Nel 1992, il politologo Francis Fukuyama pubblica un saggio il cui titolo – com’è successo anche con Il secolo breve di Hobsbawm – diventa un modo di dire, un’espressione di uso comune. Il libro in questione è La fine della storia e l’ultimo uomo: secondo Fukuyama, il processo di evoluzione sociale, economica e politica dell’umanità si è concluso con il crollo del muro di Berlino. La storia è finita con il crollo dell’Unione sovietica, e l’arrivo del Ventunesimo secolo è l’inizio di una fase in cui le democrazie liberali hanno raggiunto l’apice dell’evoluzione. Non c’è bisogno di citare i fatti degli ultimi due anni, compreso il recente scoppio di una guerra, per capire che Fukuyama aveva torto – e del resto, lo ha ammesso anche lui. “È l’illusione di Fukuyama e altri secondo cui, dopo il crollo dell’URSS, la cosiddetta globalizzazione guidata dall’unipolarismo americano sarebbe durata in eterno, portando pace e prosperità nel mondo. In realtà le cose sono andate molto diversamente”, spiega l’economista Emiliano Brancaccio.
Il 1992, infatti, è un anno in cui succedono tante cose. Così tante che più che la fine della storia sembra l’inizio di una nuova epoca che apre le porte a un riassetto tutt’altro che pacifico e lineare del mondo. Dalla firma del trattato di Maastricht alla guerra civile in Bosnia, passando ovviamente per la conclusione del Maxiprocesso alla Mafia e le sue conseguenze, ogni frammento di questo anno denso di avvenimenti, sia a livello nazionale che internazionale, è la prova tangibile del fatto che la storia non si ferma e non cammina in modo necessariamente progressivo. In Italia, il 1992 è stato l’anno in cui è finito il Novecento, il momento esatto in cui tutto ciò su cui si basava la politica dalla nascita della Repubblica in poi è crollato, lasciando spazio non a una vasta prateria di possibilità e nuove occasioni ma a un seguito ancora più ingarbugliato e complesso. Mani Pulite, l’indagine che ha scoperchiato il vaso di Pandora delle tangenti e dei finanziamenti illeciti ai più importanti partiti italiani del Novecento, due su tutti il Partito Socialista e la Democrazia Cristiana, è un reset culturale e sociale che cambia profondamente il nostro Paese anche da un punto di vista iconografico – o forse sarebbe meglio dire iconoclastico. Crollano i volti e i nomi delle certezze, anzi, crolla la certezza del progresso, del benessere e dell’ubriacatura di un decennio, gli anni Ottanta, trascorso nell’idea che tutto fosse inesauribile. Ma soprattutto, si frantuma insieme alla Prima Repubblica anche qualsiasi traccia di autorevolezza politica, di gravitas, di sostanza morale e umana: gli uomini di Stato diventano ridicoli, ladri, sporchi affaristi senza scrupoli.
Non che fino a quel momento la Prima Repubblica fosse stata un tripudio di santità e purezza: non mancano affatto gli affari loschi, i misteri mai risolti e i crimini della classe dirigente italiana dal 1946 al 1992. Ma la forza mediatica con cui Mani Pulite si è abbattuta su di noi, sia chi c’era che chi ancora non c’era, con conseguenze che paghiamo ancora oggi, ha un impatto che si misura con parametri inediti. Per la prima volta, la giustizia, il procedimento penale, i magistrati, gli imputati e le aule del tribunale diventano non solo materia di dibattito pubblico, ma anche un vero e proprio genere di intrattenimento. Anche solo partendo dall’origine del nome “Tangentopoli”, l’espressione giornalistica con cui si è sempre definito non solo il processo ma tutto l’assetto culturale e sociale in cui si sono svolte le indagini del pool più famoso della storia d’Italia, se ne intuisce l’entità tragicomicamente spettacolare: fu un giornalista di Repubblica, Piero Colaprico, che inventò questo neologismo alludendo al tono ridicolo e fumettistico della città di Paperopoli, combinato con l’oggetto delle indagini, ossia le tangenti.
