Secondo il Plastic Waste Makers Index della Minderoo Foundation nel 2021 la produzione di plastica usa e getta al mondo ha raggiunto un nuovo record, finendo in 139 milioni di tonnellate di rifiuti – cioè 6 milioni di tonnellate in più rispetto al 2019. Si tratta di circa un chilo in più a testa per ciascun abitante della Terra, e considerando che proprio i dati del 2019 parlano di 570mila tonnellate di plastica che finiscono nel Mediterraneo ogni anno, questa proporzione approssimativa non dà buone notizie, non solo per il mare, ma per tutti. Nonostante i passi avanti fatti a livello normativo e una maggior sensibilità nella popolazione sul problema ambientale della plastica, i numeri continuano ad aumentare, trainati dallo stile di vita dominante, che si fonda in gran parte su questo materiale e sulle comodità che offre, tanto dannosa quanto radicata nel nostro modo di pensare. Siccome la versatilità e il basso costo della plastica portano con sé anche grosse problematiche ambientali, specie se si tratta di beni monouso che foraggiano un ciclo continuo di produzione e spreco, è indispensabile ridurne immediatamente e drasticamente l’uso e quindi la produzione a livello mondiale. Il problema è che ciò da mettere in pratica è molto difficile perché contrasta enormi interessi economici, in primis quelli dell’industria del petrolio, ma non solo.
Il problema ambientale è considerevole: venti dei maggiori produttori mondiali di polimeri vergini impiegati nella produzione di plastica monouso – l’americana Exxon Mobil e la cinese Sinopec in testa – hanno generato nel solo 2021 più di 450 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra. La filiera produttiva implica poi anche milioni di litri di acque reflue, contenenti sostanze chimiche tossiche e metalli come selenio, azoto e nichel, e poi cloruri e solfati, che ogni giorno raggiungono fiumi e torrenti, danneggiando gli ecosistemi e le popolazioni dei dintorni, perché per esempio possono corrodere le tubature del sistema idrico, contaminando l’acqua potabile. E questo solo per quanto riguarda la produzione: si aggiunge poi lo smaltimento, particolarmente problematico anche perché il riciclo è molto difficile, e infatti le percentuali di riciclo non crescono abbastanza velocemente per far fronte alla quantità di materiale prodotta. E comunque non può essere una soluzione reale anche perché, per continuare a essere flessibile e performante, la plastica può contenere solo una quantità minima di materia riciclata per cui è molto probabile che le destinazioni finali siano le discariche, ma anche spiagge, fiumi e mari. Tracce di plastica, infatti, si trovano nella maggior parte – circa l’80% secondo le indagini di Gesamp, l’organizzazione di scienziati consulenti dell’Onu – degli animali e ormai anche nel corpo umano, dal sangue alla placenta, con conseguenze che al momento non siamo nemmeno in grado di immaginare.
Tutti questi problemi sono aggravati e ingigantiti dalla logica del monouso, che determina livelli di consumo elevati e un ciclo che porta incessantemente dalla produzione al rifiuto, senza soluzione di continuità, e in cui l’effettivo utilizzo rappresenta una parentesi di tempo molto ridotta. Questo sistema è quindi estremamente inefficiente, non tanto sul piano dei costi diretti – il successo della plastica, usa e getta compresa, è dovuto proprio ai prezzi molto contenuti – ma soprattutto su quello delle cosiddette esternalità negative, cioè le conseguenze dell’utilizzo e dello smaltimento del materiale: i costi ambientali – come quelli legati alla compensazione delle emissioni – e i costi sulla salute umana. Ci sono poi i costi legati alla raccolta e allo smaltimento, che sono parzialmente a carico dei contribuenti, anche se la vera e propria “plastic tax” sugli imballaggi monouso, che dovrebbe disincentivarne l’uso, non è rientrata nella Legge di Bilancio del governo Meloni.
Intanto, sono sempre di più le iniziative legislative che puntano a ridurre la plastica in circolazione: in California lo scorso giugno è stata approvata una normativa che pone obiettivi di riduzione degli imballaggi entro il 2032; il Regno Unito, invece, ha ampliato la lista degli articoli usa e getta vietati; e poi ci sono i divieti in vigore in Australia, mentre l’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente ha creato il primo trattato globale sull’inquinamento da plastica al mondo e oggi un comitato intergovernativo sta lavorando per redigere entro il 2024 un accordo vincolante sul ciclo di vita della plastica. In Europa, il Piano d’azione per l’economia circolare delinea una strategia per raggiungere l’obiettivo di assicurare entro il 2030 la piena riciclabilità di tutti gli imballaggi sul mercato europeo e il riciclo di oltre la metà dei rifiuti plastici; si punta, inoltre, a diminuire la produzione dei rifiuti di plastica, ponendo l’attenzione sui prodotti monouso e sugli attrezzi per la pesca – tra i maggiori problemi per quanto riguarda i mari – che sono oggetto della Direttiva UE 2019/904. Questa, in Italia, è stata recepita attraverso il Decreto Legislativo 196/2021, che però è meno stringente, dato che esclude dal divieto i prodotti biodegradabili e compostabili – che possono però essere comunque realizzati anche con materiali fossili – che presentano una percentuale di materia prima rinnovabile pari o superiore al 40% per il 2023, che dall’anno prossimo sarà portato al 60%. Altri limiti alle iniziative statali sono posti dalla mancanza di alternative altrettanto efficienti ed economiche, come dimostra il caso dell’India, dove le normative hanno finora dimostrato scarsa efficacia, anche perché ai divieti – che peraltro hanno coinvolto solo il 2-3% del totale dei rifiuti di plastica generati – non sono seguite sanzioni per chi li viola.
