Il 20 settembre 1987, a Palermo, la Democrazia cristiana celebra la festa dell’Amicizia, l’equivalente della Festa dell’Unità per il Partito comunista. Ci sono 27 gradi, l’aria è secca, “Una domenica italiana” di Toto Cutugno è in hit parade, le celebrazioni durano fin dal mattino e da tutta Italia sono arrivati a parlare politici e ospiti eccellenti. Quasi tutti alloggiano al Grand Hotel di Villa Igiea, un angolo di paradiso dove rinfrescarsi e allentarsi il nodo della cravatta. Il ministro degli Esteri, scortato da sei uomini della Digos, lamenta una delle sue solite cefalee, così verso mezzogiorno dice di voler tornare in camera, poi li congeda. Poco dopo, quando un cameriere bussa alla sua porta con asciugamani e acqua fredda, non trova nessuno. Avvisa la scorta che si mette a cercarlo, ma sembra svanito nel nulla. Nel 1986 è iniziato il maxiprocesso e la mafia, per difendersi, non esita a uccidere. Trovano il ministro nella hall alle 18, mentre si fa fare impacchi ghiacciati e ripassa il discorso sull’Europa. Quel buco di sei ore resta uno dei più grossi interrogativi della prima Repubblica, soprattutto perché il ministro ha molti soprannomi ma un nome solo: Giulio Andreotti.
È nato a Roma nel gennaio del 1919, da una casalinga e un maestro elementare. Conosce la morte presto: suo padre scompare quando lui ha due anni, la sorella muore appena maggiorenne di meningite. Fa il liceo insieme ai due figli di Benito Mussolini, Vittorio e Bruno, grazie ai quali si risparmia bullismo e accanimento da parte dei professori. È uno studente mediocre ma efficiente, che detesta le materie scientifiche e adora quelle umanistiche. Dopo il diploma, la visita di leva attesta che è anemico, ha una costituzione gracile, la schiena curva e soffre di emicranie croniche, mentre gli esami mostrano un generale deperimento organico. Il medico gli diagnostica sei mesi di vita e lo riforma. Andreotti, con quell’ironia che lo accompagnerà per tutta la vita, ci ride sopra. Si iscrive a giurisprudenza, dove aderisce alla Federazione degli Universitari Cattolici, unica associazione cattolica che il fascismo tollerava. Per mantenersi gli studi lavora all’ufficio imposte e scrive per il giornale dell’università. Mentre prepara la tesi frequenta la biblioteca vaticana, dove conosce Alcide De Gasperi; sta reclutando gente per riformare la Dc e gli chiede di aggiungersi. Andreotti ha un carattere molto diverso da De Gasperi, ma accetta e si tessera nel 1942. A 23 anni entra in politica, quella che definirà “una strana macchina in cui una volta entrato non esci più”. Quando arriva la guerra, è ben felice di essere stato riformato. Da buon democristiano, di giorno scrive sulla Rivista del lavoro (fascista), poi di nascosto fa parte del comitato di redazione de Il popolo (comunista). Viene eletto dall’Assemblea Costituente nel 1946, due anni più tardi è sottosegretario alla presidenza del Consiglio con De Gasperi con delega allo sport e allo spettacolo.
Andreotti sembra un conservatore tradizionalista, ma non lo è: salva il Coni, che doveva essere rapidamente fatto sparire perché fondato dal Duce. È un grande appassionato di cinema e nel 1949 promulga una legge che tassa il doppiaggio a favore dei film italiani, fornisce prestiti alle case di produzione intenzionate a realizzare film sull’Italia e incentiva a scritturare attori locali.
