Il cambiamento climatico e il comportamento dell’acqua stanno trasformando il modo di abitare e vivere e ridisegnando la geografia del mondo. La necessità di cambiare i paradigmi della progettazione urbana e delle infrastrutture idriche per controllare sia l’eccesso sia la scarsità di acqua è ormai evidente, ma tuttavia, nonostante la gravità della situazione, il problema dell’acqua come risorsa limitata non sembra uscire dalla sfera tecnica e scientifica. Stiamo diventando consapevoli della necessità di ridurre il consumo di energia, grazie alle campagne di sensibilizzazione e soprattutto agli eco incentivi fiscali, ma non ci preoccupiamo degli effetti del nostro cosiddetto “Water Impact”, e in particolare di quello delle nostre costruzioni, particolarmente significativo.
Per l’edilizia, in Italia il dato netto complessivo di consumo di acqua è del 21%. La lavorazione di tutti i materiali concorre al suo consumo: per fare qualche esempio, servono 5100 litri per una tonnellata di cemento, 19 litri per un asse di legno da costruzione, 13 litri per un litro di pittura. Per fare il calcestruzzo oltre al cemento e all’acqua si usano aggregati o inerti, cioè sabbia e ghiaia che vengono scavati in ogni parte del mondo, producendo drammatici impatti ambientali. L’estrazione impatta sulla biodiversità, sulla torbidità e sul livello dell’acqua, sul paesaggio e sul clima. Per ogni tonnellata di cemento servono circa 7 tonnellate di sabbia mista a ghiaia. Secondo The Global Cement Report, la produzione di cemento ha raggiunto nel 2020 i 4500 milioni di tonnellate nei 170 Paesi oggetto d’analisi. Questo dato dà la misura del processo di depauperazione dell’ambiente. In media sono necessarie 200 tonnellate di sabbia per costruire una casa, 3mila per costruire un edificio, 30mila per un chilometro di autostrada con conseguenze gravi sulla geomorfologia costiera e fluviale.
L’Unione europea ha messo a punto i criteri di Green Public Procurement per individuare gli impatti ambientali di materiali e prodotti per l’approvvigionamento pubblico. Anche se si tratta di strumenti volontari, l’Italia ha scelto di renderli obbligatori, attraverso i Criteri Ambientali Minimi (Cam) declinati per i diversi comparti. Per quanto riguarda le risorse idriche, i Cam prevedono la riduzione del consumo di suolo e il mantenimento della permeabilità; la riduzione dell’impatto sul sistema idrografico superficiale e sotterraneo; la raccolta, depurazione e riuso delle acque meteoriche; la costituzione di una rete di irrigazione delle aree a verde pubblico; il risparmio idrico e che gli impianti idrici siano in buone condizioni
L’acqua è bene comune, elemento essenziale dell’habitat e dell’abitare, riferimento per l’antropizzazione, è condizione per la nascita e lo sviluppo delle città. Attraversa tutte le geografie, nel tempo ha tracciato la storia, la cultura, lo sviluppo dei luoghi. L’acquedotto romano, matrice dell’infrastruttura in rete, replicato, nel tempo, in modelli via via sempre più tecnologicamente raffinati, ha espresso architetture monumentali che, per centinaia e centinaia di chilometri, attraversano i territori di buona parte del mondo. L’acqua è stata, dunque, il primo grande tema progettuale che ha influito sull’espansione e sulla crisi dei centri urbani ed è, oggi, il parametro per valutare l’efficacia di tutte le azioni volte a contrastare il cambiamento climatico: è il comportamento dell’acqua che decreta il successo o il fallimento delle strategie di forestazione urbana, di riduzione delle emissioni climalteranti, delle azioni di mitigazione e adattamento, arretrando dai litorali e bilanciando la sua presenza alle diverse latitudini.
Le esperienze del secolo scorso – la più drammatica nel contesto europeo è stata l’inondazione causata dal mare del Nord, in Olanda, nel 1953 – hanno dato avvio a una revisione dell’ingegneria tradizionale. La lentezza e la velocità dei comportamenti geomorfologici indicano proprio la necessità di trovare ipotesi permeabili e trasformabili. Come è successo per il “green”, agli esordi della consapevolezza ambientale, ora l’accelerazione della crisi climatica impone di assumere l’acqua come materia alla quale fare riferimento nei progetti. Nelle città “d’acqua”, i centri densamente abitati, affacciati sul mare o attraversate da un fiume, le inondazioni ed esondazioni superficiali e pluviali si verificano perché le superfici urbane, altamente impermeabili, sottraggono le acque meteoriche al naturale ciclo di accumulo e restituzione all’ambiente, creando problemi di eccessivo afflusso alle reti di drenaggio e amplificando le manifestazioni naturali e meteorologiche. Le operazioni di interramento dei corsi d’acqua, di drenaggio e di difesa dall’acqua, argini, dighe e pompe che provano a costringere o a regolare i flussi dei fiumi all’interno dei loro corsi, esito dell’ingegneria del passato, hanno contribuito ad aumentare il rischio, creando degli habitat sfavorevoli alla sicurezza, alterando i processi naturali e la fragilità del suolo.
