40 anni dopo, la strage di Ustica è ancora uno dei misteri irrisolti più complessi della storia italiana
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27 giugno 1980, ore 20.08, Bologna, aeroporto Marconi Il volo Itavia Ih870, pilotato dal comandante Domenico Gatti, si stacca dalla pista con due ore di ritardo. È diretto a Palermo, il cielo è sereno e c’è ancora luce. A bordo del Dc-9 ci sono quattro membri dell’equipaggio e 77 passeggeri, tra cui 11 bambini, perlopiù diretti in vacanza. La rotta dell’aereo passa sopra Firenze, il lago di Bolsena, Roma Ciampino, Marsala, finché comincia la discesa per atterrare a Palermo. Durante il volo, il radar della torre di controllo di Roma Ciampino vede il transponder dell’Itavia e gli assegna il codice 1136, una specie di targa che viene data a tutti gli aerei. L’informazione si aggiorna ogni sei secondi, il tempo che impiega l’antenna radar a fare un giro su se stessa. Ore 20.20, Grosseto, aeroporto militare Un F-104 biposto decolla per un pattugliamento. A bordo ci sono i piloti Ivo Nutarelli e Mario Naldini.

La formazione delle frecce il 28 agosto 1988“, in alto a destra Ivo Nutarelli.

Ore 20.26 I radar di Roma Ciampino accusano un malfunzionamento, lo stesso accade al radar della difesa aerea vicino a Ferrara. Il transponder dell’Itavia diventa oggetto non identificato, poi di nuovo 1136. Il radarista di Ciampino contatta l’aereo e gli chiede di identificarsi. “Scusi, che prua avete?”, domanda il radarista. “Abbiamo prua su Grosseto,” risponde il comandante Domenico Gatti. “Adesso vedo che sta rientrando. Quindi diciamo che praticamente è riallineato. Mantenga questa prua.” “Noi non ci siamo mossi,” dice il comandante. Poi, rivolto al copilota: “Ma che dice, questo?”, domanda. Contemporaneamente, l’F-104 di Nutarelli e Naldini lancia il codice 7300, ossia il segnale Nato di emergenza generale. Ore 20.30 Il radar di Ciampino ripete lo stesso errore: secondo lui, il Dc-9 dell’Itavia è un oggetto non identificato. L’addetto contatta di nuovo l’aereo e chiede di resettare il transponder. I piloti eseguono, e sul radar ricompare il 1136. Ore 20.40 L’F-104 di Nutarelli manda di nuovo il segnale d’emergenza che viene captato in tutte le basi militari del Mediterraneo. Il generale Nicolò Bozzo, braccio destro di Carlo Alberto Dalla Chiesa, è in vacanza in Corsica; vede alzarsi in volo dalla base quattro caccia francesi. Da Grosseto si alzano altri quattro F-104 e spengono subito il transponder, cosa che li rende anonimi. Dalla base di Sigonella decolla un F-14 Tomcat americano. Tutto somiglia a uno scramble, termine militare che indica il decollo di uno o più mezzi per intercettare un oggetto non identificato.