È questa legge a defibrillare Cinecittà, sventrata dai bombardamenti durante la guerra. Essendo il capo della censura cinematografica, Andreotti viene addirittura considerato troppo libertino: difende Ladri di biciclette quando alcune associazioni americane chiedono di censurarlo perché antiamericano; salva Persiane chiuse dal macero voluto da Mario Scelba e La tratta delle bianche, cambiando il titolo e sostenendo che avrebbe potuto essere educativo. È la sua gavetta, durante la quale riesce a trovarsi una nicchia in ogni governo che si sussegue mentre tesse alleanze con la Chiesa, e con tutta quella politica che muove le cose ma resta nell’ombra. Nel 1954, con il governo Fanfani, è per la prima volta ministro degli Interni. Capisce di avere imparato tutto quello che gli serve, e tira le reti creando la cosiddetta “corrente andreottiana”, o “la Ciociaria”. La Chiesa aveva tentato di entrare in politica unendo tutte le forze in una lista civica guidata da Luigi Sturzo che si era presentata cavalcando l’ondata emotiva per la stranissima morte di Wilma Montesi, ma non aveva funzionato. Finiscono più o meno tutti sotto la guida di Andreotti, che pur tenendo un profilo basso ha appena acquisito un esercito scudocrociato di politici, politicanti e quasi preti che in lui vedono un leader più aggressivo e pragmatico. È un collegio elettorale indistruttibile, che si può spostare da estrema destra all’estrema sinistra in meno di un giorno, solo perché lo decide lui. C’è così tanta gente che desidera la raccomandazione di Andreotti che lui inventa addirittura un protocollo. Se chi riceve la lettera con la sua firma la trova “ben spostata sulla destra”, allora il soggetto merita la massima attenzione. Viceversa, è solo una firma di favore e non conta nulla. Vista dall’esterno è una scalata verticale talmente rapida e brillante che alcuni sospettano ci sia qualcosa di strano ma, se c’è di mezzo il Vaticano, di strano non c’è nulla.
Nel 1959 diventa ministro della Difesa. Con il senso dell’umorismo che lo contraddistingue decide di telefonare al medico che alla visita di leva gli aveva pronosticato solo sei mesi di vita, ma scopre che è morto. Nelle interviste ricorderà sempre quest’aneddoto, perché interpreta bene l’imprevedibilità della vita. Tra i suoi primi incarichi c’è da gestire lo scandalo del piano Solo, l’ennesimo delirio eversivo-insurrezionalista questa volta stilato dal generale De Lorenzo. È la prima volta che Andreotti si muove in maniera poco chiara; i fascicoli del piano dovevano essere inceneriti a Fiumicino, invece vengono prima fotocopiati e arrivano nelle mani di Licio Gelli; che Andreotti ne sia a conoscenza o meno non lo sapremo mai, ma è più probabile che qualche militare nella gerarchia fosse un tesserato e avesse fatto uscire i documenti di nascosto. Dopotutto, tra Gelli e Andreotti, non è mai corso buon sangue. L’Italia sta raggiungendo la saturazione di trame, sottotrame, intrighi, congiure, cellule eversive e storie parallele. Alle fine degli anni Sessanta quel ragazzetto gracile è un politico di prima linea, con una rete di contatti sconfinata, un’esperienza di tutto rispetto e tanti nemici; quando il presidente Leone lo incarica di formare un governo nel 1972, non ottiene la fiducia. Non è un problema. In meno di nove giorni ne prepara un secondo, unendo il centrodestra con liberali e socialdemocratici, concludendo quella storica collaborazione coi socialisti dei governi precedenti.
Ma negli anni Settanta l’Italia, e il mondo, cambiano. Affidare il proprio fabbisogno energetico al petrolio, che è presente in stati costantemente in guerra, non è stata un’idea lungimirante. La crisi energetica del ‘75 chiude l’anno con l’inflazione all’11% e senza cenno di calmarsi. Il Pil è sceso del 2,1% e per le strade c’è la sensazione che il Partito comunista possa superare la Democrazia cristiana e addirittura vincere le elezioni. Nello stesso anno ci sono state le amministrative e le regionali, nelle quali il Pc ha preso il 33% e la Dc il 30%. I comunisti ora hanno Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Piemonte e Liguria, poi Roma, Milano, Napoli, Torino e Genova. Sommando il 33% del Pc al 12% dei socialisti, più le varie briciole dei partitini di estrema sinistra, si può arrivare al 47%. È un problema molto grave; se il Pci va al governo, l’asse geopolitico del pianeta si sposta non di poco, forse abbastanza per scatenare un cataclisma di dimensioni globali. In Italia ci sono cellule rosse dormienti con l’ordine di attacco in caso di vittoria comunista, e cellule nere pronte a reagire con le armi. Può sembrare impensabile, oggi. Ma tra dicembre ’75 e gennaio ’76 sono state attaccate quattro caserme dei Carabinieri con bombe a mano e mitragliatori. Poliziotti, magistrati, giornalisti e industriali vengono settimanalmente giustiziati per strada. Nel giugno del ’76 le Brigate Rosse arrivano a uccidere Francesco Coco, procuratore generale della Corte d’Appello di Genova, sterminandogli la scorta. Il sangue non è un’astrazione o un concetto retorico: è una realtà quotidiana. Con la vittoria del Pci l’Italia potrebbe sprofondare nella guerra civile, con la differenza che ora sul nostro suolo ci sono basi americane dotate di armi nucleari e arsenali nascosti in tutto il nord Italia. Il popolo spesso vota la propria autodistruzione pensando che bisogna distruggere per ricostruire, dimenticando una delle poche certezze della Storia: quando una nazione cade, non si rialza mai più.
