Gli anni di piombo – prima parte
Dopo la guerra di liberazione il 40% delle armi dei partigiani non viene riconsegnato agli alleati; fucili, bombe e munizioni vengono nascoste nei muri, nelle soffitte e nelle cantine in previsione prima di un ritorno nazista, e poi della rivoluzione comunista. Alcuni ex partigiani confluiscono – o erano nati – nel Pci, che è in contatto con l’Unione sovietica. Con i soldi rubati a Mussolini possono rifondare ed espandere il partito. Stalin non è così ansioso di invadere l’Europa, ma intanto manda i partigiani italiani ad addestrarsi in Cecoslovacchia su operazioni di sabotaggio e guerriglia. Contemporaneamente, non si sa se consapevoli degli altri o meno, gli alleati fanno la stessa cosa, e la chiamano strategia Stay behind. Il 26 novembre 1956 nasce Gladio, una rete di uomini “dormienti” pronti a contrapporsi agli ex partigiani nel caso provino a prendere il potere con la forza. Si addestrano in Sardegna a capo Marrargiu e hanno a disposizione 139 depositi di armi nascosti nelle campagne del nord Italia e un aereo, un vecchio Dakota, chiamato Argo 16.
Luigi Gui, ministro dell’Interno (ed ex partigiano di fede democristiana) modifica il regolamento militare, che fino al 1955 recitava: “La polizia militare ha il compito di predisporre e attuare le misure necessarie per prevenire, combattere e reprimere lo spionaggio e il sabotaggio in campo militare o di preminente interesse militare”, diventa così: “Ha il compito di predisporre e di attuare le misure necessarie per prevenire, combattere e reprimere lo spionaggio, il sabotaggio e la sovversione”.
Di tutto questo, però, il popolo italiano non sa nulla. Gli anni Cinquanta e Sessanta sono il nostro secondo rinascimento; il piano Marshall ci ha dato modo di ripartire, i bombardamenti ci hanno dato qualcosa da ricostruire e la fine della guerra qualcosa da festeggiare. L’edilizia è un settore alla portata di tutti, rende ricche centinaia di famiglie e dà lavoro a migliaia di reduci e disoccupati; il nostro cinema ci racconta con talento, bellezza e ironia la quotidianità dell’epoca. Nascono divi come Gassman, Tognazzi, Sofia Loren e Alberto Sordi, i liquori d’importazione spopolano nei bar, Tony Renis canta “Dimmi quando tu verrai”, le donne hanno iniziato a ribellarsi all’estetica cattolica e lo spogliarello di Aïché Nana ha fatto partire la Dolce vita. Le strade tracimano di gente che beve, si incontra, fa affari, mostra abiti sfavillanti e cravatte di seta. Tutti portano il cappello, il trilby a testa corta per gli uomini, e i modelli più fantasiosi e colorati per le donne. L’Italia rinasce mentre nelle strade preti, spie, prostitute e canzoni strappalacrime si intrecciano in un unico, caotico inno alla vita. I bambini nati nell’immediato dopoguerra vengono cresciuti secondo l’adagio recitato ne Il boom di Sordi: “Non voglio che i miei figli conoscano la miseria che ho vissuto io”. Questa filosofia, però, una volta adolescenti crea un problema: il benessere non ha epica, l’agio ha poco da raccontare e non ha il melodramma che gli adolescenti adorano. Così quando nel 1966 all’università di Berkeley gli studenti americani scatenano una protesta, la sua narrazione fa il giro del mondo. A vent’anni avere una causa per cui battersi è il solo modo per far parte di una comunità, concetto che si basa su due elementi: un leader e un nemico a cui opporsi, di solito l’autorità. L’emulazione delle rivolte parte in Italia in un modo che Pietro Germi o Monicelli non avrebbero potuto descrivere meglio.
Il 14 febbraio 1966, al liceo Parini di Milano, gli studenti stampano un giornale chiamato La zanzara e un giorno pubblicano un articolo-sondaggio di cui vale la pena citare due passaggi: “Vogliamo che ognuno sia libero di fare ciò che vuole a patto che ciò non leda la libertà altrui. Per cui assoluta libertà sessuale e modifica totale della mentalità”, e ancora: “Sarebbe necessario introdurre una educazione sessuale anche nelle scuole medie in modo che il problema sessuale non sia un tabù ma venga prospettato con una certa serietà e sicurezza. La religione in campo sessuale è apportatrice di complessi di colpa”. Oggi può sembrare una provocazione banale scritta da dei minorenni, ma nel 1966 la morale cattolica è ancora fortissima, la Democrazia cristiana detta legge e appena il giornale finisce sotto gli occhi dei genitori scatena un putiferio.