Carlo Alberto dalla Chiesa

Ore 20.44, sopra il lago di Bolsena A bordo del Dc-9 il comandante Gatti comunica a Ciampino la propria posizione e che durante il suo passaggio ha trovato “un cimitero”: tutti i radiofari degli aeroporti da Firenze in poi sono spenti. Ciampino conferma, anche il radiofaro di Ponza non funziona. È strano davvero. Immaginate di girare per il centro di Milano di sabato sera e trovare solo serrande chiuse. Ore 20.50 Il comandante Gatti dà l’ultima comunicazione a Roma Ciampino, poi parla ai passeggeri e li avvisa che stanno per atterrare a Palermo. Il tono è tranquillo. Ore 20.56, 12 miglia al largo di Ustica L’Itavia arriva al limite di ricezione da Roma Ciampino. Ora deve passare all’aeroporto di Palermo e iniziare la discesa. In cabina di pilotaggio si scherza e ci si racconta barzellette. Ore 20.58 Il radar di Ciampino, vicino alla traccia radar dell’Itavia, mostra per un istante una seconda traccia. Dopo 29 secondi ne appare un’altra ancora. Sono deboli e scompaiono subito. Ore 20.59 L’ultima parola pronunciata da Gatti è “Gua…”. Poi la traccia 1136 scompare. L’intera aviazione civile va in fibrillazione, in un rimbalzare frenetico di telefonate. Roma chiede alle altre stazioni radar se lo vedono, poi lo chiede a quelle militari, poi alle basi americane. Niente. Alle 22.45, il soccorso aereo di Martina Franca chiama il centro operativo dello Stato maggiore dell’Aeronautica. Ascoltare la telefonata rende bene l’idea della difficoltà di comunicazione e dell’incredulità di quei momenti. Ciampino chiama l’ambasciata Usa ma non serve a nulla: il volo Ih870 è caduto. Alle 23.30 il Tg2 annuncia la scomparsa mentre i soccorsi sono già al lavoro. Ma è buio, i dati dei radar che arrivano sono sbagliati anche di 50 miglia e i mezzi sono scarsi. All’alba, un elicottero della Marina trova dei rottami che galleggiano. Sono sedili, pezzi d’ala, una chiazza di carburante. Poi emergono i corpi. Ne ripescano solo 39: gli altri sono a 3.700 metri di profondità insieme ai resti dell’aereo. Si tratta di un recupero impossibile, dal costo stimato di dieci miliardi di lire. Secondo l’autopsia i passeggeri sono morti per decompressione polmonare e lesioni traumatiche gravissime. Questo significa che la cabina si è spaccata. La scatola nera rivela che tutti i sistemi di volo sono collassati contemporaneamente. Cosa è successo, davvero?

Reperti ritrovati a galla nel punto dell’impatto con il mare
Recupero di una salma dal mare

18 luglio 1980, Timpa delle Magare Addolorata Carchidi, una contadina calabrese, tra le dieci e le undici di mattina dalla soglia di casa vede a 600 metri un aereo militare. Vola basso e le viene incontro, poi vira sulla destra e scompare dietro un costone roccioso. Addolorata sente un boato, poi vede una colonna di fumo nera alzarsi e le fiamme. La stessa scena viene vista a fondovalle da Franco Oliverio, un impiegato Enel, che dichiara: Era fra le dieci e le undici. Eravamo nel podere a Bruzzano io e mio figlio Vincenzo. L’abbiamo visto passare; veniva da destra, dalla parte di Spinello. Ondeggiava. Volava basso, bassissimo. L’ho anche detto a mio figlio. Ha cercato di riprendere quota, volava rasente alle querce, ha fatto fatica a superarle. Poi non l’abbiamo visto più.” Il botto lo sentono anche degli operai del rimboschimento che pensano a una bombola di gas. Lo sente il sindaco Francesco Brisinda e molti altri in paese, tra cui Giuseppe Fabiano, insegnante elementare di Cerenzia. Quando accorrono trovano i resti dell’aereo militare Mig 23, vicino c’è il corpo del pilota, martoriato. Un albero spaccato dall’impatto ha le foglie ancora verdi e stilla linfa. C’è un principio d’incendio e un forte odore di carburante. Quando rimuovono il cadavere, il sangue non è coagulato. Sul casco c’è un nome scritto in arabo.

