Durante il lockdown siamo stati tempestati di foto (non sempre vere) con animali selvatici che popolavano aree urbane, con fiumi dalle acque cristalline: sembrava che la natura si stesse riprendendo i suoi spazi. Anche organismi come l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) traevano la frettolosa conclusione che la pandemia avrebbe provocato il “più grande crollo di emissioni CO2 della storia, più della seconda guerra mondiale e dell’influenza spagnola”. Dalle immagini dell’atmosfera limpida diffusa dalla Nasa dopo lo stop delle attività in Cina, tra gennaio e marzo è stato diffuso il messaggio semplicistico che il Covid-19 avrebbe fatto bene all’ambiente: studiosi e narratori dei cambiamenti climatici come Mark Lynas non hanno atteso dati per profetizzare che le generazioni future avrebbero “sicuramente ricordato il 2020 come l’anno nel quale l’umanità sconfisse la pandemia e salvò il pianeta”. Un entusiasmo smontato subito dopo la fine dei lockdown dalle misurazioni dell’inquinamento nell’aria dei centri di ricerca nazionali e internazionali, come il Crea in Finlandia o l’Organizzazione meteorologica mondiale (Omm), che hanno indicato al contrario un impatto solo temporaneo e minimo del netto abbattimento delle emissioni CO2 nei primi mesi dell’anno, riprese subito a salire seppur gradualmente.
Gravi effetti a lungo termine sul Pianeta avrà invece la deforestazione dell’Amazzonia, che secondo i dati dell’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe) del Brasile, solo tra gennaio e aprile del 2020 è aumentata del 55% rispetto agli stessi mesi del 2019. Tonnellate in più di rifiuti di plastica, tra mascherine e altre protezioni sanitarie, stanno poi invadendo l’ambiente. Ancora questa estate Greta Thunberg ha dichiarato, facendo riferimento alle evidenze emerse, che sono stati “persi altri due anni per il clima”. Non solo lo spillover del Covid-19 dal pipistrello all’uomo sembra essere una delle conseguenze della distruzione degli ecosistemi; non solo diverse ricerche in corso avvalorano la tesi che con l’aria inquinata il virus si diffonda più velocemente e che i suoi sintomi siano più gravi sui malati. In questo periodo, il Covid-19, oltre a essere frutto della crisi ambientale e a essere rinforzato dagli habitat inquinati che offre, sta anche peggiorando l’emergenza climatica: due nuovi rapporti di settembre delle Nazioni Unite ribadiscono infatti che le speranze sugli effetti rigeneranti dei lockdown sono illusorie.
Il punto di “United in Science” 2020 rispetto agli ultimi dati sul clima – accorpati dall’Omm in un’analisi congiunta con la Commissione oceanografica intergovernativa dell’Unesco, il Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc) e il Programma per l’ambiente dell’Onu (Unep), l’organizzazione Global Carbon Project e il Servizio meteorologico britannico (Mer) – ci avverte che nel 2020 “il trend degli ultimi decenni non è cambiato”. “Mentre la pandemia del Covid-19 ha sconvolto le vite in tutto il mondo, il riscaldamento del nostro Pianeta e le perturbazioni climatiche sono continuate a ritmo sostenuto. I record di caldo, scioglimento dei ghiacci, incendi, inondazioni e siccità continuano a peggiorare”, si afferma nel report. Lo scenario di Lyna di poter “mantenere la tendenza annuale di riduzione del 7% delle emissioni” del 2020, per rimettere così il “mondo sulla buona strada nel centrare il target del riscaldamento medio entro 1,5°-2°, salvando barriere coralline e foreste fluviali, evitando una crisi globale dei rifugiati, limitando l’innalzamento del livello del mare e conservando gran parte della calotta polare artica ghiacciata” è a dir poco irrealistico, come è evidente anche dai mari dell’Artico ancora caldi. Innanzitutto perché, subito dopo le riaperture, la frenesia per il rimbalzo delle economie nazionali ha spinto i Paesi a riprendere a inquinare a ritmo sostenuto come prima e potenze come gli Stati Uniti non hanno neanche mai fermato le loro attività produttive.
Riaccesa la domanda energetica occidentale, pur in un quadro annuale di contrazione, da maggio nei Paesi esportatori le estrazioni di idrocarburi sono tornate a crescere, come fotografano i report mensili dell’Opec fino a questo ottobre. Anche in Europa il brusco calo dei consumi energetici è stato archiviato con le riaperture dell’estate, ben prima che la Commissione e i governi dell’Ue potessero definire il loro Green Deal. Queste ripartenze senza svolte verdi sono la ragione per cui il report multidisciplinare dell’Onu segnala come le emissioni CO2, seppur diminuite del 17% nel picco dei confinamenti per la pandemia di aprile rispetto allo stesso mese del 2019 (tornando ai livelli del 2006), fossero poi già a giugno risalite a un livello del 5% inferiore all’anno precedente e “siano probabilmente in ulteriore aumento”.
Se anche, come prevedono le stime, alla fine del 2020 si registrasse una diminuzione globale tra il 4% e il 7% delle emissioni a causa del Covid, il calo non inciderebbe sul tasso della loro concentrazione nell’atmosfera, in quanto quest’ultimo è il risultato di anni e anni di emissioni di gas serra. L’Onu segnala infatti che, come nel 2019, “nel 2020 le concentrazioni nell’atmosfera di CO2 sono continuate ad aumentare” e che la flessione nell’ultimo anno nelle emissioni “condurrà solo a una piccola riduzione dell’aumento annuale delle loro concentrazioni”.