All’inizio degli anni Novanta, infatti, le indagini sui finanziamenti illeciti di questo tipo si concludevano quasi tutte con una singola carcerazione, nessun coinvolgimento di terzi, e una risoluzione in sordina del misfatto. Di Pietro chiamava questo sistema “dazione ambientale”, in cui tutto filava liscio senza fare troppo rumore e un cronista giudiziario come Colaprico si limitava a documentare questi processi all’ordine del giorno. Poi però, è arrivato il 17 febbraio del 1992 e con lui l’arresto di Mario Chiesa. Gli assetti internazionali erano cambiati, così come quelli nazionali, modificando l’equilibrio ormai troppo precario di un sistema in bilico tra l’illecito e la legalità.
Mario Chiesa, ambizioso esponente del partito socialista che puntava a diventare sindaco di Milano, detto prima “Il Kennedy di Quarto Oggiaro” e poi “mariolo” per ovvie ragioni, esponente del partito molto vicino a Craxi e, soprattutto, presidente del Pio Albergo Trivulzio, è stato il primo a cadere nel domino di arresti che nel 1992 si è innescato a partire dalla procura di Milano. Da quel momento in poi, tutto crolla, e la parola “Tangentopoli” passa dall’essere un simpatico titolo di giornale al termine chiave per i successivi due anni. Dal discorso di Bettino Craxi in Parlamento e il famoso “clima infame”, dal dipietrismo, ossia quell’insieme di espressioni coniate dal magistrato simbolo del pool, Antonio Di Pietro, fino alle monetine lanciate contro Craxi all’uscita dell’hotel Raphael in pieno centro a Roma, il 29 aprile del 1993, passando per il processo di Sergio Cusani per la “maxitangente” Enimont e il relativo suicidio di Raul Gardini, gli elementi del racconto di Mani Pulite sono talmente affascinanti e variegati nelle loro forme, sia linguistiche che narrative, da diventare subito autonome dalla realtà – e soprattutto, dalla realtà processuale. La mole di eventi, specialmente quelli legati alla scoperta del segreto di Pulcinella, ossia l’enorme sistema di corruzione in vigore tra partiti ed enti privati, porta alla trasformazione immediata di quel processo in una sorta di serie televisiva, con i suoi personaggi, i suoi modi di dire, i suoi plot twist: Gherardo Colombo, Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo detto “Il Dottor Sottile”, i tre volti dei protagonisti “buoni”, che presto però si trasformano in cattivi, così come le vittime si trasformano in carnefici in un rimpallo di trame che poco ha a che vedere con un processo e molto con lo spettacolo.
Perché l’errore di fondo di Mani Pulite, in questa nuova forma di pornografia penale in continuo aggiornamento, con i giornalisti che si ammassano uno sopra l’altro nelle aule del tribunale, è proprio quella della riduzione a una interpretazione manicheista della giustizia. Come ha spiegato in modo accurato e ormai distaccato Gherardo Colombo, ospite del programma Atlantide trent’anni dopo l’inizio di Tangentopoli, la confusione sostanziale tra vendetta e giustizia è la base del peggio che quel momento ha tirato fuori da tutti. Perché una visione così mediaticamente accanita e morbosa di un processo penale non può che portare a due conseguenze enormi e disastrose: da un lato, la riduzione delle categorie di giustizialismo e garantismo a due bandiere politiche da sventolare, dall’altro lo svilimento della natura stessa della legge e della sua applicazione democratica, in una formula che trasforma in tifoseria l’opinione pubblica. Non è un caso, infatti, che proprio dopo Mani Pulite sia “nato” Silvio Berlusconi, l’emblema dell’anti-partito, dell’uomo solo che punta alla legge ad personam, alla categorizzazione della magistratura in forme da “concetti feticcio”, come li definisce Umberto Eco, quali toghe rosse o altri modi svilenti di definire un lavoro fondamentale come quello del magistrato. Non solo il processo più spettacolare e destabilizzante della nostra Repubblica genera un moto di rabbia e fornconiscmo – anche legittimo, per molti versi – popolare, ma spinge sempre di più il pulsante della detonazione dello Stato sociale. L’idea per cui al bene pubblico si associa automaticamente l’idea di corruzione, di malaffare, di crimine, l’idea che i servizi per i cittadini, le opere pubbliche, dalla sanità alle infrastrutture, affondano le loro radici in uno stagno di malcostume e corruttela, è forse il danno più grande e irreparabile di quei due anni di rivoluzione.
