Quella che si è aperta il 31 ottobre a Glasgow è la 26a Conferenza delle Parti (Conference of Parties), in cui gli Stati membri delle Nazioni Unite si riuniscono per decidere come fronteggiare l’emergenza climatica. È prevista la partecipazione di 30mila persone, in rappresentanza di oltre 200 Paesi, compresi lobbisti e attivisti. Si tratta di negoziati complessi, con blocchi di interesse intrecciati, in cui le linee di demarcazione si giocano spesso su temi di giustizia sociale.
La prima diseguaglianza è numerica: la pandemia ha aumentato i costi e i rischi di trasferta per i rappresentanti dei Paesi poveri, meno vaccinati, ancora in balìa del virus, che saranno sotto-rappresentati a Glasgow rispetto ai Paesi più ricchi.
Tra i principali oggetti di contesa: come ripartire gli obiettivi di riduzione delle emissioni e i costi per la transizione energetica. Sui principi generali sono tutti d’accordo: chi è responsabile della maggiore porzione di emissioni deve avere gli obiettivi più stringenti e pagare la maggior parte dei costi. Ma quando si entra nel dettaglio, iniziano i motivi di discordia.
Alle Conferenze delle Parti le nazioni si trovano a fare i conti con la storia. Letteralmente. Il ciclo del carbonio lavora su tempi lunghi. Una volta immesso in atmosfera sotto forma di CO2, il carbonio rimane in circolo dai 300 ai 1000 anni. Secondo stime recenti, metà di quello che oggi surriscalda il Pianeta è stato emesso dal 1750 al 1990. Si tratta anche del risultato della railwaymania dell’Ottocento, quando le compagnie britanniche costruivano ferrovie in tutto l’Impero britannico per i loro treni alimentati a carbone. Poi ci sono le conseguenze dei grandi disboscamenti coloniali, portati avanti per far posto alle piantagioni estensive dalle compagnie mercantili europee; le emissioni legate alle due guerre mondiali, per la produzione di massa per lo sforzo bellico in Europa, Giappone e Stati Uniti; c’è l’impronta del piano di infrastrutture post bellico per la riconversione dell’industria di guerra per scopi civili, della motorizzazione di massa e del boom edilizio degli anni Cinquanta.
Tenendo conto di tutto questo, come valutare la responsabilità delle nazioni per l’attuale emergenza climatica? Fotografando le emissioni attuali, con paesi come India e Cina ancora legati al carbone e in pieno boom industriale, o risalendo indietro nel tempo, quando entrambi erano popolati da agricoltori quasi vegetariani che conducevano esistenze a basse emissioni?
Se vogliamo rimanere sotto la soglia di 1,5 gradi dell’aumento delle temperature medie rispetto all’era preindustriale, ovvero entro l’obiettivo fissato dagli Accordi di Parigi, la quantità massima di CO2 che possiamo ancora immettere in atmosfera è stimata intorno ai 500 miliardi di tonnellate, un quinto in più di quello che abbiamo già emesso. L’equa ripartizione di questo residuo è motivo di non poche tensioni tra nazioni. Bruciare carbone e petrolio è ancora il modo più economico per sostenere la crescita economica e i Paesi industriali emergenti, che hanno iniziato da poco a emettere grandi quantità di CO2 , chiedono di poter fare ancora affidamento su fonti fossili per alcuni decenni.
L’altro grande motivo di discordia da sciogliere a Glasgow riguarda il calcolo delle emissioni attuali. Quale dato considerare, emissioni assolute o pro-capite? La popolazione della Cina e dell’India insieme raggiunge quasi tre miliardi, ed entrambi i Paesi sono nel pieno di un boom industriale paragonabile a quello dei nostri anni Cinquanta. In termini assoluti oggi sono responsabili del 35% delle emissioni globali. Eppure ogni cinese consuma un ottavo dell’energia di un nordamericano medio, un quarto di un europeo. Ogni indiano ha un fabbisogno energetico pari a un dodicesimo di un nordamericano e un sesto di un europeo. A chi assegnare gli obiettivi più stringenti? A complicare la situazione negoziale è il fatto che i Paesi di nuova industrializzazione sono quelli dove Europa e Nord America hanno delocalizzato le proprie produzioni: le loro emissioni crescono, ma a beneficiarne sono ancora una volta i consumatori occidentali che hanno a disposizione prodotti a basso costo realizzati all’estero.