L’altro rapporto delle Nazioni Unite, “Shaping the Trends of Our Times”, stilato dalla rete di economisti di Palazzo di Vetro, prevede che, al di là delle ripartenze industriali, il trend negativo degli indici sul clima continuerà nei prossimi anni, anche per gli effetti pervasivi delle diseguaglianze globali, acuite dalla pandemia. “Gli effetti devastanti della crisi per il Covid-19”, scrivono gli esperti, “hanno ulteriormente diminuito le prospettive degli Stati di raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu per uno sviluppo sostenibile”. Se infatti negli ultimi decenni si era assistito a un “declino sostanziale della povertà” nel mondo, facendo “progressi nella prosperità”, pur “a costo quasi sempre del degrado e del danneggiamento ambientale” e “nel segno delle diseguaglianze”, ora la “pandemia influisce su tutti questi megatrends”, aggravando gli squilibri dello sviluppo globale. Ciò significa che i danni collaterali, economici e sociali, dell’epidemia in un grande Paese industrializzato ma ancora con enormi sacche di povertà e densamente popolato come l’India, ad esempio, si ripercuoteranno a lungo sulla sua crescita, e parallelamente anche sul clima. Eppure, in primavera si celebravano i presunti effetti benefici del Covid-19 sulle città indiane tre le più inquinate al mondo, secondo il “World Air Quality Report” del 2019, protagoniste di una presunta “rinascita ambientale”. Una boccata di ossigeno durata poco, visto che adesso i contagi dilagano nelle megalopoli indiane ricoperte dallo smog: oltre 5mila 500, delle oltre 120mila morti per Covid in India, sono state registrate a Nuova Delhi, a oggi la città più inquinata al mondo secondo l’Air Quality Index del 2020. Con una mossa risibile, le autorità indiane hanno lanciato una campagna contro l’inquinamento, avvertendo la popolazione che lo smog dell’inverno avrebbe reso più virulenta l’epidemia: come se la responsabilità in cui versano certe città del subcontinente indiano fossero dei cittadini e non delle annose e cattive politiche delle amministrazioni degli Stati e dei governi indiani.
Il Brasile è un altro caso di come l’impatto devastante della pandemia sia da un lato il risultato del forte divario nelle condizioni di vita della popolazione, esasperato dalle politiche del governo Bolsonaro, dall’altro il motore stesso di crescenti squilibri, anche ambientali. Il presidente Jair Bolsonaro, espressione dell’ultradestra reazionaria latifondista e industriale, approfitta della paralisi per il Covid-19, che ha bloccato e sta rallentando anche il monitoraggio sul clima e le battaglie degli ambientalisti, per regalare le risorse naturali ai privati. Non è un caso che, nel pieno della pandemia che sta sterminando diverse comunità di indios, la deforestazione dell’Amazzonia non solo non si è fermata, ma come abbiamo detto è in forte aumento: del 70%, tra l’agosto 2019 e il maggio 2020, ha denunciato sulla rivista scientifica Pnas il botanico statunitense Douglas C. Daly. Partner del progetto dell’Istituto governativo brasiliano Chico Mendes per la Conservazione della Biodiversità (Icmbio), Daly racconta come, con i blocchi agli spostamenti i ricercatori non siano stati più liberi di operare sul campo né di accedere ai laboratori. Come ha ricostruito l’istituto per la conservazione della foresta pluviale Imazon, solo lo scorso aprile il tasso di deforestazione dell’Amazzonia è cresciuto del 171%: un’area di circa 530 kmq, tre volte la città di Milano.
Dopo aver accentrato sull’ufficio della presidenza le competenze forestali, Bolsonaro continua a tagliare i finanziamenti e il personale di agenzie per l’ambiente come l’Inpe e l’Icmbio, militarizzando l’Amazzonia così da dare mano libera ai taglialegna. Eguale carta bianca, negli Stati Uniti, ha per Donald Trump l’industria petrolifera: non il Green New Deal, ma mantenere i sussidi ai combustibili fossili è stato uno dei temi più accesi della campagna presidenziale. L’International Solid Waste Association stima che nei mesi di pandemia il consumo di plastica monouso solo negli USA si sia gonfiato del 300%. In Italia l’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale (Ispra) calcola che alla fine del 2020 quasi 300mila tonnellate di mascherine (circa 1240 al giorno) saranno finite tra i rifiuti indifferenziati, quando non in strada o in mare. Ogni giorno il mondo è sommerso di nuovi rifiuti non riciclabili e lo sarà almeno fino al 2021 inoltrato, quando – nella migliore delle ipotesi – si sarà avviata la distribuzione dei vaccini e staranno decollando i progetti sul clima, cardine dei recovery fund del piano Next generation Eu. Come se non bastasse, alla fine di ottobre il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza (425 sì, 212 contrari e 51 astenuti) i nuovi piani di Politica agricola comune (Pac) per i prossimi 7 anni: circa 387 miliardi di euro “che solo per il 6% dei fondi sono riservati a piccole e medie imprese”. Il resto, denunciano i giovani attivisti dei Fridays For Future, andrà ancora “a finanziare agricoltura e allevamento intensivi – rendendo impossibile ridurre le emissioni di gas serra del settore, attualmente il 17% di tutte quelle che produciamo”.
Cambiare rotta per il clima, impegnandosi anche per gli obiettivi dell’Agenda 2030 sulla sostenibilità, resta più che mai uno sforzo collettivo essenziale e non rinviabile per la sopravvivenza del Pianeta e di chi lo abita. L’Onu esorta i “leader a unirsi alla scienza, come per la pandemia, e a intraprendere un’azione urgente”; non esistono scorciatoie: né uno né altri “lockdown a breve termine possono sostituirsi ad azioni durature per il clima”.