate bollente. A essere coinvolte dal problema sono sempre più persone, dal momento che 10 delle 15 contee statunitensi che nel 2021 hanno registrato gli arrivi più massicci di nuovi residenti si trovavano nel Sud-Ovest del Paese, zone più lontane dall’erosione delle coste e dall’impatto degli uragani, ma che soffrono di cronica carenza d’acqua, comprese le aree desertiche, in cui l’aumento delle temperature medie è da record e che proprio per questo sono zone economiche alla portata della classe operaia, che la gentrificazione climatica costringe a trasferirsi. Come spiega Internazionale, un andamento migratorio simile lo stanno sperimentando gli Stati americani particolarmente esposti a tempeste e inondazioni, come la Florida, ma anche a incendi, come il Colorado e l’Idaho, mentre laddove le abitazioni sono più sicure – e costose – avviene uno svuotamento. Il fenomeno non è confinato agli Stati Uniti, ma si sta verificando anche nelle regioni dell’Australia e del Canada più colpite dagli incendi – sempre più massicci e anticipati di anno in anno – dove le aree suburbane, più vulnerabili all’impatto degli incendi (sia per la collocazione periferica che per la carenza di infrastrutture adatte), oltre che mal servite, si ingrossano sempre di più.
Nella gestione della crisi climatica non si possono non tenere in considerazione queste ricadute socio-economiche sugli abitanti, colpiti non solo dai danni ambientali e climatici, ma anche dalle iniziative di mitigazione, che possono essere esse stesse fattori di gentrificazione; non a caso si parla anche di “green gentrification”. Le più esposte sono innanzitutto le città più a rischio al mondo a causa dell’innalzamento dei mari e dei fenomeni atmosferici estremi: oltre a Miami anche New York, Tokyo, Londra, Shanghai e Hong Kong, metropoli cresciute gloriosamente proprio perché costruite sui porti di mare o di fiume; un’ulteriore dimostrazione del fatto che l’adattamento climatico deve includere una radicale ripianificazione urbana. Dai tetti verdi ai parchi, dai giardini con piantumazione di alberi, alla manutenzione dei canali e dei boschi, si tratta di strumenti utili a migliorare la gestione delle acque piovane e mitigare i rischi di inondazioni e isole di calore, tra le altre cose, ma che portano con sé anche conseguenze economiche e sociali, poiché fanno aumentare il valore di mercato dei quartieri in cui vengono implementati e attraggono investimenti e acquirenti ricchi. A perderci, però, sono le fasce di popolazione economicamente e socialmente vulnerabili, che di fatto, una volta messi in sicurezza, non possono più permettersi di abitarci. I prezzi, per loro ormai inaccessibili, li spingono così verso aree più economiche, cosa che, in uno scenario di crisi climatica, significa spesso meno sicure, perché più esposte a smottamenti, allagamenti, incendi, calore estremo, mancanza d’acqua o erosione dei suoli, ma anche dove gli edifici sono più vecchi, malsani e instabili e, quindi, vulnerabili ai danni in caso di terremoti e tifoni. Mentre i consulenti specializzati nelle ricostruzioni post-disastro si arricchiscono – non sempre in modo onesto come visto in Italia in seguito al terremoto dell’Aquila del 2009, quando, alla sottovalutazione del pericolo, si aggiunsero le speculazioni della ricostruzione – i cittadini, trasferendosi, devono accollarsi il rischio di subire danni e perdite, sia in termini economici che di sicurezza.
Nei Paesi in via di sviluppo, sono le città in grande espansione – come ad esempio Ho Chi Minh City in Vietnam e Mumbai in India – a subire perdite ancora più pesanti in proporzione al PIL. Perché anche la gentrificazione climatica, proprio come gli altri effetti della crisi climatica stessa, rende ancor più vulnerabili ed esposti i meno benestanti. Se è vero che tali effetti sono particolarmente evidenti oggi negli Stati Uniti, dove il liberismo sfrenato non prevede protezioni sociali per i cittadini, qualcosa in scala si può prevedere anche in Europa e in Italia, dove più del 18% dei comuni sono ad alto rischio idrogeologico e il 46% delle spiagge è esposto a erosione. E considerando che già abbiamo problemi abitativi e che i giovani italiani non possono permettersi di uscire dalla casa dei genitori prima dei 30 anni e devono fare i salti mortali per ottenere un mutuo, il futuro delle nostre case non si prospetta roseo.