Per impedire la violenza sulle donne dobbiamo intervenire sugli uomini

In Amore mio aiutami, commedia “romantica” del ’69 diretta da Alberto Sordi, Raffaella, interpretata da Monica Vitti, viene presa ripetutamente a schiaffi dal marito geloso sulle dune di Sabaudia. “Dillo ancora che lo ami!”, “Sì che lo amo” e giù botte sonore. E sangue.

Amore mio aiutami (1969)

Ci abbiamo messo tanto tempo, troppo, ad arrivare alla denuncia collettiva della violenza contro le donne, ma ci siamo finalmente arrivati. La narrazione mediatica del reato invece, è rimasta ferma. La cronaca nera che si dedica al femminicidio si concentra morbosamente sulla vittima, non entra nei dettagli delle dinamiche di coppia, e finisce per prendere in considerazione solo una metà: la donna– l’uomo no. Il racconto dominante cristallizza due ruoli: la donna abusata è la vittima, l’uomo è l’aggressore. Punto. Certo, l’uomo-lupo è un carnefice, merita pubblica condanna, ma anche di essere studiato meglio. Per curare, e prevenire.

“Io non penso affatto che l’uomo violento sia un mostro, né che sia un folle,” ci spiega Laura Storti, psicoterapeuta a capo del team “Il Cortile”, “però sono certa che il problema della violenza è il suo, non della donna. Dunque è lì che bisogna andare.” Questo centro d’ascolto per uomini maltrattanti nasce nel 2010 all’interno della Casa Internazionale delle Donne. La domanda di fondo è: la psicoanalisi è in grado di affrontare questo significativo disagio della civiltà? Sembra di sì. Il virus della violenza non è solo un disagio interpersonale, è politico, è sovranazionale, affonda le sue radici nella psiche.

“Da circa tre anni abbiamo iniziato a lavorare anche all’ottavo braccio di Rebibbia e da poco a Regina Coeli,” racconta Storti, “non facciamo rieducazione, ma ascoltiamo gli uomini violenti. Ed escono fuori le loro storie. All’inizio dicevano tutti d’essere innocenti, e ci credevano.” Il primo step per loro è realizzare che “colpire non è virile.” E non è neanche lecito. Successivamente qualcuno ha compreso talmente a fondo la sua colpa da proporre un progetto per il dopo-carcere, perché il rischio di ricascarci è enorme. La violenza di genere è una specie di buco nero, di dipendenza, di automatismo incastrato nella memoria collettiva. Uscire da questo tunnel è una sfida di civiltà per l’umanità intera.

In Italia, i centri che accolgono uomini violenti sono 44: dal “Training antiviolenza uomini” di Bolzano, al “Cerchio degli Uomini” di Brescia, al “Gruppo di ascolto maltrattanti in emersione” di Cagliari. Leggere il lungo elenco dà l’idea di quanto sia cresciuta in poco tempo la necessità di stare dalla parte del lupo. Tanto che a Bari il servizio di assistenza per uomini maltrattanti si chiama proprio così.

A fare da apripista è stato il CAM (Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti) di Firenze, nato nel 2009. Ma a livello internazionale siamo gli ultimi arrivati. I primi programmi antiviolenza oltreoceano ed europei nascono negli anni Settanta e Ottanta: è il caso di “Emerge” a Boston e di “Evolve” a Winnipeg. Però qualche progresso si vede anche da noi: gli uomini cominciano a rivolgersi ai centri sempre prima. “Soprattutto all’inizio sentiamo dire di continuo: ‘Se lei fosse stata zitta, se lei avesse obbedito, se lei non avesse detto o fatto,” spiega Storti, “però, sempre più uomini tra i 35 e i 50 anni, quando hanno reazioni eccessive, come scuotere, urlare o dare spinte alla compagna, adesso si interrogano sul perché lo fanno e vengono qui.” Sette o otto anni fa non era così. La differenza era che, solo poco tempo fa, scuotere, urlare o spintonare una donna non era considerato un comportamento deviante. Ed era giustificato dalla pretesa che la donna, in qualche modo, se lo fosse meritato – o avesse provocato.

La parola magica è “provocazione”. Secondo una ricerca Ipsos realizzata per We World Onlus nel 2017, per un italiano su sei è colpa della donna che “se la cerca”. Gli uomini si sentono provocati quando la partner inizia a dire no. Andrea Bernetti, direttore del CAM di Roma, ci dice che gli uomini, quando arrivano a picchiare, lo fanno perché si sentono minacciati nella loro stessa esistenza.