Altre linee di demarcazione negoziali riguardano i diversi gradi di esposizione al pericolo. Paesi settentrionali come la Russia hanno meno da temere dai cambiamenti climatici, anzi: lo scioglimento del permafrost della Siberia potrebbe rendere coltivabili milioni di ettari di suolo, l’Artico potrebbe diventare navigabile tutto l’anno, aprendo nuove rotte commerciali. È chiaro che la posizione negoziale della Russia, esportatore di gas naturale tra i più importanti del mondo, è molto diversa rispetto a un Paese tropicale come il Bangladesh, 165 milioni di abitanti in un territorio che per i due terzi non supera l’altitudine di cinque metri sul livello del mare, che rischia di finire sommerso e dove, se le temperature continuassero a crescere al ritmo attuale, gran parte delle aree urbane del Paese potrebbero diventare inabitabili entro il 2100.
Infine, sulla posizione dei diversi Paesi nei negoziati pesa la presenza più o meno massiccia dell’industria estrattiva e dei settori più energivori nelle rispettive economie, ragionamenti che riguardano il saldo commerciale e le esportazioni, temi occupazionali e valutazioni sulla capacità di gestione del cambiamento delle rispettive popolazioni, nel sistema delle imprese, nella formazione, nelle organizzazioni dei lavoratori.
Su questi macro temi si gioca il sistema delle alleanze delle COP. Un puzzle complesso che vede su fronti opposti Paesi di nuova e di antica industrializzazione, Paesi temperati, boreali o tropicali, Paesi esportatori di petrolio e carbone o economie di trasformazione come quella italiana, importatori netti di energia; Paesi altamente scolarizzati, con una buona propensione all’innovazione, efficaci sistemi di formazione e di supporto a nuove imprese o Paesi con blocchi di interesse inamovibili poco propensi al cambiamento.
Intorno alla COP di Glasgow ci sono enormi aspettative. Con un anno di ritardo (causa Covid) rispetto alla tabella di marcia fissata a Parigi nel 2015, questo è il primo round di verifica in cui ogni cinque anni gli Stati firmatari si impegnano a dare sostanza agli Accordi sul Clima, fissare obiettivi intermedi, descrivere i provvedimenti per arrivarci, stabilire incentivi e sanzioni.
L’efficacia dei negoziati dipenderà molto da quanto i governi saranno capaci di trovare compromessi efficaci, venendo incontro alle esigenze delle controparti. Di sicuro i Paesi di antica industrializzazione dovranno tenere conto che la loro ricchezza è stata accumulata deforestando, bruciando petrolio e carbone quando Paesi come India e Cina vivevano in economie agricole a basse emissioni.
L’Europa può avere un ruolo chiave nei negoziati. Con livelli di emissioni più contenuti rispetto ad altri Paesi occidentali e con un percorso negoziale più coerente rispetto alle titubanze degli Stati Uniti, i Paesi Ue hanno più credibilità nel dialogare con quelli industriali emergenti.
Con la sua tradizione di relativo buon governo del territorio, l’Europa è la regione al mondo che con più convinzione può testimoniare i vantaggi della transizione energetica. Lo si vede soprattutto nel Nord Europa: l’idea di una società a basse emissioni è desiderabile indipendentemente dal rischio climatico. Fare un upgrade tecnologico, rendere più efficienti le produzioni e gli usi energetici, vivere in case ben coibentate, abitare in città meno inquinate, meno rumorose e meno ingombre di auto, città più raccolte sui quartieri, dove si sprecano meno ore negli spostamenti, avere un’alimentazione più equilibrata senza eccessi di carne bovina, liberarsi dalla instabilità geopolitica legata alla dipendenza dal petrolio: sono tutti obiettivi realistici, fattibili, e soprattutto appetibili, non sacrifici.
Se portata avanti tenendo conto di criteri di giustizia sociale – tra regioni del mondo e tra blocchi di popolazione all’interno di ogni nazione –, la transizione energetica può diventare un grande progetto collettivo di cui le nostre società, in preda a sbandamenti populisti e qualunquisti, hanno bisogno. Al contrario, se abbandonata a se stessa, bloccata dallo stallo politico, la questione energetica e climatica può diventare fonte di enormi tensioni sociali, guerre commerciali a catena, esodi di massa, aprendo scenari imprevedibili.