Immaginatevi un mondo in cui il lavoro abbia preso il sopravvento su tutto. Le nostre esistenze graviterebbero attorno a questo nuovo centro, tutto il resto diventerebbe secondario. In modo quasi impercettibile, qualsiasi altra cosa – i giochi a cui giocavamo, le canzoni finora cantate, le passioni realizzate, le feste celebrate – finirebbe per assomigliare e infine diventare lavoro. Arriveremmo a un momento, anch’esso ampiamente ignorato, in cui le svariate realtà, che esistevano prima che il lavoro monopolizzasse le nostre vite, svanirebbero del tutto dal panorama culturale, precipitando nell’oblio.
Cosa penserebbe la gente in questo mondo di solo lavoro? Cosa direbbe? Come si comporterebbe? Ovunque si girasse, vedrebbe pre-impiego, impiego, post-impiego, sotto-impiego, e senza impiego – nessuno rimarrebbe fuori dalla categorizzazione. Ovunque si loderebbe e si adorerebbe il lavoro, ci si augurerebbe che la giornata fosse il più produttiva possibile, si aprirebbero gli occhi per svolgere compiti ben precisi, chiudendoli solo per andare a dormire. Ovunque una solida etica lavorativa diventerebbe il mezzo per eccellenza con cui raggiungere il successo, mentre la pigrizia diventerebbe il peccato più grave di tutti. Tra produttori di contenuti, divulgatori di sapere, architetti e direttori di nuovi filiali si sentirebbero chiacchiere incessanti su workflow, grafici, piani e benchmark, potenziamento, monetizzazione e crescita.
In un mondo simile, il semplice atto di mangiare, il sesso o lo sport, la meditazione, i viaggi da pendolare – tutto monitorato e ottimizzato con attenzione e costanza – sarebbero funzionali a un buono stato fisico, che, a sua volta, servirebbe a renderci sempre più produttivi. Nessuno berrebbe troppo, al massimo qualcuno userebbe il microdosaggio di sostanze psichedeliche per ottimizzare la propria performance, e l’aspettativa di vita sarebbe indefinitamente lunga. Si sentirebbe parlare occasionalmente di una morte o di un suicidio per il troppo lavoro, ma simili sussurri, dolci e indistinti, sarebbero giustamente considerati come semplice manifestazione dello spirito del lavoro totale, per alcuni addirittura come modi lodevoli di portare il lavoro ai suoi naturali limiti, compiendo il massimo sacrificio. In tutti gli angoli del mondo, quindi, la gente agirebbe in modo da soddisfare il desiderio più profondo del lavoro totale: manifestarsi in tutta la sua completezza.
Il mondo così rappresentato, però, non è il soggetto di un romanzo di fantascienza: è chiaramente molto simile a quello in cui viviamo.
Il “lavoro totale”, termine coniato subito dopo la seconda guerra mondiale dal filosofo tedesco Josef Pieper nel suo libro Leisure: The Basis of Culture (1948), è il processo attraverso il quale gli esseri umani vengono trasformati in puri e semplici lavoratori. In questo modo, il lavoro diventa in ultima istanza totale quando diventa il centro attorno cui ruota la vita umana; quando tutto viene messo al suo servizio; quando il piacere, le festività e i momenti di gioco finiscono per assomigliare e infine diventare lavoro; quando non resta altra dimensione esistenziale che non sia quella del lavoro; quando l’uomo crede davvero che siamo nati semplicemente per lavorare; e quando altri modi di vivere, esistenti prima che il lavoro totale prendesse il sopravvento, spariscono del tutto dalla memoria culturale.