I genitori sono quelli raccontati da Pietro Germi, che compiono i peccati più disparati “purché non si sappia in giro” mentre il mondo fa la guerra in Vietnam, e ascolta i Rolling Stones, in Italia c’è la Fiat 127 e Caterina Caselli. Vedere i figli parlare di certe cose li terrorizza, fino a far arrivare l’articolo incriminato sotto gli occhi della magistratura. I redattori del giornaletto vengono inquisiti e incriminati insieme al preside del Parini, Daniele Mattalia. Naturalmente sono assolti, e il presidente del Tribunale di Milano li congeda dicendo: “Non montatevi la testa, tornate al vostro liceo e cercate di dimenticare questa esperienza senza atteggiarvi a persone più importanti di quello che siete”. Succede esattamente il contrario: i due ragazzini tornano tra i loro coetanei con l’alone dei ribelli che hanno fatto tremare l’ordine costituito, diventando immediatamente i più popolari della scuola e, quindi, modelli da emulare. L’intero Parini occupa in segno di protesta – “Noi non crediamo alla cicogna!” – e questa novità interessa i giornali veri che danno loro spazio, intervistandoli e fotografandoli. Appena gli universitari vedono i ragazzini passare agli onori di cronaca come coraggiosi rivoluzionari esigono la loro parte di gloria, e uno dopo l’altro insorgono in un coro di proteste che però non hanno a che fare con la sessualità, ma con la carriera nel mondo accademico.
Nel 1968 le università sono governate dai cosiddetti “baroni”, cattedratici che spadroneggiano comportandosi più come sovrani, che professori. Mafie parentali, corruzione, favoritismi e assenteismo formano un sistema che gli studenti vogliono scardinare, e ci riescono in fretta. Presidi, rettori e insegnanti vengono colti di sorpresa e si sottomettono non sapendo come reagire. Gli esami di maturità perdono di senso, gli studenti vengono tutti promossi con il 36 politico. Gli esami vengono fatti in un clima di minacce e i voti contrattati. Gli slogan sono “Immaginazione al potere”, “Vogliamo tutto e subito”, “Proibito proibire”, “Apriamo le porte dei manicomi, delle prigioni, dei licei e dei nidi d’infanzia”. Come si legge ne Gli anni di piombo di Indro Montanelli: “I vecchi organismi studenteschi furono rinnegati e spazzati via, sovrana era l’assemblea: che avrebbe dovuto essere emancipatoria, e divenne presto repressiva”. Ed è in questo clima che si muovono e si formano nomi come quello di Margherita Cagol, Renato Curcio, Alberto Franceschini, Prospero Gallinari.
Alla Statale di Milano gli studenti creano un servizio d’ordine di pretoriani chiamati “katanghesi“, copiando i francesi della Sorbona che stanno ribellandosi allo stesso modo, ma molto più aggressivo. I katanghesi sono ragazzi che girano armati di chiavi inglesi cantando “Se non ci conoscete guardateci la spranga, noi siamo quelli del Settimo katanga”, il cui compito consiste nell’incutere timore a presunte spie, provocatori e controrivoluzionari – cioè chiunque non sia d’accordo con loro – fare la prima linea negli scontri con la polizia e pestarsi con gli studenti neofascisti. Tra di loro Luca Cafiero è il capo supremo delle squadre katanghesi che si chiamano “squadra Stalin”, “squadra Dimitroff” e “squadra Lenin”.