È proprio il suolo, per permeabilità e piantumazione e per la formazione di reti, l’elemento chiave per contrastare il cambiamento climatico, gestendo i flussi idrici superficiali attraverso la realizzazione di paesaggi omeostatici, cioè che si autoregolano attraverso zone umide naturali o artificiali, create dall’allagamento delle campagne per la coltivazione. Anche le aree dismesse possono essere trasformate in zone ad alto assorbimento, wetland o ponds, per il convogliamento delle acque meteoriche, all’interno della città. Per aumentare le superfici permeabili e rallentare il deflusso delle acque, il suolo può essere de-pavimentato e corrugato, acquistando capacità di opporsi al ruscellamento. Ci sono poi altre strategie progettuali che concorrono a mitigare il comportamento dell’acqua, in ambito urbano: convogliare i flussi idrici in fossi, navigli, corsi artificiali distribuiti uniformemente sul territorio, utilizzare il sottosuolo come spazio tecnico per cisterne, bacini e piscine di raccolta. Si può dilatare l’alveo dei fiumi per controllare le esondazioni, realizzando vasche di laminazione e “canali di bypass” distribuiti lungo le rive e consentire l’inondazione nei tratti tra gli argini e i letti di magra, sia per limitare gli effetti delle piene, sia per conservare zone umide che svolgono la funzione di attenuazione, regolazione e mantenimento della biodiversità. Lo sbarramento – la diga – è ancora oggi una soluzione adatta ai margini costieri, sostituendo però le barriere in cemento con argini sempre più naturalizzati attraverso trasferimenti di terra.
Una nota a parte merita il tema della forestazione urbana cavalcato da molte amministrazioni, come opportunità di mitigazione degli effetti del clima estremo. Il verde riequilibra il ciclo dell’acqua meteorica, regolando l’afflusso delle acque piovane verso le reti di drenaggio, riducendo le emissioni di anidride carbonica, filtrando le polveri inquinanti e incrementando la biodiversità. È però fondamentale selezionare specie arboree capaci di adattarsi anche alla mancanza d’acqua, adeguate alle proiezioni climatiche dei prossimi trent’anni ed evitare di investire in sistemi di verde che potrebbero entrare in stress nel breve-medio periodo. Tutti i piani di adattamento al cambiamento climatico – il Climate Adaptation Plan di Copenaghen, il Rotterdam Climate Proof, il Waterproof di Amsterdam e il Managing Risks di Londra, il piano urbano di HafenCity, Barcellona, Amburgo, Manchester e Birmingham, New Orleans e New York, Boston, oltre a Le Grand Paris – fanno riferimento a queste strategie per l’adattamento ai cambiamenti climatici.
Per quanto riguarda l’abitare, strutture su palafitte, case galleggianti, isole artificiali sono progetti finalizzati ad assecondare l’acqua. Le case su palafitte o su basamenti allagabili sono virtuosismi ingegneristici, interessanti sperimentazioni tecnologiche. Un esempio significativo è la Casa Anfibia progettata da Baca Architects a Buckinghamshire, nel Regno Unito, in un’area soggetta a inondazioni, un’isola nel tratto del Tamigi che attraversa Marlow. Il sito, classificato ad alto rischio di inondazione, si trova all’interno di un’area protetta. Quando il fiume esonda, riempie l’interrato della casa, una sorta di basamento allagabile, sollevandola come una pompa idraulica, per poi riportarla in secco, alla posizione iniziale, quando si ritira. Le case galleggianti rappresentano una soluzione meno complessa, con maggiori potenzialità di diffusione. Possono essere fissate a terra, senza autonomia di movimento e, in questo caso, devono rispettare le normative e i vincoli urbanistici “tradizionali”, oppure possono essere a motore, assimilabili a barche. In Olanda si contano più di 10mila abitazioni di questo tipo, spesso semplicemente ricavate da vecchi battelli, ma anche costruite ad hoc con materiali leggeri e sostenibili. In Danimarca, un progetto denominato Urban Rigger riconverte, a tale scopo, container in disuso. Appoggiati a piattaforme galleggianti ancorate in acqua presso moli e porti, le case vengono affittate a prezzi economici. L’uso architettonico della risorsa acqua, in qualsiasi forma deve essere calibrato e governato per una proiezione e assimilazione progettuale di lungo periodo.