Siamo sulla soglia di realizzazione del lavoro totale. Ogni giorno parlo con persone per le quali il lavoro ha finito col controllare la loro esistenza, trasformando il mondo in un incarico, i loro pensieri in un silenzioso fardello. Perché, a differenza di una persona devota a una vita di contemplazione, ciascun lavoratore totale ritiene di essere alla base di un mondo costruito come una serie infinita di incarichi che si estendono in un futuro indefinito. A seguito di questa taskification (un termine che potremmo tradurre con “cottimizzazione”) del mondo, vede il tempo come una risorsa scarsa da utilizzare con parsimonia, ed è perennemente preoccupato da ciò che andrebbe fatto, spesso in ansia per la cosa giusta da fare in un determinato momento e angosciato dall’idea che ci sia sempre qualcosa in più da fare. Il punto cruciale è che l’attitudine del lavoratore totale non è compresa al meglio nei casi di lavoro eccessivo, ma piuttosto nel modo in cui tutti i giorni egli è totalmente focalizzato sui compiti che vanno portati a termine, cercando sempre di migliorare la produttività e l’efficienza. In che modo? Attraverso una pianificazione oculata, una scala di priorità razionale e una puntuale delegazione. Il lavoratore totale, in sintesi, è una figura di attività incessante, tesa, indaffarata: una figura il cui principale male è una profonda irrequietezza esistenziale, ossessionata dalla produzione dell’utile.
Ciò che più inquieta nella prospettiva del lavoro totale non è soltanto la sofferenza inutile che causa, ma anche il fatto che sradica le forme di contemplazione spensierata che entrano in gioco nel momento in cui ci si pongono, si ponderano e viene trovata una risposta alle principali domande dell’esistenza. Per capire in che modo generi sofferenza non necessaria, basta pensare all’illuminante fenomenologia del lavoro totale nella consapevolezza quotidiana di due interlocutori immaginari. Tanto per cominciare, c’è una tensione costante, una pressione generale associata all’idea che ci sia qualcosa che ha bisogno di essere portato a termine, sempre qualcosa che dovrei fare in questo momento. Come dice il secondo interlocutore, c’è allo stesso tempo anche la seguente domanda che incombe: “È questo il modo migliore in cui impiegare il mio tempo?” Il Tempo – un nemico, un bene scarso – rivela i poteri limitati di chi agisce, la sofferenza per sfiancanti e irresponsabili costi-opportunità.
Insieme, i pensieri del “non ancora, ma deve essere fatto”, del “dovrebbe già essere stato fatto”, del “potrei fare qualcosa di più produttivo” e la “prossima cosa da fare”, sempre in agguato, cospirano come nemici per tormentare l’individuo che, di default, si ritrova sempre indietro in un adesso che non sarà mai completo. Inoltre, ci si sente in colpa non appena non si è il più produttivi possibile. Il senso di colpa, in questo caso, è diretta conseguenza del non essere riusciti a stare al passo o a gestire al proprio meglio le cose, travolti dagli incarichi per una presunta negligenza o un ozio relativo. Infine, il costante, assillante impulso a portare al termine i propri compiti implica che è empiricamente impossibile, proprio per questo modo di esistere, fare un’esperienza completa della vita. “La mia esistenza”, conclude il primo uomo del dialogo, “è un onere”, il che significa un ciclo senza fine di insoddisfazione.
La condizione di fardello del lavoro totale, quindi, è definita da un’attività incessante e irrequieta, dall’ansia per il futuro, dalla sensazione di essere sopraffatti dalla vita, pensieri opprimenti sulle opportunità perse, e il senso di colpa legato alla propria pigrizia. Da qui, la taskification del mondo è legata al concetto di lavoro totale come fardello. Infine, il lavoro totale inevitabilmente causa dukkha, termine buddhista per l’insoddisfazione che nasce da una vita piena di sofferenza.
Oltre a causare dukkha, il lavoro totale impedisce l’accesso a livelli più alti di realtà. Perché ciò che si perde nel mondo del lavoro totale è la rivelazione artistica del bello, lo sguardo della religione verso l’eterno, la pura gioia dell’amore, il senso di meraviglia dato dalla filosofia. Tutto ciò richiede silenzio, calma e la completa volontà di imparare. Se il significato – inteso come interazione tra il finito e l’infinito – è ciò che trascende, nel qui e nell’ora, l’insieme delle nostre preoccupazioni e dei nostri incarichi mondani, permettendoci di avere esperienza diretta di ciò che è più grande di noi, allora ciò che si perde in un mondo di lavoro totale è la possibilità stessa di sperimentare un significato. Ciò che si perde è la ricerca del perché siamo qui.
Questo articolo è stato tradotto da Aeon.