E se l’elettorato è un problema, il Parlamento non è messo meglio. La Dc è straziata da faide interne; nel 1976 Aldo Moro dichiara di essere disposto ad aprire al Pci di Enrico Berlinguer e i socialisti non la prendono bene, togliendogli la fiducia e costringendolo a dimettersi il 7 gennaio 1976. Un mese dopo la Dc forma un nuovo governo solo con i propri ministri e rimettendo Moro presidente, ma quasi contemporaneamente esplodono due inchieste: una, passata molto in sordina, di finanziamenti degli Usa ad Andreotti e Donat-Cattin. La seconda, ben più strombazzata, è lo scandalo Lockheed – oggi banalissimo caso di corruzione – per far sì che l’Italia acquistasse aerei da trasporto. Il casino e l’indignazione sono tali da costringere Moro a dimettersi per la seconda volta e il presidente della Repubblica scioglie le camere, mentre nella Dc ci sono guerre fratricide e faide interne. Non c’è niente che possa impedire l’avanzata comunista. È qui che Andreotti deve fare un patto col diavolo, anche se secondo alcuni storici, i patti sarebbero addirittura due. Il secondo è poco più di una voce emersa dagli archivi dello Stato e da quel misto di bugie e verità che ha sempre detto Licio Gelli. Il secondo è la mafia; il solo modo per allargare il proprio bacino elettorale è comprarlo, ma deve fare in fretta. Sfrutta Salvo Lima ed entra in contatto con le cosche, mentre sui giornali, Indro Montanelli, riprendendo la frase di Gaetano Salvemini prima delle elezioni del 1948, scrive uno degli slogan più longevi della Repubblica: “Turiamoci il naso e votiamo Dc”. Le elezioni sono il 20 giugno 1976, e l’età minima per votare viene abbassata per la prima volta dai 21 ai 18 anni. Il Pci prende il 34,4%, cioè 12,6 milioni di voti e 228 deputati. La Dc prende il 38,7%, circa un milione e mezzo di voti in più, provenienti in larga parte dal sud Italia. I socialisti prendono a malapena il 9,6%, così decidono di sostituire il segretario con una figura che nell’immaginario dei vecchi socialisti doveva essere transitoria e facilmente manipolabile: Bettino Craxi. Alla fine, sommando Pc, Psi e i partitini minori si ottiene il 45%, più o meno quello che si ottiene unendo la Dc ai Repubblicani, i socialdemocratici e i liberali. Il sistema di votazione è un proporzionale, e in mancanza di uno schieramento vincitore nessuno sa cosa fare. Berlinguer, anche se propone un “eurocomunismo” diverso da quello dell’Unione sovietica, ha stretti e ambigui rapporti con l’URSS. Quindi, Andreotti dice:
“Ho proposto al Capo dello Stato la nomina dei ministri che oggi con me si presentano per ottenere la fiducia o almeno la non sfiducia del Senato e della Camera.”