Piuttosto che risanare l’idea di Stato come alleato del cittadino, di bene comune come luogo in cui si incontrano tutti i nostri contributi, nonché del senso di collettività come unione delle forze e non come invasione del privato, Tangentopoli è stato consegnata alla storia come un teatro di miseria umana e di godimento del fallimento altrui. Il garantismo, che dovrebbe essere un valore sacro al di là della propria appartenenza politica, è diventato sinonimo di sospetto della magistratura; il giustizialismo, dall’altro lato, si è rivestito di vendetta e retorica, fino a diventare un sentimento capace di catalizzare le forze per la nascita di nuovi anti-partiti, basati sul rifiuto di un sistema tout court, senza un reale piano di rifondazione e di salvaguardia concreta sia del cittadino che delle istituzioni. La Lega Nord di Bossi urlava “Roma ladrona”, Silvio Berlusconi millantava la sua estraneità ai fatti turpi dei decenni precedenti e rivendicava il valore della novità, distante dal marciume partitico che lo aveva preceduto, la sinistra si frammentava sempre di più dopo la svolta della Bolognina e la fine del Partito comunista italiano. Sappiamo tutti com’è andata a finire trent’anni dopo, e sappiamo, soprattutto, quanto ha pesato a livello di spesa pubblica e di opinione pubblica il valore di quel biennio in cui, tra le altre cose, i magistrati vennero criticati dopo essere diventati eroi popolari per misure – previste dal codice penale – come la carcerazione preventiva. Da un estremo all’altro, lo spettacolo di Mani Pulite, che andava in onda su Rai Tre grazie al programma Un giorno in pretura, è lo spettacolo del sentimento che prevale sulla razionalità, sull’esigenza primordiale di trovare una tribù d’appartenenza e lanciarsi le pietre da una barricata all’altra.
La storia non è finita nel 1992, e non finirà neanche nel 2022. La scoperta di un sistema corrotto come quello di Tangentopoli non è, come sosteneva Craxi in Parlamento nel suo discorso del luglio del 1992, l’occasione per il liberi tutti, per l’accettazione di una realtà in cui nessuno è innocente. Ci sono stati politici che non hanno rubato, persone che si sono dedicate alla cosa pubblica con una visione collettiva, ci sono state e ci saranno persone con le mani pulite, nel vero senso di queste due parole. Non basta sapere che la maggior parte della classe dirigente ha perpetrato un crimine contro la comunità per azzerare il valore della comunità stessa, nonostante la tentazione di bruciare tutto e di esultare per il crollo di un sistema fosse forte trent’anni fa ed è forte anche oggi. Ma quell’entusiasmo non ha portato al meglio, ha portato solo altre scappatoie, vie d’uscita secondarie che evitassero ancora una volta di intraprendere la strada del bene comune. Io nel 1992 ero appena nata, pochi mesi dopo l’inizio dei processi di Tangentopoli; non ho memoria di quegli anni, ma ho memoria di tutto ciò che è stato dopo e spero di poter assistere a ciò che sarà. Perché credere che la storia sia finita è solo una scusa per non impegnarsi a migliorare quella che verrà dopo.