Prendete Piero Angela, dategli la lingua inglese – con le possibilità comunicative senza confini che ne derivano – focalizzatelo sulle scienze naturalistiche e avrete David Attenborough. Nato nei pressi di Londra nel 1926, questo pilastro della divulgazione di qualità si è costruito una carriera monumentale nella documentaristica fin dagli anni Cinquanta, guadagnandosi il titolo di baronetto e la meritata autorevolezza che deriva dall’essere il miglior divulgatore naturalista al mondo. Più di 15 specie tra animali e piante sono intitolate a lui. Che, alla veneranda età di 94 anni, si espone ancora in prima linea in difesa dell’ambiente, sfruttando la propria notorietà per informare il suo ampio pubblico di quello che sta succedendo a quell’ambiente che lui stesso ha contribuito a far conoscere. Figure come quella di Attenborough oggi sarebbero più che mai necessarie, perché è anche grazie a lui se l’ambiente e la lotta in sua difesa stanno diventando popolari.
Dopo un’esperienza in marina e un lavoro come editor di libri scientifici per bambini, Attenborough negli anni Cinquanta approda alla Bbc come autore e speaker per la radio, prima di arrivare in tv. Quella per la storia naturale e il regno animale è un’attrazione immediata, che lo porta a produrre e a presentare i tre episodi di Animal Patterns, il primo di una serie di documentari realizzati dalla Travel and Exploration Unit della Bbc. Rivoluziona la scaletta dell’emittente prima di iniziare a lavorare in proprio al suo progetto di viaggio in Borneo, insieme al team della sezione Storia Naturale della Bbc, da cui scaturisce la serie Eastwards with Attenborough, nel 1973. Ma è nel 1979 che ha inizio Life on Earth, una delle serie documentarie più celebri al mondo, punto di riferimento per tutti i filmmaker amanti della natura. L’ecologia diventa sempre più centrale nel suo lavoro divulgativo, che continua per mezzo secolo a ideare e produrre documentari, prima come parte dell’organico della Bbc, poi come freelance. Nel 1990, The Trials of Life completa un ciclo ideale, focalizzandosi sul comportamento animale nelle diverse fasi della vita, non senza sconcertare gli spettatori con le crude immagini delle orche a caccia di leoni marini in Patagonia.
Per primo, infatti, Attenborough porta in tv anche gli aspetti più crudi della vita selvatica, senza edulcorare la quotidiana lotta per la vita, narrando con partecipazione e allo stesso tempo professionalità i combattimenti tra delfini e orche o quelli tra orsi bianchi e trichechi. D’altro canto, Attenborough è stato criticato da alcuni ambientalisti per non aver dato abbastanza rilievo al degrado ambientale, dando un’immagine idilliaca della natura che non corrisponde al vero. Nei suoi confronti, ad esempio, è stato molto duro l’accademico e attivista George Monbiot, che dalle pagine del Guardian un paio d’anni fa lo accusò di aver diffuso confusione e ignoranza, tradendo quella Terra che tanto dice di amare. Attenborough stesso, in effetti, si è tenuto a lungo lontano dai messaggi esplicitamente ecologisti, preferendo mostrare la natura nella sua spettacolarità, convinto che un martellante pessimismo sarebbe stato controproducente. Fino a quando non ha capito che non c’era più tempo da perdere e di dover approfittare della propria visibilità mediatica e della propria autorevolezza per dirlo a tutti.
Ed è così che, negli anni, Attenborough ha aumentato il suo impegno, sia come divulgatore, sia sfruttando la notorietà per sensibilizzare il pubblico su singole cause, come la difesa degli albatros dalle navi da pesca di cui spesso sono vittime o, a luglio scorso, sulla difficile situazione – anche finanziaria – in cui è ridotta, a causa della pandemia, la Zoological Society di Londra. Non ha usato mezze parole quando nel 2013, durante un’intervista a Radio Times, ha definito gli esseri umani come “una piaga sulla Terra” e ha criticato la beneficenza delle potenze occidentali che inviano aiuti alimentari ai Paesi in via di sviluppo, senza affrontarne i problemi strutturali. Più recentemente ha criticato il sistema socio-economico in cui viviamo, sostenendo: “Gli eccessi dello sviluppo capitalista vanno tagliati per difendere la natura […]. Occorre una società più equa, in cui coloro che hanno di più abbiano un po’ di meno. L’avidità non conduce alla gioia, possiamo vivere in un modo diverso ed essere più felici”.
