
C’è una cosa che colpisce più di tutte quando ci si addentra nell’ultimo progetto commissionato da Fondazione Prada all’artista, regista e saggista tedesca Hito Steyerl per gli spazi del suo Osservatorio, a parte il buio. E questa cosa è la musica. Diversi canti di klapa – la musica popolare dalmata cantata inizialmente da gruppi di amici che spesso parla di amore, vino, mare, patria – riempiono lo spazio del primo piano, scendono le scale verso l’ingresso, rimbalzando sulle superfici scure. La musica viene da un piccolo coro a cappella, parte del film realizzato da Steyerl appositamente per questa mostra e proiettato su un grande telo bianco che divide lo spazio come una membrana permeabile – le immagini infatti si vedono speculari anche stando dietro la sua superficie. Il coro, che canta tra il cielo e il mare, è disposto in parallelo rispetto alla costa della città Curzola, in Croazia, come una sorta di ponte vibrazionale verso l’isola artificiale risalente al neolitico scoperta recentemente pochi metri oltre, sott’acqua, che dà il nome all’installazione: The Island.



La sensibilità, la cultura e l’attenzione che la cultura tedesca ha saputo dare alla musica trasversalmente a tutti gli strati della sua popolazione in questa mostra appare lampante. Questi canti rappresentano infatti il linguaggio e l’input percettivo che permette allo spettatore di immergersi e di tenere insieme i tanti stimoli raccolti da Steyerl e restituiti negli spazi dell’Osservatorio. Queste voci, che cantano a cappella, parlano alla parte più profonda della nostra radice culturale, evocano una dimensione misterica e rituale. Vibrano le eco di una musica antichissima e mai dimenticata, che affonda nell’impero bizantino e ottomano, caratterizzata anche da diafonie e dissonanze. “L’obiettivo è trovare le armoniche superiori dei diversi mondi per cercare di tessere un insieme composito o una composizione, come le onde del mare che si accavallano creando pattern diversi”, ha scritto Steyerl nella pubblicazione che accompagna la mostra, visitabile a Milano fino al 30 ottobre 2026.

Anche in questo caso Fondazione Prada innesca un progetto che fonde arte e scienza, intuizione e razionalità, evocazioni intime e domande attuali, politiche e collettive, stanandoci dalla nostra comfort zone, costringendoci – attraverso un sapiente meccanismo che suscita la nostra curiosità più istintiva – ad aprire gli occhi, a interrogarci, a saperne di più, a smettere di far finta di niente, di pretendere che la realtà sia qualcos’altro, o meglio di pretendere che la realtà sia una cosa sola. Steyerl, dialogando con la fantascienza, l’archeologia e la fisica quantistica ci orienta verso l’accettazione di un presente composto da realtà alternative, che spesso generano un forte senso di dissonanza cognitiva in noi, oscillando tra parodia ed epifania, esplorandone l’intreccio e la sovrapposizione, la possibile compresenza appunto: “Posso essere entrambe queste due versioni di me stesso”, dice il protagonista del cortometraggio proiettato al primo piano, il fulcro della mostra: una versione contemporanea di Flash Gordon, celebre personaggio di fumetti di fantascienza creato nel 1934 da Alex Raymond e diventato un’icona della cultura pop trasversale a tutto il Novecento grazie a numerosi adattamenti, tra cui la celebre serie di serial cinematografici degli anni ‘30 e ‘40, richiamati dall’artista.



Flash Gordon si adatta alle epoche, al tempo che passa, alle forme narrative diverse che assume, ai corpi degli attori che lo interpretano e alle linee dei disegnatori che lo disegnano, fino a precipitare all’interno delle Intelligenze Artificiali, che ne prendono l’immagine, come tutti gli altri, interpretandola, adattandola appunto, deformandola, come in qualsiasi adattamento. “Devo sconfiggere l’immagine”, dice a un certo punto Flash, e la sua intuizione è giusta, ma l’immagine ha troppo potere, lo ha già in partenza, e Flash non ce la fa, e quindi comincia a combattere contro se stesso. Realizzando che lo stesso momento, lo stesso soggetto, può coesistere in stati diversi. Che anche noi stessi non siamo monolitici come ci fa credere il nostro senso sempre più calcificato dell’ego. Coesistiamo allo stesso momento in forme diverse, siamo anche noi realtà composte, ma non per questo meno vere, meno reali, o meno autentiche, dobbiamo fare pace con questa consapevolezza e accoglierla nella nostra coscienza.

Steyerl riunisce realtà, linguaggi ed estetiche disparate in maniera apparentemente postmoderna, ma la sua visione si sposta oltre, quello che fa non deve essere visto solo come una sorta di satira, nemmeno troppo raffinata, anzi, piuttosto kitsch, la satira è anch’essa uno dei tanti bandoli che compongono la sua matassa, la sua maquette quantistica del mondo. Come ama ricordare la ricercatrice: “Il contrario della verità non è la finzione, bensì la menzogna”. Certo, qui si aprirebbe un nuovo capitolo di ricerca, su cosa sarebbe appunto la menzogna, che per ora sembra essere esplorata da Steyerl con una certa sfumatura moralista, più che morale.