Resti del Mig Libico schiantatosi sulla Sila in Calabria

Ustica e il Mig sono due tra i misteri più strani nella storia d’Italia. Nessuno ha mai capito se siano collegati o meno, né cosa abbia ucciso 81 civili. Per capirne di più, bisogna guardare più da lontano. All’inizio dei magici anni Ottanta, mentre l’Italia balla Sono solo canzonette e guarda L’Impero colpisce ancora, il Mediterraneo è una polveriera pronta a esplodere. Ci sono le portaerei americane, quelle francesi e la neonata aviazione di Muammar Gheddafi, il leader libico che sogna di unificare i Paesi arabi sotto la sua guida. È al potere da dieci anni, e si è ingrandito in fretta. Grazie ai ricavi del petrolio ha comprato missili Scud dall’Unione Sovietica e caccia Mirage dai francesi, per poi offrirli in aiuto a chiunque sia nemico dell’Occidente. Dal Chad, il signore della guerra Goukuni Oueddei ha promesso di unirsi a lui se Gheddafi lo aiuterà a deporre Hissène Habré, un dittatore controllato dai francesi, che possono così estrarre uranio dal Tibesti. Gheddafi acconsente e le battaglie tra libici e soldati francesi si intensificano, in una guerra sanguinosa quanto snobbata dall’opinione pubblica.

Il Presidente Mu’ammar Gheddafi, 1980

L’Italia, intanto, è il Paese con il partito comunista più grande d’Europa ed è l’ago della bilancia nella guerra fredda tra Usa e Urss; Come tutti gli amanti contesi, tiene il piede in due scarpe prendendosi molte libertà e facendosi perdonare ora da una, ora dall’altra superpotenza. Ufficialmente Gheddafi è il nuovo cattivo mondiale e va isolato. In realtà l’Italia ci fa affari dai tempi di Enrico Mattei e il 40% del nostro fabbisogno energetico dipende dai pozzi e dai gasdotti del Colonnello: in Libia lavorano 25mila operai italiani. L’Italia vende a Gheddafi C-130 civili che lui trasforma in aerei militari grazie alla mediazione di Billy Carter, fratello del presidente degli Stati Uniti che pubblicamente definisce il leader libico “il nemico numero uno”. I piloti militari di Gheddafi si addestrano in Italia e, secondo Panorama, sono addirittura affiancati dall’esercito italiano in Chad contro l’aviazione francese. Non è tutto: in Italia Gheddafi, attraverso il fondo, ha acquisito il 13% della Fiat, ha comprato terreni, palazzi e fabbriche. Roma lo coccola: gli salva la pelle durante la rivolta di Tobruk, poi lo avvisa dell’imminente bombardamento da parte di Ronald Reagan. Assiste inerte all’uccisione dei suoi dissidenti espatriati dal governo italiano. Insomma, forse con l’Italia non ci sono ottimi rapporti, ma di sicuro buoni affari. Più buoni di quanto Francia, Usa e quindi la Nato vorrebbero, ma non hanno molti modi per opporsi. Il deterrente nucleare e la guerra fredda hanno cambiato il modo che hanno gli Stati di combattersi: le guerre si fanno nell’ombra, perché farle alla luce del sole comporterebbe una reazione a catena di portata globale e dagli esiti inimmaginabili.

Con l’ Air Force One sullo sfondo, l’arrivo del President degli Stati Uniti  Jimmy Carter a Roma, con la figlia Amy e la moglie Rosalynn accompagnati dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini (occhiali, a destra), Giugno 1980
Il Presidente Jimmy Carter con il Presidente Italiano Sandro Pertini a Rome, Italy,  Giugno 1980
Billy Carter, fratello del Presidente Jimmy Carter, 1976

In questo contesto, il 3 luglio 1980 la Procura di Roma apre un fascicolo sul disastro e lo affida al Pm Giorgio Santacroce. All’inizio il ministro dei Trasporti, Rino Formica, esclude la collisione in volo o la presenza di altri velivoli. Poco dopo il ritrovamento del Mig 23 sulla Sila, salta fuori che nel Mediterraneo era in corso un’esercitazione militare Nato chiamata Natinad Demon Jam V. Tutti i dati del radar di Ciampino vengono portati a Washington ed esaminati da periti italiani e americani. John Macidull si convince che accanto al Dc-9 Itavia ci fosse almeno un altro aereo, militare, che lo avrebbe abbattuto con un missile a ricerca termica, presumibilmente un Sidewinder. L’anno dopo, si susseguono strane morti. Il 9 maggio 1981, in particolare, muore d’infarto a 32 anni Maurizio Gari. La sera del disastro era capo controllore nella sala radar di Poggio Ballone.  Nel 1984, analizzando alcuni rottami recuperati a galla, si trovano tracce di ciclonite o T4, un esplosivo militare. Il problema è che i rottami, una volta estratti dall’acqua, per essere trasportati a terra sono stati messi nella stiva di navi militari vicino a siluri e bombe di profondità: è possibile, data la scarsissima quantità, che i rottami siano stati contaminati. Bisognerebbe tirare fuori il resto dell’aereo, ma il recupero costa dieci miliardi di lire. Durante un’intervista, Giovanni Spadolini dichiara: “Risolvete il giallo sul Mig della Sila e risolverete il mistero di Ustica.”