È come se percepissero un pericolo di morte. Un’aggressione fisica. Che non c’è mai stata. “Le relazioni violente nascono a monte, quando la donna viene percepita come un oggetto, e sono il frutto di un accordo o collusione implicita nella coppia,” aggiunge Bernetti, “l’uomo sentendosi inadeguato a stare al mondo, perché ha perso l’autorità e il potere, cerca una relazione che ha la funzione di compensarlo e rassicurarlo. Queste partner sono delle stampelle per uomini che non sanno camminare.” Prima che partano il pugno e lo schiaffo, i presupposti ci sono tutti: la donna viene disumanizzata, diventa un oggetto da colpire. Il parallelismo con le prove muscolari e violente a livello di Stati e di nazioni è lampante: inventare il nemico, manifestare psicosi aggressive è il germe dell’attacco bellico. Donald Trump e Matteo Salvini ne sanno qualcosa.

Quando le donne esprimono i propri desideri e bisogni, l’incantesimo si spezza. L’uomo si sente tradito, messo all’angolo, ferito a morte.

A quel punto è troppo tardi. “Inizialmente vengono da noi chiedendoci di ripristinare un ordine precedente,” spiega ancora Bernetti, “loro vorrebbero far tornare quella persona la stampella che era un tempo.” Quando realizzano che non si può, o cambiano loro o ne cercano un’altra. Ad un primo livello imparano a gestire la rabbia: quando sentono che monta si fermano e prendono tempo, la osservano. Allora per gli psicologi è fatta, gli uomini sono “agganciati”: spostando il focus dalla loro parte si inizia a scardinare una dinamica polarizzata, si avvia un processo di consapevolezza e cura che riguarda la società intera. Di più: riguarda un mondo in cui il potere è prevalentemente in mano a uomini in profonda crisi d’identità. Deboli.

La violenza in fondo cos’è? Un atteggiamento innato o un comportamento appreso? La psicanalisi ci dice che si apprende dall’infanzia. Non siamo animali che mettono in atto comportamenti istintivi, siamo essere umani che operano delle scelte. E queste scelte possono essere modificate. Ma è da bambini che conosciamo la violenza. A volte anche solo osservando.

Così, il fenomeno si riproduce. La famiglia, che dovrebbe essere il luogo della protezione e della sicurezza sociale per eccellenza, diventa la tana del lupo, dove si ripetono le dinamiche della violenza subita, osservata, riprodotta ed emulata.

Il ruolo dei bambini è importante: spesso sono loro che ci portano ad agganciare gli uomini violenti, ed è grazie a loro che i padri il più delle volte si avvicinano a un processo di cura ed entrano in un centro anti-violenza. I figli dei maltrattanti sono un’esca. Ma non sempre. I lupi violenti possono anche essere padri amorevoli. In ogni caso, purtroppo, i bambini vedono, sanno, tacciono. E apprendono. Gli psicologi parlano di violenza assistita da parte dei figli. In Italia un dossier da poco divulgato da Save the children dice che ammontano a 427mila i minori che in soli cinque anni hanno vissuto la violenza tra le mura domestiche. Che ne sarà di loro?

Questi bambini e le bambine potrebbero diventare gli uomini e le donne maltrattanti di domani. Nella loro testa si crea un equivoco mostruoso: da una parte difendono ossessivamente la mamma, ma dall’altra emuleranno i padri. “I ragazzi apprendono che la violenza è comportamento accettabile e allo stesso tempo virile,” spiega Giorgia Usai, psicologa e mediatrice familiare. Dunque è attorno a loro che ruota il processo di interruzione della catena degli abusi.

È necessario metterli al riparo, intervenire tempestivamente, proteggerli e rimuovere lo choc psichico.

Accade spesso che gli episodi di maltrattamento delle madri vengano rinnegati a voce, per poi riemergere nel tempo sotto forme diverse. È ad esempio altamente probabile che le bambine che hanno avuto un padre violento siano portate a cercare partner simili, e a subirne le azioni.

I bambini non sono né Cappuccetto rosso né Hansel e Gretel, ma dalle favole possiamo apprendere molto: sono loro che ci portano a scovare la falla, a individuare il lupo mascherato da nonna, ad attraversare boschi con le briciole di pane che fanno da sentiero. Sono le vittime, le esche e la via d’uscita.

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