L’oggettivazione del corpo è ancora insita nella nostra cultura, e anche se la cosa viene messa in dubbio piuttosto di frequente resta un problema soprattutto femminile. Quando si parla di oggettivazione, intanto, ci si riferisce ad atteggiamenti e comportamenti che riducono una persona a un mero oggetto: l’essere umano in questione viene privato a diversi livelli della propria soggettività, capacità di scelta e autonomia. Viene considerato solo come qualcosa di materiale, un corpo da guardare, utilizzare, possedere in base a interessi e desideri sessuali, il tutto con notevoli conseguenze psicologiche. Il fatto che oggettificare qualcuno senza il suo libero consenso sia una forma di oppressione vale ovviamente a prescindere da sesso e genere. Può capitare a tutti i tipi di corpi di venire oggettivati e così anche a quelli maschili. Il problema è che questo viene spesso fatto notare quando si parla di oggettivazione di corpi femminili assimilando i due fenomeni senza considerare che esistono delle profonde differenze. Qualche mese fa una nota youtuber ha raccontato su Instagram di essere comparsa a sua insaputa in un video dal titolo evocativo “La bombi o la passi?” dove alcuni ragazzi valutavano il livello di “scopabilità” di una serie di ragazze le cui foto venivano riproposte agli spettatori. Quando lei ha messo in relazione l’episodio a un macro problema di oggettivazione dei corpi delle donne, moltissimi utenti si sono indignati commentando che questo tipo di video esiste anche nella versione maschile, che anche i corpi maschili vengono oggettificati e che quindi non bisognerebbe “farne una questione femminista”.
Questa retorica, pur essendo molto diffusa, risulta limitata e limitante da molti punti di vista, perché in primis ignora tutta una serie di fattori storici, sociali, culturali e politici che rendono l’oggettivazione dei corpi femminili nello specifico un fenomeno diffuso, strutturale, con gravi ed evidenti conseguenze. Inoltre, riduce il dibattito a uno scontro maschile-femminile ricadendo in un rigido schema binario che non lascia spazio a un approccio intersezionale che tenga conto di altri corpi e identità marginalizzate esfruttate. Chi ama aggrapparsi al paragone dovrebbe considerare che c’è una differenza tra oggettivare una donna e farlo con un uomo, e questo non perché una delle due cose sia più o meno sbagliata rispetto all’altra, ma perché in un caso sono in gioco tutta una serie di implicazioni e strutture oppressive sviluppatesi nei secoli che aggravano il gesto e che nell’altro caso mancano.
Il fenomeno del catcalling e delle molestie per strada è talmente diffuso che l’88% delle ragazze italiane racconta di aver dovuto cambiare strada per evitarle. Nelle pubblicità, il numero di donne rappresentate in modo sessualizzato è quattro volte superiore a quello degli uomini. E secondo i dati pubblicati dal Global Slavery Index nel 2018, il 72% delle vittime di tratta a livello globale sono donne e bambine. Questi sono solo alcuni dati che mostrano come l’idea che la donna sia qualcosa da ammirare, sfruttare o sessualizzare sia ancora dilagante. Al di là delle statistiche che ne confermano la diffusione, però, il problema ha radici culturali profonde e certe idee sono il frutto di secoli di teorie filosofiche patriarcali. Nella metafisica tradizionale, in particolare, ricorrono spesso delle dicotomie che hanno plasmato nei secoli il pensiero occidentale e che partono dall’assunto che la realtà sia divisibile in elementi opposti: forma e materia per Aristotele, mente e corpo per Cartesio e poi ragione e natura per Kant e Hegel. Il problema è che questa struttura dualistica finisce spesso per includere un giudizio di valore per cui uno dei due poli è visto come quello attivo, legato all’intelletto e per tradizione maschile, mentre l’altro è passivo, legato alla materia e alla natura, femminile. Eppure nei secoli di scoperte e smentite ce ne sono state tante, quindi forse è giusto il momento di cambiare i simboli del nostro immaginario collettivo.
In Riproduzione degli animali Aristotele scrive che “il maschio è portatore del principio del mutamento e della generazione”, “la femmina di quello della materia”. Per il filosofo, quindi, dei due elementi “l’uno è attivo e l’alto passivo” e “il principio del mutamento, cui appartiene il maschio, è migliore e più divino della materia, a cui appartiene la femmina”. Queste equazioni tornano fuori continuamente nella cultura occidentale tanto che è pressoché impossibile elencarne tutte le varie diramazioni, in tutti i campi del sapere e dell’arte. Basti pensare ai poemi cavallereschi, dove la donna è l’oggetto dell’amore e del desiderio, o a quelle fiabe dove il principe salva e conquista la principessa compiendo il percorso dell’eroe. Anche Freud, il padre della psicoanalisi, ha dato il suo contributo a questo binomio donna-passività sostenendo che la sessualità femminile fosse manchevole e incompleta, bisognosa dell’uomo per attivarsi a pieno.