Ronald Reagan secondo a sinistra, Giovanni Spadolini primo a destra
Giovanni Spadolini con Ronald Reagan, Roma, 1982

Che significa? Sono due cose collegate? Inizia un tira e molla tra complottismo e metodo induttivo, si cerca disperatamente di collocare la caduta del Mig 23 nella notte di Ustica. Ma ci sono troppi testimoni dello schianto, mentre quella notte nessuno ha sentito nulla. Né boati, né fiamme. Inizia un ritrattare da parte dei medici, rigorosamente in diretta Tv, e si fanno avanti testimoni tanto anonimi quanto inattendibili. L’opinione pubblica, però, adora questa teoria. Il Pm Santacroce si convince che qualcosa non va, e trasforma giuridicamente l’incidente in “strage aviatoria”. Il 30 aprile 1985 decide di fare una simulazione: sullo stesso cielo, alla stessa ora, viene fatto volare un Dc-9 intercettato da un caccia italiano, mentre sia da terra che dal cielo osservano. I tabulati radar sono identici: emerge la possibilità che quelle strane anomalie di oggetto non identificato fossero dovute a un caccia militare di nazionalità e provenienza anonima che, per ingannare i radar, si sarebbe nascosto sotto la fusoliera del Dc-9.

Giuliano Amato, Presidente del Consiglio dei ministri dal 1992 al 1993

Nel 1987, Giuliano Amato decide di spendere i soldi necessari a recuperare il rottame del Dc-9 in fondo al mare, appaltando il recupero alla Ifremer, una ditta francese. Quando lo tirano fuori, tra i resti spunta un serbatoio ausiliario di un caccia, non si sa di che nazionalità. Solitamente i serbatoi si sganciano in caso di emergenza, ma può essere un caso: il Mediterraneo, come diranno poi i Servizi segreti, in quel periodo è assai frequentato dall’aeronautica di molti Stati. Il 31 marzo 1987 trovano impiccato a un albero il maresciallo Mario Alberto Dettori, controllore di difesa aerea a Poggio Ballone. La moglie racconta che la notte di Ustica era tornato a casa sconvolto dicendo “qui vanno tutti in galera.” Nel 1988 i familiari degli 81 passeggeri formano un’associazione e salta fuori il collegamento con i due piloti dell’F104 che aveva segnalato l’allarme generale. Purtroppo i piloti Naldini e Nutarelli muoiono nel tragico incidente delle Frecce tricolori a Ramstein insieme a 49 spettatori. Alcuni dicono sia stato sabotaggio, ma il filmato mostra l’F339 di Nutarelli in anticipo sulla formazione colpire quello dei colleghi durante la manovra denominata “cardioide”. È un errore, anche se stiamo parlando di piloti che solo per essere ammessi all’addestramento devono avere un minimo di 750 ore di volo su caccia.