In pratica, un governo legittimo sì-e-no, che le manifestazioni di piazza definiranno “governo Berlingotti”. Per risolvere i primi problemi, funziona; il Pci calma i bollenti spiriti dei sindacati e le proteste, mentre Andreotti fa approvare provvedimenti odiatissimi per rimettere in sesto i conti pubblici. La commissione Lockheed fa il suo lavoro, trovando i colpevoli e sollevando Mariano Rumor da ogni accusa. Il 6 novembre 1976, a Palermo, Andreotti si incontra con Vito Ciancimino che è intenzionato a entrare nella sua corrente politica. Da quella data, gli incontri con personaggi di spicco della mafia aumenteranno, ma l’equilibrio internazionale è salvo. A metà del 1978 si apre la crisi di governo, che si chiude con Andreotti di nuovo presidente del Consiglio e i comunisti che gli votano a favore. Cinque giorni dopo, all’alba del giorno che avrebbe visto Aldo Moro presentare il nuovo governo, le Br lo rapiscono e l’Italia cambia per sempre. Al netto delle teorie cospirazioniste, le Br sequestrano Moro e non Andreotti per motivi pragmatici: Andreotti soffre il mal di macchina e viaggia sul sedile anteriore, quindi è molto più difficile uccidere la scorta senza ferirlo. Poi non abita in periferia ma nel centro storico, dove l’onnipresente traffico rende qualsiasi fuga pressoché impossibile. Ultimo, ma non per importanza, Andreotti ha una macchina blindata e una scorta migliore, con a capo Carlo Russo.
Alla fine, la mafia ha fatto vincere la Dc e impedito al Pc di andare al governo, con tutte le probabili ma ipotizzate conseguenze che avrebbe comportato. Ma adesso presenta il conto, ed è molto salato. Forte delle amicizie e dei favori che la politica gli deve, al sud la mafia è onnipotente. I suoi soldi vengono lavati e nascosti da Michele Sindona, e chi si oppone viene eliminato. Il 9 marzo 1979 viene ucciso Michele Reina, segretario della Dc, colpevole di non volersi assoggettare alla Piovra. Andreotti, presidente del Consiglio, l’8 giugno 1979 vola a Palermo dove viene accolto come ospite d’onore dai fratelli Salvo, che lo portano da Stefano Bontate in persona. Lo prova una fotografia che non doveva trapelare, invece finisce negli atti del maxiprocesso. Secondo il pentito Francesco Marino Mannoia, era andato lì per trattare. È l’inizio della fase più oscura di Andreotti, ma non è la sola: nel settembre dello stesso anno muore Mino Pecorelli, mentre insieme al vecchio direttore del Sid e a Dalla Chiesa stava indagando su qualcosa che salterà fuori solo per caso quasi vent’anni dopo grazie al professor Aldo Giannuli, che nel 1998, incaricato di cercare documenti sulla strage di piazza Fontana, era finito in un vecchio archivio del ministero dell’Interno sulla via Appia. Aveva notato dei documenti impolverati destinati alla distruzione, una velina del 4 aprile 1972 firmata “fonte Dario”, seguita da un testo di sette cartelle dove si accennava all’esistenza di un’entità segreta fondata nel ’42 e indipendente dai Servizi, chiamata l’Anello. In tribunale se ne è parlato una volta sola, durante l’udienza del processo in corte d’Assise per la strage di Brescia. Quello che sarebbe nella pratica, chi ne farebbe (o avrebbe fatto) parte e da chi è stato diretto, necessiterebbe un’inchiesta a parte. Era una specie di Gladio, ma senza esserlo né farne parte. Gelli ha detto che l’Anello era passato alle dirette dipendenze di Andreotti nei primi anni ‘70 e che agiva solo su suo diretto ordine per fare “i lavori sporchi”. Quanto e come abbia influito sul Paese, è uno di quei segreti che sono stati mantenuti e scompariranno nelle pagine della Storia. Il vero problema di Andreotti sono i debiti con la mafia, che chiede incontri sempre più frequenti.
Abbiamo già parlato della lunga e oscura striscia di sangue: Pecorelli, Calvi e Ambrosoli, sulla cui morte Andreotti commenta “se l’andava cercando”. È quello che dirà anche nel 1986 sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini: se l’andava cercando. Ad Andreotti, quelli che vanno fuori dai binari, evidentemente non vanno molto a genio. Poi il 21 luglio in un bar di Palermo viene assassinato il commissario Boris Giuliano, che stava indagando sulla nuova mafia siciliana e le sue connessioni con gli Usa.
