Dire che il climate change non esiste non è libertà di pensiero, è negazionismo, anche molto idiota

Le ultime notizie ci informano che nei prossimi 30 anni in Italia avremo un aumento della temperatura di 2 gradi rispetto al periodo 1981-2010, per arrivare a fine secolo con 5 gradi in più. A dirlo è il Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, mentre il Wwf rileva che l’attività umana ha fatto sparire oltre due terzi degli animali selvatici totali in meno di cinquant’anni, segnalandola come causa della sesta estinzione di massa. Davanti a queste notizie allarmarsi è il minimo che si possa fare. Eppure, i negazionisti del cambiamento climatico fanno leva su una sottile delegittimazione della lotta ambientalista, proprio accusando di panico irrazionale chi richiama l’attenzione di governi, collettività e istituzioni sullo stato di salute dell’ambiente.

Appena un anno fa il Segretariato generale dell’Onu ricevette una lettera dal titolo eloquente: Non c’è alcuna emergenza climatica. Nel testo, senza alcun dato scientifico a supporto, un gruppo di “esperti” elencava alcune dichiarazioni opposte a quanto la ricerca sta dimostrando da anni. Dall’affermazione per cui il surriscaldamento globale sarebbe dovuto a fattori naturali a quella per cui l’anidride carbonica non inquina, la lettera rappresenta un’accozzaglia di opinioni non suffragate dai fatti, il cui messaggio, in sintesi, è: non esiste nessuna crisi climatica, quindi smettetela di fare gli ansiosi e di gettare le persone nel panico. Oggi sono sempre meno frequenti le esplicite negazioni dell’emergenza, ma sembra che ora si preferisca invitare a non lasciarsi prendere dalle emozioni. Bisogna mantenere la calma. E se a dirlo sono degli scienziati – seppure non climatologi – il messaggio si ammanta di un’apparente autorevolezza.

Proprio qui sta la gravità di questa nuova virata negazionista: si attribuisce legittimità al messaggio negazionista facendolo sostenere da personalità del mondo accademico che sono, quindi, presumibilmente onesti professionisti. In realtà questi, spesso, sostengono questa tesi non per amore di verità scientifica (che non è proprio conciliabile con la negazione del surriscaldamento globale), ma perché spinti da interessi economici. D’altronde, dopo gli accordi di Parigi, ExxonMobil, Royal Dutch Shell, Chevron, BP e Total avrebbero investito in totale più di un miliardo di dollari in quelle che appaiono come vere e proprie campagne di disinformazione sul clima, tra cui quelle a firma di alcuni scienziati (economicamente) interessati, mentre nei soli Stati Uniti le aziende dell’Oil & Gas e i loro gruppi commerciali avrebbero speso, in poco più di un anno, 17 milioni di dollari in inserzioni a sfondo politico su Facebook. L’Heartland Institute – un istituto di ricerca americano il cui scopo dichiarato è quello di trovare e promuovere soluzioni di libero mercato per problemi sociali ed economici – dal canto suo riceve finanziamenti provenienti dai combustibili fossili – compresi 676mila dollari dalla ExxonMobil – tramite Donor Trust, un fondo che può erogarli nascondendo l’identità dei donatori. L’istituto – che riceve anche fondi dalle fondazioni dei fratelli Koch, gli industriali del settore energetico colpevoli di aver aggirato e violato le restrizioni alle emissioni – tramite un suo sito sostiene che sul cambiamento climatico non ci sia consenso tra gli scienziati (quando, in realtà, il 99% concorda sull’origine antropica della crisi climatica) e ha un piano per istituire un curriculum scolastico volto a insinuare il dubbio sul tema. In Italia non si arriva a tanto, ma la questione nelle scuole non è trattata in modo trasparente, come dimostra la scelta discutibile di affidare a Eni un ciclo di incontri dedicati alla formazione in tema ambientale, nel contesto dell’educazione civica secondo la legge 92/2019.

D’altronde, davanti ai dati scientifici certi di cui disponiamo, chi ancora non agisce di conseguenza e non si dice convinto è evidentemente mosso da interessi di parte. E infatti, mentre siti e associazioni negazioniste incassano, la loro strategia comunicativa si fa via via più raffinata, coinvolgendo presunti esperti per dare alle proprie posizioni assurde, un’aura di autorità scientifica e credibilità. Anche tra i contributor dell’Heartland Institute compaiono scienziati e ricercatori, come H. Sterling Burnett, Ph.D., che nel 2009 dimostrava di non conoscere la differenza tra clima e meteo, in modo non dissimile da Donald Trump, che nel 2016 sosteneva l’utilità del riscaldamento globale per il clima di New York.

Anche l’uso delle parole mostra una nuova attenzione: ad esempio il Cato Institute – già Charles Koch Foundation, organizzazione anch’essa finanziata dai Koch, magnati della disinformazione a scopo finanziario – si definisce scettico, rifacendosi a un caposaldo del libero pensiero, ma che come sottolinea correttamente Valigia Blu sarebbe meglio definire “pseudo-scettico”. La coltivazione del dubbio e del libero pensiero sono, infatti, le apparenze retoriche a cui i nuovi negazionisti cercano di essere associati nella percezione dell’opinione pubblica. Questa, infatti, di fronte alle evidenze, non potrebbe più accettare l’esplicito negazionismo, che, come rileva ancora Valigia Blu, rimanda in primis al nazismo e a chi nega l’Olocausto. 

