La caffeina, benzina del mondo, potrebbe sparire per mano del suo miglior amico: il capitalismo - THE VISION

La storia del caffè è un esempio concreto del funzionamento del capitalismo, fin dal suo sviluppo moderno, a partire dallo sfruttamento della schiavitù, che ne ha supportato la coltivazione e il commercio, fino ad arrivare alla devastazione ambientale. Oggi, gran parte di noi è dipendente da caffeina, la droga legale più diffusa e consumata al mondo, la sostanza perfetta per sostenere un sistema ossessionato dalla produttività e segnato dall’insonnia.

Non a caso, le classi dirigenti hanno apprezzato ed elogiato il caffè fin dal suo arrivo in Europa, come sottolinea The Outline, che si è occupato approfonditamente della correlazione tra questa bevanda e il capitalismo. Già nel XV secolo, infatti – cioè quando questo prodotto era coltivato solo in Africa orientale e commerciato nella Penisola Arabica – è nota la sua capacità di aumentare la vigilanza e di tenerci svegli, qualità che hanno contribuito alla sua diffusione, che a sua volta ha arricchito a dismisura i “padroni del chicco”. Ciò è diventato evidente soprattutto quando è esplosa la moda dei caffè, dopo l’apertura del primo locale europeo, nel 1629 a Venezia e poi a Oxford nel 1650: in pochi decenni a Londra si arrivò a contare una caffetteria ogni 200 persone.

Gran Caffè Orientale, Venezia, 1900 circa

Proprio gli inglesi, insieme a olandesi e francesi, si muovevano dietro le quinte del commercio che, nel XVIII secolo, trasformò Haiti in uno dei maggiori esportatori di caffè e importatori di schiavi – circa 30mila all’anno – almeno fino a quando le piantagioni non furono rase al suolo dopo una rivolta nel 1793 e la produzione, controllata da olandesi prima e inglesi poi, si spostò a Ceylon (attuale Sri Lanka). L’isola, insieme all’India, a Giava, Sumatra e alla Malesia, fu però colpita alla fine del XIX secolo da un fungo che uccideva le piantagioni: è così che a quel punto emerse il Brasile, che non a caso diventò una nuova meta del commercio di schiavi, fino a quando venne vietato nel 1888. A quel punto, i signori del caffè fecero pressioni sul governo affinché favorisse l’arrivo di immigrati europei indigenti, soprattutto italiani, la nuova manodopera delle piantagioni.

Brasile, circa 1900

È allora che l’industria del caffè esplose e, nei primi decenni del XX secolo, per fargli spazio furono disboscate le foreste al ritmo di 3mila km quadrati all’anno. Alla devastazione ambientale si sommò quella finanziaria: a inizio Novecento il Brasile stava infatti attraversando una crisi di sovrapproduzione, motivo per cui nel 1906 il governo decise di stipulare prestiti per accumulare chicchi, mantenendone così i prezzi artificialmente alti. Nell’ottobre del famigerato 1929, però, il São Paolo Coffee Institute andò in bancarotta, facendo crollare il mercato. Gli Stati Uniti, nel frattempo, avevano cominciato a usare il caffè per scopi politici, in modo da controllare il resto del continente attraverso la creazione di un vero e proprio cartello che rendeva la vita dei piccoli coltivatori sempre più difficile; ma non solo: i maggiori torrefattori statunitensi si rifiutano di prendere posizione sul genocidio avvenuto in Uganda sotto il dittatore Idi Amin tra gli anni Settanta e Ottanta, da cui dipendeva l’afflusso di buona parte del caffè da loro gestito.

Il ruolo di questo prodotto appare quindi centrale in alcuni dei fenomeni storici più rilevanti e drammatici della storia moderna e contemporanea, e continua a esserlo ancora oggi, dal momento che circa il 90% degli esseri umani ingerisce regolarmente caffeina, che risulta così la sostanza psicoattiva più utilizzata al mondo. Il suo uso quotidiano spesso travalica i confini dell’abitudine per diventare una vera e propria dipendenza – con sintomi come mal di testa, affaticamento, letargia, difficoltà di concentrazione, irritabilità, angoscia e perdita di fiducia e di motivazione – in cui la gioia data dalla prima tazza di caffè della giornata non è effetto di altro che della sua capacità di reprimere i sintomi emergenti dell’astinenza stessa, come sottolinea il Guardian.