Lo scorso mese di febbraio è stato pubblicato il nuovo rapporto scientifico dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change – the United Nations body for assessing the science related to climate change), che ha analizzato gli impatti dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi e sulla biodiversità e le loro implicazioni per gli esseri umani e per le diverse culture, considerando le loro vulnerabilità e capacità di adattamento. Rispetto a quanto già noto e agli esiti della Conferenza sul Clima COP 26 che si è svolta a Glasgow nel novembre del 2021, il documento ribadisce che se il riscaldamento globale medio supererà la soglia dell’aumento di 1,5 gradi potremmo non riuscire a contenere i danni al Pianeta, anche a fronte di un impegno consistente che al momento non è ancora stato preso. Solo nell’ultimo biennio, le ondate di caldo hanno causato centinaia di vittime negli Stati Uniti e in Canada, le inondazioni hanno devastato la Germania e la Cina e gli incendi si sono scatenati senza controllo in Australia, Russia, bacino del Mediterraneo e diversi Paesi africani. Negli ultimi vent’anni, il 74% delle catastrofi sono state correlate all’acqua e le persone danneggiate, sotto il profilo economico, sono state tre miliardi. In una modellazione basata sull’attuale rialzo delle temperature, si prevede che entro il 2050 il 52% della popolazione mondiale vivrà in regioni soggette a stress idrico e si verificheranno significative migrazioni per il clima.
Secondo i dati Ocse, aggiornati al 2021, il 69% del totale dei prelievi di acqua in tutto il mondo viene utilizzato per scopi irrigui, per allevamento e acquacoltura. L’agricoltura e l’industria alimentare sono le uniche filiere che possono utilizzare l’acqua cosiddetta verde, che sta nel suolo dei terreni agricoli e deriva dalle precipitazioni, e trasferirla incorporata negli alimenti come acqua virtuale (ovvero l’acqua che serve per produrre il cibo o è contenuta nel cibo e in qualsiasi altro bene di consumo). Il settore industriale – inclusa la generazione di elettricità ed energia – pesa per il 19% dei prelievi e poco più del 10% per il consumo civile, ma l’acqua che consuma può essere solo blu, cioè derivata da flussi e depositi sulla superficie terrestre e nei sistemi di acque sotterranee. Il testo dell’IPCC aggiunge un ulteriore ammonimento: i sistemi di protezione, come le barriere contro le inondazioni di cui si parla molto, in realtà sono spesso troppo rigidi e possono paradossalmente aggravare le situazioni di vulnerabilità del territorio e delle popolazioni nel caso di eventi ambientali catastrofici.
Secondo Legambiente, sulla base di quanto già sperimentato in alcuni comuni italiani, le Amministrazioni Pubbliche dovrebbero applicare pochi semplici criteri che contribuirebbero a un forte miglioramento. Vietare qualsiasi edificazione nelle aree a rischio idrogeologico e in quelle individuate a rischio esondazione al 2100 per l’innalzamento del livello dei mari; delocalizzare gli edifici in aree classificate a elevato rischio idrogeologico; salvaguardare la permeabilità dei suoli nelle aree urbane, fissando percentuali obbligatorie di terreni permeabili negli spazi privati e pubblici; vietare l’utilizzo dei piani interrati per abitazioni; mettere in sicurezza le infrastrutture urbane dai fenomeni meteorologici estremi; vietare l’intubamento dei corsi d’acqua; recuperare, riutilizzare, risparmiare l’acqua in tutti gli interventi edilizi; utilizzare materiali capaci di ridurre l’effetto isola di calore nei quartieri, incentivando l’utilizzo di materiali e colorazioni con prestazioni certificate, di tetti verdi, vasche e fontane; creare, in tutti gli interventi che riguardano gli spazi pubblici, come piazze e parcheggi, vasche sotterranee di recupero delle acque piovane; prevedere risorse statali per l’attuazione dei piani urbani di adattamento che contemplano la piantumazione di alberi e la creazione di boschi per la riduzione delle temperature in città e l’assorbimento dei gas serra, la sostituzione della pavimentazione e la de- impermeabilizzazione, l’utilizzo di pitture in grado di ridurre l’incidenza delle radiazioni solari estive.
Ci si augura che queste misure vengano prese e sostenute al più presto, in maniera responsabile e sistematica, perché ne va della nostra vita. Cambiare il modello di gestione dell’acqua è tanto fondamentale quanto urgente.
In cover foto di Ashley Pomeroy; The Barcelona Pavilion, Barcelona, 2010, via Wikipedia