Charles Koch

Ecco perché le negazioni esplicite sono sempre più rare e si parla più spesso di “realismo” e rifiuto di allarmismo e catastrofismo, attraverso un’astuta manovra comunicativa per neutralizzare un allarme scientifico legittimo. Come rilevato dai giornalisti Stella Levantesi e Giulio Corsi, infatti, la presenza su Twitter di parole chiave legate ad “allarmismo” e “realismo” climatico – riscontrabili fino al 2016 in meno di 200 tweet l’anno – tra gennaio 2016 e marzo 2020 è cresciuta del 900%, con un drastico aumento tra il 2018 e il 2019, in corrispondenza, cioè, della diffusione a macchia d’olio di manifestazioni di attivismo climatico, segnando in particolare picchi in corrispondenza dei discorsi pubblici di Greta Thunberg, primo fra tutti quello di forte impatto tenuto al Vertice climatico delle Nazioni Unite. 

Parallelamente, si prendono le distanze dalle posizioni estreme. Solo a parole, però. L’Istituto Bruno Leoni (IBL), per esempio, sostiene di non avere nulla a che fare con il negazionismo climatico, ma in passato è stato co-sponsor delle conferenze dell’Heartland Institute e tra i suoi membri conta come senior fellow Carlo Stagnaro, già entusiasta di quegli eventi. Il sito stesso dell’IBL, poi, rilancia articoli ambigui sul tema, pubblica recensioni di libri come In difesa dei combustibili fossili – un volume del 2019 di Alex Epstein palesemente negazionista – e sul suo sito si leggono falsità che sostengono che la quantità di sostanze inquinanti è in costante calo negli ultimi cinquant’anni e che “la versione dei fatti ambientali pressoché universalmente accettata si discosta non poco dalla realtà e dalle conoscenze scientifiche dei fenomeni”. 

Carlo Stagnaro

La strategia comunicativa non trascura la centralità della figura di Greta Thunberg, che però nella narrazione negazionista passa dall’essere insultata a essere ritenuta una vittima manovrata da qualcuno, per approdare poi all’idea vincente: quella di opporle una figura omologa di posizione opposta, un volto fresco e perfetto per influenzare quelle fasce d’età che si stanno dimostrando più sensibili al tema ambientale e cioè quello di Naomi Seibt – 20 anni, youtuber tedesca filo-nazi – i cui video, prima di venire assoldata proprio dall’Heartland Institute – collaborazione interrotta dopo aver rischiato una sanzione da un’autorità tv regionale – davano spazio a temi di estrema destra, dal timore di dittatura comunista in Germania, alla presunta invasione di profughi, a espressioni contro il femminismo. Il sito negazionista Friends of Science (che fin dal nome vuole presentarsi apparentemente realista e affidabile) ha pubblicato un video dal titolo eloquente: “Greta o Naomi: allarmismo climatico contro realismo climatico”. Mentre Thunberg intima “Voglio che abbiate paura […] Voglio che agiate come se la vostra casa fosse in fiamme, perché lo è”, la strategia negazionista fa furbescamente dichiarare a Seibt, tra un appello alla libertà di pensiero e uno al dialogo: “Voglio che non abbiate paura, voglio che pensiate”. E tutti vorrebbero non averne, vorrebbero che l’aria irrespirabile, le falde acquifere inquinate, l’innalzamento del livello dei mari, le siccità estreme e la propria parte di responsabilità in tutto questo fossero solo un brutto sogno: per questo Sbeit ha presa. Ma quello che su un piano psicologico può essere riconducibile alla rimozione, è in realtà la strategia pericolosa con cui, seminando il dubbio su dati assodati, l’industria può continuare a guadagnare dalla distruzione del Pianeta. 

Naomi Seibt, Conservative Political Action Conference 2020 (CPAC)

Puntando a neutralizzare i richiami preoccupati sulla crisi climatica, questa strategia comunicativa si autolegittima come interlocutrice valevole. Ma è tutta apparenza. I tre elementi scientificamente incontrovertibili che riguardano questo tema sono l’esistenza del cambiamento climatico, la sua causa antropica e i danni tangibili che sta provocando: mentre il negazionismo vecchio stile negava il fenomeno in toto o almeno la sua origine umana, quello odierno raramente si spinge a tanto, perché è più efficace ammettere una piccola parte di verità per risultare credibili, negando poi tutto il resto; dicendo, per esempio, che è vero che il clima sta cambiando, almeno in parte e in alcune regioni del mondo, ma che ciò non è dovuto a noi; oppure sostenere che questo non sia necessariamente un male. Shakespeare direbbe che se la rosa avesse un altro nome profumerebbe lo stesso, allo stesso modo il negazionismo climatico resta tale anche se usa altre etichette: diventa solo più difficile da riconoscere, a differenza di una rosa. Ma se ci sforziamo di chiamare le cose con il loro nome sarà più facile riconoscerle e difendersi da loro.

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