La vastità della sua diffusione e la pervasività dei suoi effetti sulla nostra società hanno fatto emergere non poche preoccupazioni per la salute, tanto che nel 1980 la dipendenza da caffeina è stata aggiunta al Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, per poi essere stata eliminata poco dopo. A oggi, l’uso in sé, entro dosi moderate, non è ritenuto dannoso: anzi il caffè può avere effetti positivi, soprattutto come conseguenza della combinazione di caffeina e antiossidanti. Da un ampio studio prospettico, il consumo di caffè è risultato inversamente associato alla mortalità totale e specifica per causa e, anzi, sembra che possa contribuire a ridurre il rischio di diversi tumori (tra cui quelli a mammella, prostata, colon-retto ed endometrio), ma anche di malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2, morbo di Parkinson e demenza. Inoltre se ne conoscono – e lo suggerisce anche l’esperienza personale – le ricadute positive su memoria, concentrazione, prontezza, attenzione e apprendimento. In un esperimento del 2014, ad esempio, è emerso che i soggetti trattati con caffeina ricordavano meglio il nuovo materiale che era stato chiesto loro di studiare, rispetto ai soggetti che avevano ricevuto un placebo. La caffeina migliora anche le prestazioni di guida, soprattutto quando si è stanchi, come pure quelle fisiche nelle prove a tempo, di forza muscolare e resistenza; infine ottimizza la concentrazione, con effetti positivi su diverse forme di pensiero, come quello logico lineare e astratto.

Di contro, il caffè è uno dei fattori responsabili della carenza di sonno, che a sua volta è un fattore di rischio importante per molte patologie anche gravi, tra cui il morbo di Alzheimer, arteriosclerosi, ictus, insufficienza cardiaca, depressione, ansia e obesità. Sempre problematico è – come per ogni droga – il suo abuso, sia per ingestione di grandi quantità quotidiane sia per l’effetto cumulativo con altre bevande che contengono caffeina e altri stimolanti, come tè, CocaCola ed energy drink. Inoltre, un fattore di cui tenere conto è il fatto che non tutti reagiscono alla caffeina nello stesso modo, cosa che rende difficile stabilire un limite al consumo che sia valido per tutti. Ovviamente, questa sostanza non è l’unica causa della nostra crisi del sonno: buona parte del lavoro lo fanno gli schermi luminosi di smartphone e computer, lo stress, l’inquinamento acustico e luminoso, ma anche l’alcol e i farmaci.

Il caffè risulta la benzina della corsa alla produttività e alla competizione di oggi, epoca in cui ci si dimette per sfinimento e in cui si è considerati dei falliti se ci si dedica del riposo e “arrivati” se ci si vanta di dormire solo 4 ore a notte. È così che il caffè è diventato la droga psicoattiva più utilizzata al mondo, ma anche la più socialmente accettata, perché ci mantiene attivi, lucidi, produttivi: macchine funzionali al sistema competitivo e votato alla produttività e alla performatività in qualsiasi settore – dall’ufficio alla palestra, dopo cui bisogna anche far tardi la sera per avere il tempo di socializzare. Il caffè è un rito, ma anche una necessità per reggere il ritmo; è anche un piacere da non demonizzare, una vera e propria pratica sociale radicata nella tradizione della pausa caffè e rafforzata dalle serie tv americane a base di bicchieroni bollenti, refill incluso nel prezzo del brunch. 

Oggi, però, anche questo prodotto è minacciato. Perché a parità di peso, il caffè prodotto in modo convenzionale, senza alcuna attenzione alla riduzione dell’impatto ha un’impronta carbonica pari a quella del formaggio e la metà di quella della carne bovina. Considerando che ogni anno al mondo vengono prodotti più di 9 miliardi e mezzo di kg di caffè e che la domanda globale spingerà la produzione a triplicare entro il 2050, il suo impatto non può essere trascurato. Ma non solo: la crisi climatica mette a rischio le coltivazioni stesse di caffè e, con loro, sia la nostra possibilità di continuare a goderne sia il giro d’affari di quasi 31miliardi di dollari. A questo ritmo, la quantità di terra adatta alla coltivazione del caffè sarà dimezzata nei prossimi 30 anni e sparirà in 60. L’industria del caffè, se non vuole estinguersi, deve trovare alla svelta strategie di adattamento, altrimenti non solo resteremo con le tazzine vuote, ma soprattutto a farne le spese saranno le migliaia di famiglie di piccoli coltivatori che dipendono direttamente da questa coltura. Per fortuna esistono metodi più ecologici per coltivare e produrre caffè – con un ridotto impiego di fertilizzanti chimici, sostituibili con rifiuti organici, e impiegando energie rinnovabili nella coltivazione – ma anche di trasportarlo e consumarlo, facendo calare il suo impatto fino al 77% in meno. Al momento, però, le proiezioni sono sconfortanti e sembrano voler dimostrare ancora una volta che la parabola del caffè è uno dei tanti effetti dell’autoerosione del capitalismo. Se, come ritiene l’esperto Benjamin Fong, il caffè è lo spirito del capitalismo in forma di infuso, sta continuando a dimostrarlo e la crisi ambientale a cui contribuisce ne è un’ulteriore prova.

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