Ma sono anche i suoi lavori a diventare sempre più impegnati, cosa probabilmente inevitabile per chi conosce a fondo la natura, l’ha esplorata e l’ha vista cambiare nel corso di un secolo. Uno dei tasselli più incisivi del suo impegno è stato forse Extinction: The Facts (2020) – centrato sulla perdita della biodiversità e sulle sue conseguenze per tutti noi – la cui lavorazione è stata seguita anche della docente di Biologia della conservazione Julia Jones, che in passato si era espressa proprio sul senso di frustrazione che provava vedendo la natura rappresentata continuamente, anche nei documentari di Attenborough, solo nei suoi aspetti più piacevoli, senza affrontare la dura verità del suo stato di salute. Il film tratta – inevitabilmente – anche il tema urgente della connessione tra la perdita di biodiversità e la diffusione delle patologie e chiarisce il ruolo che in quella devastazione hanno i Paesi più ricchi – noi compresi: se tutti vivessero come l’Italia servirebbero 2,7 pianeti Terra per soddisfare le necessità di tutti – mettendo in luce il prezzo delle nostre abitudini di consumo, tra cibi fuori stagione, fast fashion e carne a buon mercato. Non sono temi inesplorati, ma a essere rivoluzionario è il fatto di averli portati in prima serata nelle case degli inglesi, attraverso il mezzo di comunicazione più conservatore che ci sia – la tv – e a opera di una delle figure più autorevoli della cultura e della divulgazione.
Nonostante l’età e la lunga carriera alle spalle, Attenborough è stato capace di aggiornarsi – e di farlo mantenendo i suoi standard qualitativi – senza fermarsi nemmeno negli ultimi decenni, ormai anziano. Con State of the Planet nel 2000 si focalizza sulle conseguenze disastrose delle attività antropiche, usando materiali scientifici e interviste a esperti naturalisti e scienziati, per passare ad affrontare il tema del surriscaldamento climatico con The Truth about Climate Change (2006) e il problema demografico con How Many People Can Live on Planet Earth? (2009). E ancora, nel 2007 dedica alle specie a rischio Saving Planet Earth. L’anno scorso è stato il narratore degli otto episodi di Our Planet, realizzata per Netflix, piattaforma su cui è da poco uscito anche David Attenborough: A Life on Our Planet, il suo ultimo lavoro. Qui, partendo da una retrospettiva sulla lunga carriera di Attenborough, si racconta la storia dei più grandi errori umani, ma si guarda anche al presente. L’obiettivo è di ricordarci che, mentre il tempo passa, la natura continua a essere distrutta e tutto ciò viene fatto attraverso crudi dati e riprese commoventi del “prima e dopo” di alcuni habitat oggi ormai distrutti. Catastrofico al punto giusto, ma non senza speranza: nell’ultima mezz’ora Attenborough ci ricorda infatti che se agiamo adesso, e lo facciamo tutti insieme, non è ancora troppo tardi.
Dal controllo demografico alla creazione di no-fishing zones, alla scelta di una dieta vegetariana, il naturalista sostiene che si possa ancora e si debba necessariamente raddrizzare la rotta: “Dobbiamo imparare a lavorare con la Natura, non contro di essa”. Invita gli spettatori a limitare il consumo di prodotti animali, insostenibile per il Pianeta, pur ammettendo di mangiare qualche volta pollo e pesce e dichiarandosi colpevole dell’ipocrisia borghese di chi può permettersi di spendere di più facendo attenzione alla provenienza. Vivere senza avere alcun impatto sull’ambiente è impossibile per definizione, ma ciò che potremmo fare impegnandoci – anche in modo imperfetto – è comunque molto più potente e più realistico di quanto possano fare pochi, perfetti, incorruttibili.
Negli ultimi anni il messaggio di David Attenborough si è fatto più politico, o forse lo era già, ma aveva una forma diversa. Forse, fin dall’inizio, facendoci meravigliare e affezionare a quei paesaggi e a quelle creature meravigliose, ci stava preparando. Avete visto quanto è bello il mondo? Ecco, scordatevelo, perché tutto quello che vedete, tutta questa meraviglia sta scomparendo e siamo noi a distruggerlo. Insieme ai suoi collaboratori Attenborough ha raggiunto un’audience di 4 milioni e mezzo di spettatori in Regno Unito, raccontando il traffico illegale dei pangolini e l’estinzione imminente del rinoceronte bianco. “Comunicare le minacce che incombono sul nostro habitat naturale e le coraggiose soluzioni necessarie a salvarlo non è mai stato tanto vitale e urgente come in questo momento”, ha spiegato durante il collegamento del Wildscreen Festival, la rassegna annuale sui più importanti fotografi, registi e attivisti in difesa della natura e contro il cambiamento climatico, quest’anno inevitabilmente in versione virtuale. In quella stessa occasione ha anche espresso stima nei confronti di Greta Thunberg di cui ha detto: “Ha realizzato un’impresa sfuggita a molti di noi che combattono da decenni su questi temi”. Da uomo saggio, il grande divulgatore dei giovani – i più diretti interessati (e in più interessati in toto) dalla crisi climatica – non disdegna i mezzi di comunicazione: qualche mese fa il suo esordio su Instagram ha fatto il record, raggiungendo un milione di follower in poco meno di 5 ore, bruciando il precedente di Jennifer Aniston, a dimostrazione che, nonostante i suoi 94 anni, la competenza e la qualità possono essere apprezzati su ogni piattaforma, da un pubblico di qualsiasi età; e che quel che Sir David Attenborough ha da dirci vale ancora la pena di essere ascoltato.