Nel giugno del 1979, secondo il barman dell’hotel Nettuno di Catania Vito Di Maggio, Andreotti incontra il boss Nitto Santapaola – ma smentirà categoricamente di averlo fatto. Nel 1980 tutto il castello di favori inizia a scricchiolare: quando viene assassinato Piersanti Mattarella Andreotti si incontra per la terza volta con Bontate nella villa di via Micciulla, 5. Lui lo accoglie a muso duro: lo Stato sta iniziando ad avvicinarsi troppo e a fare troppi danni a Cosa nostra. Nessuno sa cosa risponde Andreotti, ma ne esce vivo. La mafia invece sta morendo, almeno quella della prima ora, e comincia a cannibalizzarsi. Nel 1981 scoppia la prima guerra di mafia, i Corleonesi riescono a uccidere Bontate il 25 aprile, poi Inzerillo il 12 maggio. Nel 1982 tenta il tutto per tutto assassinando il generale Dalla Chiesa, ma la caduta di Michele Sindona è un colpo tremendo. Lo Stato, quando non è corrotto dall’interno, è implacabile. Il 10 febbraio 1986 inizia il maxiprocesso e in agosto, Andreotti viene ascoltato a porte chiuse. Nessuno conosce l’esito del colloquio, ma l’avvocato della famiglia del generale Dalla Chiesa chiederà la sua incriminazione per falsa testimonianza. Arriviamo così al Grand Hotel di Palermo, nel 1987. Andreotti appena la sua scorta lo lascia esce, sale in macchina con Salvo Lima e si incontra per la quarta e ultima volta con i vertici della mafia, per la precisione con Totò Riina. Passerà alla Storia come “l’incontro del bacio”, anche se Andreotti dirà che “Non ho mai baciato nemmeno i miei figli.” Di cosa parlano? Secondo l’accusa, Andreotti avrebbe chiesto che Cosa nostra torni ad appoggiare la Democrazia cristiana. Riina avrebbe chiesto in cambio delle garanzie sull’esito del maxiprocesso in Cassazione. Qualunque sia la risposta che Andreotti dà, nel 1992 non avviene alcun miracolo e gli imputati vengono tutti condannati. La mafia si vendica immediatamente uccidendo Salvo Lima mentre prepara il comizio di Andreotti a Palermo, a marzo, e la stessa sorte tocca a Ignazio Salvo a settembre. Su Lima, Andreotti dichiara: “Persona di grandissima intelligenza. Non gli ho mai sentito perorare cause non giuste, l’ho sempre visto dalla parte della povera gente. Quindi lo ricordo non solo perché era un amico, ma obiettivamente con enorme rimpianto e con grande stima.”
Ma ormai gli anni di gloria, per Andreotti e il suo partito, sono al termine. Nello stesso anno parte quella strana rivoluzione chiamata Tangentopoli, che decapita la Dc, il Psi e sta per calare la mannaia sul Partito comunista, ma Raoul Gardini si suicida prima di parlare. La prima repubblica, coi politici colti, distaccati e aulici, viene distrutta sotto gli occhi di tutto il Paese in questo preciso momento televisivo. Craxi, il politico di mestiere che ammette con il suo solito eloquio elegante il finanziamento illecito ai partiti. Di Pietro, un uomo semplice e simpatico, ma che rappresenta la giustizia. Quest’immagine cambierà per sempre l’idea di politica negli italiani, e tutta quella politica fatta di discorsi e ragionamenti lascerà il posto a quella di insulti e slogan. Andreotti, in questo clima, svanirà piano e quasi senza rumore, cavandosela sempre da tutti i processi, divertendosi ogni tanto ad apparire in réclame di prodotti “Non per soldi, ma per vanità” e lanciando frecciatine, come quando nel 2007 una senatrice dell’Italia dei valori iniziò uno sciopero della fame per protestare contro l’allargamento della base di Aviano e lui le offrì la sua solidarietà dicendo che avrebbe praticato lo sciopero della fame tra un pasto e l’altro. Muore a Roma nel 2013 per un’insufficienza respiratoria a 94 anni. Chi fosse davvero, Giulio Andreotti, e quali segreti sia riuscito a difendere, forse non lo saprà mai nemmeno chi lo conosceva bene.