La lotta alla crisi climatica è l’opportunità per creare milioni di posti di lavoro sostenibili - THE VISION

I leader di tutto il mondo hanno raggiunto l’Egitto con aerei altamente inquinanti per la periodica conferenza delle parti delle Nazioni Unite, COP27, per discutere della crisi climatica. E per l’ennesima volta sentiamo le stesse frasi di sempre, intervallate di tanto in tanto da un senso di crescente urgenza, che emerge per esempio dalle parole del segretario generale Onu, Antonio Guterres, per il quale siamo sull’orlo dell’inferno climatico. I cosiddetti “grandi della Terra” sfilano, discutono e decidono, senza però far niente di realmente radicale e sicuramente non facendo abbastanza. Tanto, quando tornano nei loro Paesi, le emergenze di cui occuparsi per avere il consenso dell’elettorato sono sempre altre: il prezzo del gas, la sicurezza delle città, l’immigrazione, la pandemia di Covid, il lavoro. Sono problemi reali, certo, ma di cui bisogna anche tracciare i legami, spesso esistenti, con la crisi climatica, che non è meno urgente.

Antonio Guterres, Abdel Fattah El-Sisi e Mohammed bin Zayed Al Nahyan, COP27, Egitto, 2022

Il lavoro, per esempio, in Italia è costantemente un’emergenza mai risolta. Gli ultimi dati Istat parlano di una situazione stabile in quanto a disoccupazione (poco meno dell’8%, ma con un aumento tra i giovani, fino al 23%), ma è invece molto preoccupante la precarietà, con la maggior parte dei contratti a tempo determinato e con stipendi sproporzionati rispetto al costo della vita. L’Italia è addirittura l’unico Paese membro dell’Ocse in cui i salari medi sono diminuiti negli ultimi trent’anni e a farne le spese sono in particolare i millennial, la prima generazione finanziariamente messa peggio della precendente. È chiaro che di fronte a questi dati – con i prezzi di beni di consumo, alimentari e carburante e della casa che crescono – la preoccupazione per l’ambiente sia l’ultima della lista e, anzi, di fronte alla scelta tra proteggere il lavoro e proteggere il clima, quest’ultimo abbia la peggio. In realtà, però, non si dovrebbe trattare di una scelta tra due alternative: conciliare e proteggere entrambi allo stesso tempo si può e si deve fare.

La transizione ecologica deve necessariamente investire anche il mondo del lavoro su cui si reggono i settori economici più inquinanti: proprio i lavoratori di questi comparti – energia, industria, agricoltura e allevamento – sono i primi da coinvolgere, sia perché sono questi i settori da convertire con più urgenza, sia perché questi lavoratori hanno conoscenze ed esperienze utili anche ai fini della transizione stessa. Oltre alle conoscenze, poi, hanno il potere di chiedere il cambiamento facendo pressione sulle dirigenze, ad esempio tramite scioperi. I rapporti tra ambientalisti da un lato e lavoratori e sindacati dall’altro, però, non sono sempre facili: in Gran Bretagna, ad esempio, i sindacati del comparto energetico hanno alle spalle una storia di partnership con i dirigenti del settore e di supporto alle politiche di protezione del petrolio e del gas per evitare la perdita dei posti di lavoro. E chi da questa spaccatura ci guadagna di sicuro non sono né i cittadini né l’ambiente.

I lavoratori, d’altro canto, sono anche i primi testimoni dei danni ambientali e per la salute di alcuni settori produttivi: non a caso, come ricorda l’Espresso, storicamente a portarli nel dibattito pubblico sono stati gli operai dell’Ilva di Taranto e i lavoratori dell’amianto, anche con azioni dimostrative come quella di esporre la mattina dei bicchieri sugli armadietti nelle fabbriche, che al termine del turno si erano riempiti di polvere d’amianto, a dimostrazione della sua pervasività e della contaminazione del luogo di lavoro. Lo stesso può accadere oggi con altri problemi ambientali che sul lungo periodo sono deleteri, come i gas serra che contribuiscono alla crisi climatica. Oggi, infatti, molti movimenti sindacali stanno dialogando con gli ambientalisti, come si è visto per esempio con gli scioperi indetti dai Fridays for Future che coinvolgono i lavoratori, mentre nascono organizzazioni come Teachers for Future e l’Associazione Medici per l’Ambiente.