A Roma, quelli della facoltà di architettura della Sapienza lanciano molotov, sassi, bastoni e spranghe contro gli agenti di polizia, bruciano jeep dei carabinieri e un autobus in un crescendo di scontri e violenza. Giornalisti e intellettuali sostengono gli studenti con una partecipazione rara, quasi con una incitazione dai tratti morbosi. Una rivista, La Sinistra, pubblica un manuale per fabbricare le bottiglie Molotov con tanto di illustrazioni. Eugenio Scalfari, su L’Espresso, scrive: “Questi giovani insegnano qualcosa anche in termini operativi. L’assedio alle tipografie di Springer per bloccare l’uscita dei suoi giornali è un mezzo nuovo e molto più sofisticato ed efficace delle barricate ottocentesche o degli scioperi generali. […] Venerdì sera a Milano un corteo di studenti si fermò a lungo e tumultando sotto il palazzo del Corriere della Sera. Può essere un ammonimento per tutte quelle grandi catene giornalistiche abituate ormai da lunghissimo tempo a nascondere le informazioni e manipolare l’opinione pubblica. […] chi ama la libertà ricca e piena non può che rallegrarsene e trarne felici presagi per l’avvenire”. L’unico che si oppone a quest’ondata fanatica è Pier Paolo Pasolini, che con uno scritto di potenza eccezionale dice: “Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo” e, da un diverso fronte, Montanelli rincara dicendo che i ragazzi si ribellano “perché i padri, oltre a pagargli da vivere, pretendono di avere su di loro un’autorità”.
Nelle carceri i detenuti si ribellano chiedendo di poter fare assemblee e creare comitati di controllo, vogliono apertura all’esterno con possibilità di colloqui a tempo illimitato e diritto ai rapporti sessuali. Sia Francia che Italia sono pervase da utopie spesso esasperate, in cui gli studenti occidentali sognano l’economia dell’Unione sovietica, e gli operai dell’Unione sovietica sognano l’economia occidentale. Il 25 aprile 1969, alla fiera di Milano, alle ore 19 esplode una bomba allo stand della Fiat. È un orario perfetto per non colpire il pubblico – la fiera ha già chiuso – e fa solo cinque feriti lievi. Ne viene trovata un’altra, inesplosa, alla stazione centrale. Giornali e manifestanti sono confusi su come reagire, perché una bomba non è una zuffa di piazza; chi l’ha messa? Le indagini sono appena iniziate che l’8 agosto, alle 23.30, un ferroviere trova un ordigno esplosivo sul treno 154 Trieste-Domodossola. Gli artificieri lo disinnescano mentre, contemporaneamente, all’1.30 esplode una bomba sul Trieste-Roma all’altezza di Mira (VE), ferendo un uomo. All’1.25, sul Venezia-Milano all’altezza di Grisignano (VI) esplode una bomba nascosta sotto i sedili. Stessa ora, a Pescara, tre feriti. Un’altra ancora in Abruzzo, in Campania, in Trentino. All’alba del 9 agosto, con tutte le ferrovie italiane paralizzate, il bilancio è di otto bombe esplose, due disinnescate e 12 feriti. L’Italia è sotto shock, non capisce come si sia potuto arrivare a quel punto, mentre destra e sinistra si accusano a vicenda. Gli inquirenti, studiando le bombe e la loro posizione, notano che vengono piazzate più con l’intento di dimostrare che di uccidere. Fare una strage allo stand di Milano o su un treno, dopotutto, è semplicissimo.
Ma in linea generale, il nostro è un popolo di grandi dimostrazioni simboliche e mai di esecuzioni concrete. Un gesto è interpretabile e soprattutto rimediabile; una banca si può ricostruire, una vetrina riparare, un cassonetto sostituire: una persona non si può resuscitare. Fin da piccoli noi impariamo bene il principio di azione e reazione applicato alla società, perciò non facciamo colpi di Stato, bensì “dimostrazioni” di colpi di Stato. Sceneggiate come il piano Solo del generale De Lorenzo, coi forestali che occuparono il Viminale nel cuore della notte e se ne andarono di buon mattino senza che nessuno se ne accorgesse. Tranne pochissimi casi, per la politica manifestiamo, scioperiamo, protestiamo, ma non uccidiamo; forse perché siamo un Paese con un’età media molto alta, e a 45 anni si è consapevoli di avere qualcosa da perdere e si è incerti di avere qualcosa da guadagnare. Proprio da queste premesse, quello che succederà negli anni a seguire è un’anomalia; una guerra coperta che nessuno è mai riuscito a spiegare perdendosi in un dedalo di sentenze, smentite, omissioni, depistaggi, testimoni che spariscono e prove che appaiono per magia senza mai portare a niente. Secondo gli storici, l’inizio degli anni di piombo e della strategia della tensione ha una data precisa: piazza Fontana, 12 dicembre 1969. Quel giorno ha cambiato tutto, e meriterà un capitolo a parte.