L’incidente di Ramstein, collisione in volo fra gli Aermacchi MB-339PAN pilotati da Ivo Nutarelli e Mario Naldini, Base NATO di Ramstein, Germania, 28 agosto 1988

Tra teorie su bombe a bordo, missili e collisioni, il 23 luglio 1990 l’inchiesta passa nelle mani del giudice istruttore Rosario Priore, mentre decine di periti nominati dall’associazione delle vittime, dagli americani e dagli inquirenti si danno battaglia: è stato un missile. Sono stati due. È stata una bomba. Servono più dati, così Priore ordina un’altra perizia radaristica. Nel 1991, in seguito al film di Marco Risi e alle polemiche che suscita al Festival di Venezia, nasce l’espressione “muro di gomma”, perché tutte le notizie riportate cadono nel vuoto, non c’è reazione dell’opinione pubblica né seguito dei giornali. Forse è omertà, o forse l’Italia è ubriaca dei soldi finti degli anni Ottanta ed è più impegnata a spenderli, che a occuparsi delle ennesime vittime di attentati a cui è stata abituata per tutto il decennio precedente. Sono i parenti delle vittime a fare la differenza: si uniscono, fanno rumore, danno voce e viso alle loro vittime fino a creare empatia. Nel frattempo l’Itavia è fallita, ma i periti ci sono ancora e nel 1996 dicono che sarebbe possibile, in teoria, che un aereo aggressore sia penetrato nello spazio aereo italiano usando contromisure elettroniche. Per esserne certi, però, servono i tracciati dei radar Nadge della Nato, che sono criptati. E la Nato si è affrettata a dire che sono coperti dal segreto militare. Il problema lo risolvono il Presidente del consiglio Romano Prodi e Walter Veltroni, dopo una lunga trattativa col segretario generale, Javier Solana. Quando i dati vengono decifrati, i periti si trovano davanti a uno scenario complesso, quanto inutile: quella notte c’erano 12 caccia in volo, ma a tutti era stato ordinato di spegnere i transponder, quindi i tracciati sono anonimi. Tutti i militari indagati a vario titolo sono assolti perché il fatto non sussiste.

Romano Prodi e Walter Veltroni

Poi, il 25 gennaio 2007, durante un’intervista a Radio Rai, Francesco Cossiga parla: dice di sapere come sono andate le cose e addirittura di sapere chi sono i colpevoli. Non sono gli Stati Uniti, né la Libia: sono i francesi. Un caccia sarebbe decollato dalla portaerei Clemenceau per intercettare e abbattere un aereo che trasportava Gheddafi dall’Italia alla Libia. Una volta in volo, però, il Colonnello libico avrebbe ricevuto comunicazione dell’agguato dai nostri Servizi e sarebbe tornato indietro appena in tempo. Il caccia francese non lo sapeva: si sarebbe nascosto sotto la pancia del Dc-9 per intercettare Gheddafi senza essere visto, avrebbe trovato solo la scorta dei due caccia libici e li avrebbe affrontati. Nel combattimento aereo, il missile avrebbe agganciato per errore il calore dei motori del Dc-9, abbattendolo.

Presidente della Repubblica Francesco Cossiga
Francesco Cossiga con Ronald Reagan, Roma, 1987

Si tratta di una storia plausibile, ma non sappiamo se è vera. Quantomeno spiegherebbe l’omertà e il silenzio delle autorità militari di quegli anni. Fuori dall’ideologia tifosa e dall’iconografia cinematografica, forze armate e Servizi segreti lavorano e giurano fedeltà al proprio Paese. La sola motivazione immaginabile all’occultamento di prove è la paura di un effetto a catena talmente catastrofico da far considerare 81 morti senza colpevole la scelta meno pesante. Forse oggi sarebbe diverso, ma nel 1980 il muro di Berlino non era ancora caduto, chi cercava di scappare dal blocco est veniva fucilato, l’Italia era nel pieno degli anni di Piombo. Cosa sarebbe successo se un Paese membro della Nato avesse fatto una strage, pur se accidentale, tra i civili di un Paese alleato e ago della bilancia tra le due superpotenze? Quella “portaerei nel Mediterraneo” che aveva al suo interno arsenali nascosti ed eserciti di truppe irregolari pronte all’azione, come avrebbe reagito? Quanto si è disposti a rischiare, per saperlo? Oggi che il mondo è cambiato e stenta a riconoscersi, o a ricordare il proprio passato, forse dire la verità sarebbe più semplice. Di Ustica, comunque, si parla ancora.

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