Il tema della responsabilità della scienza e dell’informazione, che altro non sono che narrazioni, ancora una volta, e del potere che noi decidiamo di affidare loro, è centrale, così come il dominio dell’immagine, tema su cui la filosofia si interroga da tempo, su questa proliferazione e sulla potenza di questo accumulo, che ci sommerge, come un’inondazione, ci spazza via, così Flash Gordon – in dialogo col fisico quantistico Tommaso Calarco, che lo aiuta a orientarsi nella sua avventura – combatte con se stesso, e con una folla brulicante, in cui i corpi generati dall’AI si fondono e si dividono, si sciolgono, si intrecciano, creano un mare indivisibile e invalicabile. Sashi Shimomura, storica del linguaggio e figlia dello scienziato giapponese Premio Nobel per la chimica (insieme a Martin Chalfie e Roger Y. Tsien) per la scoperta e lo sviluppo della proteina fluorescente verde GFP, Osamu Shimomura, raccontando in un video la storia del padre, sopravvissuto alla bomba atomica lanciata su Nagasaki il 9 agosto del 1945, dice che era uno scienziato, sì, ma che credeva anche alla provvidenza, che non aveva una mentalità strettamente scientifica, tutt’altro. E dice che da lui ha imparato che non ci si può affidare completamente a un protocollo predefinito, così come ad attrezzature predefinite. Non è così che si fanno le grandi scoperte, ma che certo è necessario prestare grande attenzione, e questo prestare attenzione – che secondo Simone Weil è la prima forma di amore – comporta tanto lavoro. Ma che tutto è un caso, e noi non abbiamo nessun potere su di esso.

L’essere stati testimoni della guerra, e in particolare della caduta di una bomba, accomuna Shimomura e lo scrittore Darko R. Suvin. Testimone dell’esplosione di una bomba nella Zagabria fascista nel 1941, Suvin racconta che istintivamente, come difesa mentale, per reagire a quell’evento terrificante si immaginò all’interno della serie cinematografica di fantascienza Flash Gordon alla conquista di Marte, del 1938, in cui l’eroe del fumetto americano salva il destino della Terra. La guerra, dice Suvin, lo spinse a rifugiarsi nel mondo della fantasia e in seguito a esplorare la fantascienza, che definì nel suo famoso saggio del 1979 Le metamorfosi della fantascienza, come la “letteratura dello straniamento cognitivo” dando vita a un dibattito critico tuttora aperto, che si è esteso dalla letteratura fino alla sfera politica e filosofica.


Il film esplora così questi quattro macro temi che danno vita all’esposizione: l’archeologia e il mare, nel capitolo “L’isola artificiale”; la scienza e la bioluminescenza, in “Lucciole”; la guerra, le radici e la fuga dalla realtà messa a tema dalla fantascienza, come strumento non solo soggettivo ma politico e collettivo, ne “La nascita della fantascienza”; e infine l’attualità, la fisica quantistica e la tecnologia digitale, con “Flash”. Ma a ben vedere tutti questi temi sono costantemente interlacciati e connessi, inevitabilmente in relazione con l’esperienza del visitatore. E qui emerge un ulteriore, fondamentale, tema sollevato da Steyerl, e cruciale ancor più che per la creazione per la fruizione dell’arte e per l’esistenza nella sua totalità: la differenza tra il junk time – il tempo-spazzatura, che ci iperstimola e che a livello cognitivo spesso ci sopraffà, come se le nostre strutture neurologiche non fosse pronte a farlo oggetto, iperframmentato, consumato e gettato, legato a certi meccanismi della tecnologia contemporanea come ad esempio i social, ma non solo, e quindi al capitalismo – e il deep time – il tempo profondo, quello che allo stesso modo, ma verso l’estremo del dominio d’esistenza opposto, facciamo fatica a percepire e a comprendere, quello lentissimo, delle ere geologiche, delle migliaia, milioni di anni, che ci hanno generati, un tempo inumano per definizione, astrofisico, planetario.

Questi due estremi ci mostrano la parzialità della nostra percezione, ricordandoci la necessità di trovare un equilibrio tra l’immediatezza della nostra esperienza quotidiana e la vastità di ciò che ci precede e ci circonda. Steyerl ci invita, senza proclami, a immergerci nel deep time attraverso l’arte, a riconoscere le connessioni invisibili tra fenomeni, storie, tecnologie, forme di organizzazione sociale del potere e narrazioni che attraversano il presente. Il visitatore, percorrendo gli spazi dell’Osservatorio, diventa così coautore di un’esperienza che sfida la linearità, mescola passato e futuro, fantasia e realtà, realtà locale e geografie globali, uscendo dalla sua esperienza quotidiana. Alla fine, quello che resta è un senso di straniamento e stupore, preoccupazione e responsabilità di fronte alla complessità e alla bellezza di ciò che esiste, responsabilità verso noi stessi e il mondo, in relazione all’igiene della narrazione e delle idee, delle informazioni e delle immagini che scegliamo di alimentare. Come i cori di klapa che accompagnano il percorso, il messaggio di Steyerl vibra lentamente espandendosi ovunque, attraversa il corpo e la mente, e ci invita a sostare, ascoltare, pensare e ad agire. In questo modo The Island appare così come un invito a riconoscere che la realtà non è mai monolitica, che l’esperienza si stratifica e che la nostra attenzione è l’unico strumento che abbiamo per provare a orientarci nella molteplicità dei mondi possibili.