Proprio perché la donna-oggetto è qualcosa di piacevole o erotico alla vista, anche le forme d’arte e di comunicazione visiva sono diventate nei secoli un luogo perfetto per il proliferare dell’oggettivazione. Nel suo libro del 1972 Ways of Seeing il critico d’arte John Berger dedica un intero capitolo a come l’arte figurativa occidentale abbia rappresentato le donne come oggetti. In particolare i nudi sono il genere artistico dove questo aspetto è più evidente, proprio perché le donne sono le principali protagoniste e i loro corpi sono presentati alla vista del pubblico (maschile) per essere ammirati e giudicati. “Gli uomini agiscono, le donne appaiono”, scrive, “Gli uomini guardano le donne. Le donne guardano se stesse mentre sono guardate”. Secondo Berger, tra l’altro, questo meccanismo non si ritrova solo nelle opere d’arte da Tintoretto a Tiziano, ma oggi “i valori che hanno ispirato quella tradizione sono espressi tramite altri media ancora più diffusi – la pubblicità, il giornalismo, la televisione”.
In effetti, è qualcosa che possiamo facilmente ritrovare nell’enorme quantità di immagini pubblicitarie che ci vengono somministrate quotidianamente dove la donna è presente in quanto corpo docile, erotico o persino pornografico. Nel 2010 il noto documentario di Lorella Zanardo Il corpo delle donne ha mostrato apertamente come la televisione italiana fosse colma di immagini femminili che rimandavano a una donna “ridotta o autoridottasi a oggetto sessuale”, a prodotto erotico, a graziosa “cornice muta”. E se per caso dovesse venirci il dubbio che ora le cose non stiano più così, ricordiamoci le recenti dichiarazioni dello psichiatra Raffaele Morelli che, intervistato su RTL, ha dichiarato apertamente che “Se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso deve preoccuparsi”. Ha poi aggiunto che “il femminile è il luogo che suscita il desiderio” e che “la donna è la regina della forma”. In poche parole, secondo lo specialista, essere oggetto di sguardi e attenzioni sessuali – spesso non desiderati – è parte integrante di questo presunto concetto di “femminile”, che a sua volta apparirebbe così come un carattere intrinseco e una sorta di imperativo morale per ogni donna. Questa frase, lungi dall’essere uno scivolone isolato, si inserisce perfettamente nel sistema culturale ormai millenario che lega donna, corpo e passività.
Questa impostazione culturale, talmente estesa da risultare implicita, non è sfuggita nei secoli all’attenzione di autrici e filosofe femministe che l’hanno individuata e decostruita rivendicando la soggettività femminile, pensiamo a Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi o a La mistica della femminilità di Betty Friedan. Già Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso parlava di come la donna fosse vista come l’Altro: il corpo maschile è neutro (“Egli è il Soggetto, l’Assoluto”), quello femminile è sessuato e così, non solo le donne hanno un corpo ma sono prima di tutto un corpo. L’oggettivazione è stata studiata da diversi punti di vista: autrici come Catharine MacKinnon e Andrea Dworkin hanno preso in esame l’oggettificazione sessuale focalizzandosi su pornografia e prostituzione come mezzi patriarcali che la perpetrano; Sandra Bartky e Susan Bordo si sono invece concentrate sul binomio donna-corpo e sulle pressioni sociali legate all’apparenza; la critica cinematografica femminista Laura Mulvey nel 1973 ha introdotto il concetto di “male gaze” lo sguardo maschile attraverso cui vediamo le donne rappresentate nei media. E questi sono solo pochi esempi, perché il concetto compare in moltissime opere di teoria e critica oltre a emergere nella pratica e nelle lotte femministe.
Per i femminismi, l’oggettificazione delle donne è sempre stata un problema strutturale dalle evidenti conseguenze: la mancanza di soggettività ha condannato per secoli le donne a non essere riconosciute giuridicamente e politicamente, la presunta passività ha relegato il femminile nella sfera domestica e negato il piacere sessuale, l’essere oggetti da guardare ha costretto i corpi delle donne a un continuo monitoraggio estetico. L’idea che la donna possa essere posseduta – sessualmente e non – senza tenere conto della sua volontà, porta non solo a fenomeni come il catcalling, le molestie o il cosiddetto revenge porn, ma è anche alla base della rape culture e dei femminicidi. Fare un commento oggettivante senza cattive intenzioni può sembrare innocuo, ma non si può ignorare che si inserisca in questo schema e contribuisca a portarlo avanti.
L’oggettificazione femminile è pervasiva e colpisce le donne in modo diverso in base all’etnia, all’identità sessuale, al fatto che i loro corpi siano o meno abili e conformi. Anche gli uomini vengono oggettivati e ipersessualizzati, è vero, ed è un fenomeno che va conosciuto e smantellato (i Men’s Studies se ne occupano da anni), ma chi vuole ridurre il dibattito a un paragone dovrebbe tenere conto del contesto storico culturale e ricordarsi che, se oggi lottiamo contro l’oggettivazione di qualsiasi soggetto, è perché ne conosciamo le estreme conseguenze a partire dall’esperienza femminile e grazie all’impegno di teoriche e attiviste femministe.