Ex Ilva, Taranto

I movimenti ambientalisti degli ultimi anni segnano una novità rispetto a quelli dei decenni scorsi parlando di giustizia climatica e sociale, consapevoli di dover smentire la narrativa per cui chiedere di fermare le industrie inquinanti debba significare inevitabilmente la perdita di posti di lavoro. Questa narrativa, infatti, fa comodo a chi continua a guadagnare a spese della salute delle persone, della biodiversità e dell’ambiente. Anzi, proprio in una situazione come la nostra – fatta di precarietà, stipendi bassi e burnout – la transizione ecologica può portare nuovi posti di lavoro legati alla sostenibilità, che comprendono figure a tutti i livelli di specializzazione – dagli artigiani agli agronomi, dai chimici agli educatori, dai medici a giardinieri e agricoltori. Una recente ricerca sulle regioni a forte vocazione petrolifera ha evidenziato un enorme potenziale per la creazione di posti di lavoro in settori ecologici, come quelli dell’efficientamento energetico delle abitazioni, dell’eolico offshore o della produzione di elettrolizzatori a idrogeno. Si è calcolato, per esempio, che le cittadine del nord dell’Inghilterra e in Scozia nel prossimo decennio potrebbero guadagnarne tra i 28mila e gli oltre 42mila nuovi posti di lavoro ciascuna. È possibile, quindi, eliminare gradualmente petrolio e gas senza mettere a rischio le comunità che si reggono su questi comparti economici, che, volenti o nolenti, prima o poi saranno chiusi. Restare aggrappati il più a lungo possibile ai vecchi, dannosi combustibili fossili, quindi, non fa altro che continuare a danneggiare la società tutta e i lavoratori stessi, che rischiano di restarvi bloccati fino alla loro chiusura. Proprio i posti di lavoro nei settori legati a petrolio e gas offshore, per esempio, nello stesso Regno Unito sono passati dai 326mila del 2016 fino a quasi la metà nel 2020. D’altronde, se i sindacati si disinteressano o addirittura avversano la difesa del clima, a occuparsi della – prima o poi inevitabile – transizione saranno solo dirigenti e datori di lavoro, con il rischio di lasciare ignorate le necessità e le richieste dei lavoratori. La transizione, allora, difficilmente sarà equa e indolore.

Turbina idroelettrica, Scozia, 2021

Intanto è la stessa crisi climatica a danneggiare l’economia, con ripercussioni sul lavoro e la produttività. Lo ha sottolineato lo stesso Guterres, che ritiene quelli verso cui ci stiamo dirigendo a grandi passi (2,4-2,6°C sulle medie preindustriali) dei “livelli di riscaldamento che distruggono l’economia”. Secondo l’ILO (l’Organizzazione Internazionale del Lavoro), infatti, già con un aumento di 1,5°C – obiettivo comunque ormai chiaramente mancato – si perderebbero 80 milioni di posti di lavoro al mondo, con un danno economico di 2400 miliardi di dollari, per effetto di un insieme di fattori legati allo stress termico, come le ore di lavoro perse per l’eccessivo calore e un calo della produttività in tutti i settori, a partire da agricoltura ed edilizia, ma che investirebbe anche l’industria, i trasporti, la sanità e il turismo.  

Secondo Francesco La Camera, presidente dell’IRENA (Agenzia internazionale per le energie rinnovabili) una veloce transizione energetica verso le rinnovabili porterebbe l’Italia ad avere entro il 2030 800mila nuovi posti di lavoro green. Questi numeri non significano che nessun lavoro sia messo in pericolo o che questi rischi possano essere tranquillamente ignorati: non bisogna sottovalutare o trascurare la tutela dei lavoratori, che in Italia sono a rischio soprattutto nei settori dell’acciaio, della chimica, del cemento e delle fonderie, nei quali la decarbonizzazione è particolarmente complessa e che contano complessivamente oltre 700mila posti di lavoro. Per rendere indolore la transizione, evitando che le persone perdano il lavoro e dando loro una formazione ambientale aggiornata – posto che ogni figura professionale, in qualsiasi ambito, dovrebbe ricevere una formazione ambientale coerente dal momento che il tema va affrontato in modo trasversale –, servono interventi strutturali, sia a livello locale che tengano conto delle peculiarità dei territori, che nazionale, e un dialogo continuo tra sindacati e ambientalisti, due fronti che devono essere coinvolti anche nei processi decisionali a livello istituzionale. Un intervento utile, come riporta a titolo d’esempio il think tank ECCO, è analogo a quanto fatto in Scozia, per esempio, con l’istituzione di una Commissione per la Giusta Transizione che dà voce a problemi e necessità provenienti dal basso, che altrimenti non troverebbero spazio presso le istituzioni.

Senza i lavoratori non può esserci la transizione ecologica che a oggi non sta avvenendo – si pensi alla drammatica inefficienza dei piani climatici dei Paesi aggiornati a seguito della scorsa COP26, mentre le emissioni inquinanti continuano ad aumentare, avendo segnato un nuovo record nel 2021. D’altro canto, la creazione di posti di lavoro sostenibili richiede politiche e investimenti statali nei settori con il maggiore potenziale di riduzione delle emissioni. Servono posti di lavoro ecologici, stabili, con contratti sicuri, una retribuzione equa e buone pratiche in quanto a difesa della salute e della sicurezza. La transizione ecologica deve essere l’occasione per ripensare il mondo del lavoro in senso ambientale, anche sul piano della giustizia sociale: è qui che serve un intervento deciso della politica, perché senza una strategia per attuare una giusta transizione, si rischia di produrre nuove disuguaglianze. Il lavoro, la sua protezione e anche la creazione di nuovi posti, invece, possono andare di pari passo alla lotta alla crisi climatica. Non lasciamo che ci dicano il contrario.

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