Anche la consapevolezza dei cittadini sui problemi che la plastica porta con sé, comunque, sta aumentando, almeno stando ai dati raccolti da un sondaggio Ipsos da cui emerge che oltre 70% dei consumatori in tutto il mondo vorrebbe che la plastica monouso sia vietata. Realizzare questo desiderio, però, è ancora difficile e anche gli obiettivi meno ambiziosi perdono senso se da un lato i Paesi vietano la plastica e dall’altra supportano il settore su cui questa si fonda: quello dei combustibili fossili. Questi, infatti, ricevono sussidi che nel corso del 2021 sono quasi raddoppiati rispetto all’anno precedente, arrivando a sfiorare i 700 miliardi di dollari, dato in conflitto rispetto agli obiettivi di riduzione delle emissioni. E sono proprio i sussidi a contribuire a mantenere la plastica particolarmente conveniente, caratteristica che, insieme a flessibilità, leggerezza, durata e versatilità, rende questo materiale ancora imbattibile sotto molti punti di vista e quindi molto difficile da abbandonare.
Il comparto degli idrocarburi, non a caso, da anni ha individuato proprio nella plastica la chiave per continuare ad arricchirsi nonostante la transizione che è in atto, almeno nei settori dell’energia (ricavata sempre più spesso da fonti rinnovabili) e dei trasporti, sempre più elettrici. Questi settori fino a oggi erano i principali traini della domanda mondiale di petrolio, ma a breve saranno sorpassati proprio dalla plastica che, insieme ad altri prodotti petrolchimici come fertilizzanti e solventi, rappresenterà presto il 50% della crescita della domanda di petrolio. Già nel periodo tra il 2012 e il 2019 le 12 maggiori aziende petrolchimiche del mondo hanno annunciato complessivamente 88 nuovi progetti per accrescere la propria capacità produttiva e l’espansione delle infrastrutture, e la situazione per ora non sembra destinata a cambiare. Non a caso, i maggiori Paesi produttori di polimeri sono proprio i giganti petroliferi, come Stati Uniti e Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che per diversificare la propria economia stanno anche cercando di convertirsi in mete turistiche di lusso.
La pandemia ha rallentato i tentativi di riduzione della plastica monouso – per ragioni di norme igieniche da un lato e per il boom di acquisti online e cibo a domicilio dall’altro. Il settore sanitario, in effetti, ne impiega moltissima, anche se c’è chi si sta occupando di ridurne l’impiego e di portare nei laboratori di ricerca la plastica riciclata. Ma se l’impatto ambientale di questo settore è importante non è certo il comparto peggiore; la domanda di plastica è assorbita, infatti, soprattutto dall’industria manifatturiera di smartphone, componenti di automobili e fibre tessili sintetiche, i cui stabilimenti maggiori sono oggi nell’Asia Pacifica e in Cina – che nel complesso rappresenteranno presto il 70-80% della capacità globale di raffinazione di petrolio destinata all’industria della plastica. Non a caso sono le stesse regioni in cui le aziende chimiche occidentali stanno facendo investimenti da record, come quello dell’europea BASF, una delle più grandi del mondo, con i suoi 10 miliardi di dollari investiti in un nuovo sito in Cina.
Mentre nella vita quotidiana fatichiamo per ridurre l’uso quotidiano della plastica, quindi, le stime sulla domanda mondiale di questo materiale prevedono che la produzione cresca ancora per decenni, passando dalle 380 megatonnellate (cioè milioni di tonnellate) prodotte globalmente nel 2015 a oltre 1.600 entro il 2050, con il conseguente aumento anche delle emissioni globali di gas serra, che a loro volta passeranno da 1,7 gigatonnellate (cioè miliardi di tonnellate) nel 2015, a 6,5 entro il 2050. Gli analisti di Wood Mackenzie, società di consulenza nel settore energetico, prevedono, che da qui al 2050 ci sarà ogni anno una crescita di 10 milioni di tonnellate nel mercato americano dei prodotti petrolchimici utilizzati per produrre plastica. I programmi dei governi, quindi, al momento possono poco contro queste tendenze: abbiamo urgente bisogno di politiche coraggiose e soprattutto coerenti, che coinvolgano il mondo intero, se non vogliamo essere letteralmente soffocati prima dalla plastica che dagli idrocarburi.